Salies-de-Béarn, fine ottobre 1943
Passò qualche mese. A settembre Alice iniziò a frequentare la scuola di Salies. Il fatto di doverci andare tutti i giorni non le piaceva per niente. C’era troppa gente, lei si sentiva diversa e questo la rendeva inquieta. Nei giorni feriali aspettava con impazienza il fine settimana, che però finiva sempre troppo presto, e ogni lunedì mattina Jeanne le diceva: «Fai colazione».
«Non ho fame.»
«Devi metterti in forze.»
«Credo di essere malata.»
Sempre lo stesso dialogo, che si concludeva invariabilmente con Alice che usciva recalcitrante per andare a scuola. Il lunedì mattina avvertiva un malessere. Come se avesse un peso sul petto che poi si diffondeva in tutto il corpo. Un tremito interno che la paralizzava. Jeanne non sembrava preoccupata, era un’apprensione normale, così diceva lei, e le preparava la colazione con lo stesso affetto, le rivolgeva le stesse attenzioni degli altri giorni.
Eppure, più l’ora della campanella che annunciava la ripresa delle lezioni si avvicinava, più la sensazione di malessere si acuiva. Non era il fatto di dover studiare, né la maestra. No, era qualcosa di inspiegabile, come un brutto presentimento.
«Ma tu mi guardi?»
«Sì, tesoro.»
«Fino al secondo albero.»
«Sì, vai, fa freddo e se non ti muovi farai tardi.»
Jeanne doveva seguire Alice con lo sguardo il più a lungo possibile. Avevano fatto le prove insieme: da casa Jeanne poteva vederla per buona parte del tragitto, fino al secondo grande abete. In quel modo Alice era costretta a fare un giro più lungo, ma preferiva sentire lo sguardo di Jeanne su di sé piuttosto che ritrovarsi da sola. Dopo l’abete iniziava una discesa. A quel punto era impossibile vederla dalla fattoria. E a quel punto, per i pochi metri restanti, Alice veniva colta da una paura ancora più forte, così allungava il passo per raggiungere il villaggio. Il malessere spariva quando incontrava un compagno.
«Ciao, Alice!»
Due parole che le bastavano per ritrovare l’equilibrio.
Quel lunedì, ancora più del solito, sentiva che qualcosa non andava. Le faceva male la pancia e sudava molto. Persino il cinguettio degli uccelli l’aveva fatta sussultare. Non era normale. Che cosa le sarebbe successo? Se solo qualcuno le avesse potuto rispondere subito! Ma a chi chiedere? L’avrebbero presa per pazza.
Era tutta la giornata che aspettava una brutta notizia e quando la campanella suonò le ci volle un po’ per alzarsi. Non era successo niente. Non le sembrava vero. Cominciò a pensare che Jeanne aveva ragione: era inutile avere paura.
Due giorni dopo, mentre in cortile stava andando verso Claudine e Giselle, loro la scacciarono e si allontanarono. Sorpresa, Alice le seguì e insistette per giocare con loro. Le due complici le dissero freddamente: «Noi non siamo tue amiche!».
«Non puoi stare con noi!»
Alice pensò che fosse uno scherzo e aspettò pazientemente la ricreazione successiva per tentare di avvicinarle di nuovo. Stavolta tutti gli scolari, anche quelli grandi che conosceva a stento, la ignorarono. Le orecchie iniziarono a fischiarle. Si guardò intorno: cosa doveva fare? Scappare via da scuola? Nascondersi nei bagni? Si avvicinò a un gruppo di bambine che giocavano a campana. Loro si fermarono subito e si misero a bisbigliare. Poi iniziarono a ridacchiare lanciandole delle occhiate sprezzanti. Era evidente, la stavano prendendo in giro. Alice aveva l’impressione che le loro risatine si propagassero da un bambino all’altro, come onde, in tutto il cortile.
«E comunque Madame Jeanne non è la tua vera madre. Sei una straniera.»
«E magari sei anche una spia.»
Alice sentì svariati «Già!», «Ben detto!», «Brutta spia!», che arrivavano da tutte le direzioni. Si tappò le orecchie con tutta la forza che aveva, ma qualcuno sopraggiunse alle sue spalle, le staccò le mani dalle orecchie e le gridò: «Traditrice!».
Alice girò su se stessa, senza fiato. Cosa le avrebbero fatto? Cosa le avrebbero detto? Lei non era come loro, ecco cosa li disturbava. Ma perché non si facevano i fatti loro? Era vero che da un po’ di tempo anche lei si faceva delle domande. Jeanne era una sua parente? Chi erano i suoi genitori? Prima o poi li avrebbe visti? Perché l’avevano abbandonata? Avrebbe voluto chiederlo a Jeanne, ma aveva paura di ferirla. E se Jeanne avesse smesso di parlarle o, peggio, l’avesse abbandonata a sua volta? Aveva paura di dover stare da sola nel bosco. Aveva preferito tacere, sperando che nulla alterasse il fragile equilibrio della sua situazione.
E ora quell’equilibrio si era spezzato.
Alice aveva la sensazione che i piedi le si fossero pietrificati. Non sentiva più i rumori del cortile, le risate, le palle che rimbalzavano, le grida di vittoria o di sconfitta, l’eco dei passi, dei salti: era tutto attutito. E lei era sola. Con il cuore stretto e l’espressione più determinata possibile, si diresse verso le scale accanto ai bagni e si sedette sui gradini. Pensò che non sarebbe mai più riuscita ad alzarsi, ma non voleva che gli altri si accorgessero della sua paura, era come dargliela vinta. Fece finta di osservare qualcosa d’interessante, come se nulla la toccasse. In realtà, contava i secondi. Quattrocentoventidue prima che la maestra andasse a cercarli per farli rientrare in classe. Quando si misero in fila nessuno prese posto accanto a lei. Una volta seduta, la sua compagna di banco piazzò un righello per separare i rispettivi spazi, un confine che Alice non doveva superare per nessun motivo.
All’uscita da scuola si mise a correre come se ne andasse della sua vita. Allontanarsi in fretta e non tornare più. Mai più. Una volta arrivata alla fattoria, salì direttamente in camera sua e si chiuse dentro.
«Tutto bene, tesoro?» le chiese la balia, stupita, aprendo delicatamente la porta qualche minuto più tardi.
«Sì, mi fa un po’ male la testa.»
«E va bene, adesso ti preparo una bella zuppa come piace a te, con le verdure schiacciate per bene. Tu intanto riposati. Stai abbastanza al caldo?»
«Sì.»
«Vuoi che vada a chiamare il dottore?»
«No.»
Alice ringraziò Jeanne e aspettò che tornasse al piano di sotto, poi si sedette davanti alla finestra. Osservò i campi a perdita d’occhio, coperti di neve, i fuochi che venivano accesi nelle fattorie vicine. Il cielo si tinse di arancione e poi di rosso e ben presto il sole scomparve. Restò immobile a lungo, senza pensare al tempo che passava. Anzi, senza pensare proprio a niente: guardava semplicemente la notte che scendeva. Se solo quel momento fosse durato per sempre. Se solo avesse potuto vivere senza gli altri, se le domande fossero cessate.
La voce di Jeanne che la chiamava interruppe le sue fantasticherie. Era ora di andare a tavola.
«È successo qualcosa, tesoro?»
Alice scosse la testa.
«Forza, mangia.»
«Non ho fame.»
«Mangia un pochino, fammi contenta.»
Alice, però, aveva un nodo in gola. Jeanne la guardò per un istante: il silenzio non poteva durare ancora a lungo.
«Sai che a me puoi dire tutto, vero?»
«Sì.»
«Ti hanno fatto arrabbiare a scuola?»
«No.»
«Sei sicura? Non mi diresti una bugia, vero?»
Alice diventò tutta rossa. Agli angoli degli occhi le spuntarono le lacrime e finì per raccontare una parte del trattamento che le avevano riservato i suoi compagni. Non fece però cenno al motivo, non disse nulla delle allusioni riguardo ai suoi genitori. Toccare quell’argomento significava affrontare una conversazione per la quale non era pronta.
«Sai, tesoro, le persone si comportano quasi tutte come pecore. C’è un capo e gli altri non fanno altro che seguirlo. Ignorali. Vedrai, torneranno.»
«Ma come?»
«Tu non li guardare. Leggi, disegna, passeggia. Loro torneranno.»
Alice non era del tutto convinta, ma mise comunque in pratica i consigli di Jeanne. La balia le scrisse una giustificazione, la mise in una busta e la chiuse. Alice non ne conosceva il contenuto. Doveva consegnare tutto alla maestra per avere il permesso di restare da sola in classe durante la ricreazione. Mentre andava a scuola, ebbe molte volte la tentazione di aprirla, ma aveva paura di sciuparla. Da quella giustificazione dipendeva la reazione della maestra. Con quella giustificazione cominciava la lotta contro le pecore. Per tutto il tragitto tenne stretta la busta con due mani, come se si trattasse di un tesoro.
Una volta arrivata a scuola, ignorò le occhiatacce dei suoi vecchi amici e corse direttamente in classe.
Madame Jeanson era già lì. Alice si avvicinò alla cattedra a piccoli passi.
Non sapeva più se era davvero quella la cosa giusta da fare. Temeva che la maestra avrebbe letto la lettera davanti a tutti e che i suoi compagni l’avrebbero presa in giro ancora di più. Ma non le restava molto tempo: presto sarebbero iniziate le lezioni e, se non si decideva subito, dopo non avrebbe più potuto farlo. Sarebbe dovuta andare in cortile con tutti gli altri durante la ricreazione.
Fece un respiro profondo e poi, tutto d’un fiato, disse alla maestra: «Madame Jeanson, questa è per lei».
La maestra prese la lettera.
Leggendola, scosse varie volte la testa.
«Benissimo, Alice, potrai restare in classe se ti fa piacere.»
«Grazie, signora.»
«E se hai voglia di parlare con me, io sono qui. Non sei sola.»
Alice abbozzò un sorriso e ringraziò la maestra.
Come previsto, durante la ricreazione tutti gli scolari scesero in cortile e lei si ritrovò da sola in classe. Si concesse anche il piacere di rubacchiare qualche matita a Claudine e un po’ di carta assorbente a Giselle per disegnare. In fin dei conti era quasi una privilegiata. Durante l’intervallo di mezzogiorno passeggiò in cortile, senza guardare gli altri e senza parlare con nessuno. Era in una bolla, protetta dal silenzio. Ogni volta che le arrivava all’orecchio qualche battutina che scalfiva la sua corazza, si ripeteva ciò che le aveva detto Jeanne: «Sono pecore».
Con sua grande sorpresa, l’indomani Marie, una bambina della sua età con la quale fino a quel momento aveva parlato molto raramente, prese posto accanto a lei mentre erano in fila. Senza dire una parola Marie le rivolse un grande sorriso. Alice ricambiò. Eppure, sulla soglia della classe, non riuscì a impedirsi di chiederle: «Perché ti sei messa vicino a me?».
«Così» le rispose la compagna andandosi a sedere.
Così. Cioè senza un motivo. Respinta senza motivo, amata senza motivo, Alice non capiva più niente.
Alla ricreazione successiva Marie tornò da lei con altre due bambine e le propose di giocare all’impiccato. Tirò fuori qualche gessetto dalla tasca e disegnò delle linee a terra.
«Primo indizio: è una cosa» precisò.
All’inizio le altre due bambine sembravano in imbarazzo, ma ben presto il gioco le appassionò e misero da parte ogni remora.
«E?» disse una.
«No!»
«C?» propose l’altra.
«Sì!»
«A?»
«Sì!»
«Aspetta, è cacca la tua parola?» chiese Alice stupita.
«Sì!» rispose Marie scoppiando a ridere.
Le altre fecero altrettanto.
«Ha scritto “cacca”!»
«Tu lo dici e tu lo sei!»
E risero ancora di più. Ormai era chiaro, in quel gruppetto non c’erano più pecore.
«Tocca a me scrivere una parola!» disse Alice. «No, anzi: sono due parole.»
«Ma non puoi!» le fece notare una delle bambine.
«Sì, adesso capirai. È una cosa.»
Dopo qualche minuto fu Marie la prima a indovinare: «Di capra!».
Alice annuì ridendo e le nuove amiche gridarono in coro: «Cacca di capra!».
Si scompisciarono tutte. Com’era bello ridere così! Improvvisamente, però, Alice si accorse delle occhiatacce di Claudine e Giselle a qualche metro di distanza da loro. Le si gelò il sangue. Era dura, ma non lasciò trapelare nulla. Marie, che non aveva visto niente, propose: «Giochiamo a campana?».
Alice accettò. Quella campana fu la più impegnativa della sua vita. Ogni salto era di un’importanza vitale: non doveva cadere, doveva avere l’espressione felice, spensierata, doveva vincere perché Marie le volesse bene. Marie aveva sempre i giocattoli più belli, i vestiti più belli. Era la figlia del dottore e viveva in una casa grandissima. Sarebbe stato meraviglioso se fosse diventata veramente sua amica. Saltare in alto, arrivare lontano. Fare felice Marie. Se Marie le avesse voluto bene, si sarebbe sistemato tutto.
Durante la ricreazione del pomeriggio, Alice ebbe la conferma che Jeanne aveva ragione: le pecore seguivano il pastore. Altre bambine più vicine a Marie che al gruppo di Giselle si unirono a loro. Evidentemente le avevano osservate quella mattina e avevano soppesato i pro e i contro tra rimanere da sole e imbronciate e giocare con Alice. Tre di quelle bambine fecero il primo passo e chiesero a Marie e Alice se potevano unirsi a loro. Adesso erano sette. Decisero di giocare a rialzo. Alice andava pazza per quel gioco. Correva veloce e con Crème aveva imparato ad arrampicarsi quasi dappertutto.
Dopo qualche minuto Claudine si avvicinò a Marie. Alice rimase pietrificata. Aveva una gran paura che finisse tutto e che Marie la abbandonasse. Scese dal gradino su cui si era appollaiata e si diresse verso di loro. Sentì un dolore che le trafiggeva la pancia, come se stesse ricevendo tante piccole coltellate.
«Possiamo giocare insieme?» chiese Claudine.
Marie interrogò Alice con lo sguardo. Tutte le bambine rimasero in silenzio, in attesa della sua risposta. Alice non riusciva a crederci. Claudine aveva perso tutta la sua baldanza. Faceva fatica a stare dritta. Balbettava e parlava a voce sempre più alta per compensare, come se non fosse successo nulla. Dietro di lei, Giselle spostava il peso da una gamba all’altra, sforzandosi di non guardare nella direzione di Alice. Quindi era Claudine il capo delle pecore, colei che aveva combattuto quella battaglia ingiusta. Aveva voluto ferire Alice, isolarla, allontanare tutti gli altri da lei. Ma aveva perso. Quella vittoria bastava.
«Sì, se vuoi puoi giocare con noi.»
Nei giorni seguenti andò sempre meglio. Il lunedì Alice non aveva più paura e neanche le altre mattine. Quello che spiegava la maestra le piaceva. Natale si avvicinava e tutti i bambini della classe fabbricavano vasi di terracotta da regalare ai genitori.
Era un periodo piacevole. Anche Jeanne la pensava così. Una sera, mentre decoravano la casa, aveva detto: «Quando le giornate sono corte, sono anche più intense. Come se il buio e la poca luce spingessero le persone ad avvicinarsi».
Alice, però, aveva la testa piena di questioni irrisolte. Era più forte di lei, non riusciva nemmeno più a dormire. Appena si coricava, le domande la assalivano una dopo l’altra per ore intere, senza che riuscisse a trovare delle risposte per arginarle. Perché viveva a casa di Jeanne? Un giorno sua madre sarebbe andata a cercarla? Qualche volta la incontrava senza saperlo? I suoi genitori erano morti?
Quei misteri la sfinivano. Come i Pirenei all’orizzonte: erano una montagna ripida da scalare senza nessun aiuto. Intorno a lei non c’era nessuno che condividesse la sua situazione.
Avrebbe voluto soltanto andare avanti e che le cose smettessero di essere tutte così complicate. Più i giorni passavano, più la tortura diventava insopportabile. Bisognava darci un taglio. Ma come? Come scoprire la verità senza ferire nessuno? Senza che le bambine della scuola ricominciassero a isolarla? Era un problema senza soluzione.
Una mattina Marie distribuì delle belle lettere a tutte le bambine della classe. C’era scritto: “Sei invitata al compleanno di Marie questo sabato a partire dalle tre”. L’indirizzo non era specificato, ma tutti sapevano dove abitava il dottore.
Un compleanno! Era la prima volta che Alice riceveva un invito del genere. Era emozionata e terrorizzata allo stesso tempo: cosa si faceva a un compleanno? Lo chiese a Jeanne, ma per tutta risposta la balia le fece un’altra domanda: «Come ti vestiremo?».
La festa di Marie le assorbì completamente per giorni.
«Ma non lo so come si vestiranno le altre!» s’innervosiva Alice.
«Non sono sicura che i vestiti della messa vadano bene.»
«Di certo non posso andarci in grembiule!»
Alice si provava un vestito, Jeanne la osservava e rifletteva. Alla fine si misero d’accordo: avrebbe indossato una camicia bianca, la stessa che si metteva per la messa, e la gonna plissettata con cui andava a scuola. Quella settimana l’avrebbero lavata due volte. Jeanne le avrebbe fatto i boccoli e le avrebbe messo un nastro tra i capelli.
Non avevano fatto in tempo a risolvere il problema dell’abbigliamento che ne saltò fuori un altro. Un problema enorme: «Giselle e Claudine le regaleranno delle matite colorate e della carta da disegno».
«Matite! Costano una fortuna!»
Alice annuì.
«Mi dispiace tanto, tesoro, ma io non posso comprarle proprio niente.»
«Non posso presentarmi a mani vuote!»
«No, non puoi.»
Jeanne le propose di portare un po’ di uova. Alice si rifiutò: sarebbe stato troppo strano. La balia fu d’accordo e setacciò la casa per vedere se c’era un oggetto adatto a essere regalato.
«Guarda, potrei ricamare il nome di Marie su questo fazzoletto.»
Che tristezza. Jeanne ci metteva tutta la fantasia e la buona volontà, ma nessuna delle sue proposte andava bene. E senza regalo Alice non poteva andare da Marie, sarebbe stato troppo umiliante. Le faceva rabbia essere povera. Essere povera era sempre un problema e affliggeva lei e gli altri.
Una sera, mentre preparava la zuppa, Jeanne si voltò verso Alice e le disse piena di entusiasmo: «E se preparassimo una torta di mele?».
«Una torta di mele?»
«Sì! Quella che ti piace tanto! Con sopra le fettine sottili di mela e lo zucchero. Potremmo scriverci “Marie” e metterla in un bel piatto…»
Alice rispose con un grande sorriso. Era il suo dolce preferito, quello che aspettava per giorni prima del suo compleanno e prima di Natale… Sarebbero andate a cogliere le mele insieme e avrebbero preparato l’impasto la sera prima. Avrebbero confezionato la torta il sabato presto perché ci fosse il tempo di farla raffreddare prima di mangiarla. Questo significava niente zucchero né uova per tutta la settimana seguente, e forse anche per qualche altro giorno, ma non importava, Marie avrebbe avuto la torta migliore del mondo per il suo compleanno e l’avrebbe ricevuta da Alice! Che idea meravigliosa!
«Credo che verranno anche le mamme di Madeleine e di Jeannette e che si fermeranno a prendere un tè con quella di Marie.»
«E ti hanno chiesto qualcosa?»
In realtà in cortile Marie aveva detto che le mamme che volevano potevano restare tutte. Quelle mamme del paese erano tutte curate, eleganti. Alice adorava Jeanne, ma non le sfuggiva affatto che c’era una differenza tra di loro. Jeanne aveva sempre le mani un po’ sporche. Lo scialletto che si metteva in testa non copriva del tutto i capelli bianchi arruffati, le sue gonne erano strappate in certi punti e anche se si lavava regolarmente i vestiti la vita alla fattoria comportava ogni giorno un bel po’ di macchie: una gallina che fa la cacca, una mucca che sbava, un po’ di fango che ti si appiccica addosso… Quel sabato sarebbe stato un giorno come tutti gli altri e Jeanne si sarebbe sporcata. Alice non voleva che la mamma di Marie offrisse alla sua balia una sedia diversa o che le si rivolgesse come se fosse una stupida. Al mercato lo aveva visto fare a qualcuno.
«No, non mi hanno chiesto niente.»
Jeanne guardò Alice per un attimo e annuì.
«Sai, tesoro, quelle donne… a dire il vero non è il mio mondo. Penso che sia meglio che tu ci vada da sola.»
Jeanne aveva capito. Alice provò un po’ di vergogna, ma quel compleanno era troppo importante… Se Jeanne ci fosse andata, si sarebbero sentiti tutti a disagio e lei non voleva mettere in imbarazzo nessuno.
«Promettimi di fare la brava e di giocare ai giochi che proporrà Marie.»
Alice annuì e promise anche che avrebbe mangiato insieme agli altri e che avrebbe chiesto il permesso per andare in bagno.
Il giorno tanto atteso e tanto temuto arrivò. Jeanne accompagnò Alice fino all’angolo della strada. Alice bussò e la mamma di Marie aprì la porta. Era ancora più bella di quanto avesse immaginato: un’acconciatura impeccabile, messa in risalto da un cappellino bianco, un vestito di lana stretto in vita e un bel paio di scarpe. Marie arrivò dopo qualche istante, anche lei vestita di bianco, e quando Alice le porse il piatto con la torta, le rivolse un grande sorriso ringraziandola. Tutti i timori di Alice svanirono e le due amichette salirono al piano di sopra per giocare con le altre compagne, che erano già lì.
«Claudine deve ancora arrivare. E aspettiamo anche Martine, Lison, Jeannette e Madeleine» precisò Marie.
Si misero a giocare a far da mangiare. A turno facevano le lattaie, le droghiere, le contadine e vendevano i loro prodotti per preparare la festa di compleanno di Madame Marie. Arance, vaniglia del Madagascar, cumino, noci di cocco delle Antille, tè di Ceylon, uova di struzzo, carne di squalo… Si scambiavano i prodotti più rari e stravaganti. Quando furono arrivate tutte, sorseggiarono un tè immaginario con dei dolcetti immaginari come li fanno in Inghilterra.
«Si chiamano scones» precisò Marie.
Suo padre poteva testimoniarlo, da giovane era stato a Londra. Poi giocarono a saltare con la corda e agli indovinelli. Infine la mamma di Marie andò ad avvisarle che avrebbero tagliato la torta di lì a una ventina di minuti. Nell’attesa, Claudine propose di giocare con le bambole.
«Ma… siamo tante, no?» fece notare Alice, preoccupata.
Marie appoggiò la mano su quella di Alice e le disse sorridendo: «Non preoccuparti, ne ho abbastanza per tutte».
Poi si alzò, si lisciò il vestito e si diresse verso il grande armadio di legno rosa. Quando aprì le due ante che quasi sfioravano il soffitto, Alice rimase esterrefatta: sui ripiani erano sistemate una decina di bambole. Sembrava che si guardassero in attesa che qualcuno giocasse con loro. Alice non ne aveva mai viste così tante, tutte belle. C’erano dei neonati senza capelli, con dei bei vestitini all’uncinetto, e delle bambine, una bionda con i boccoli e un vestito di seta rosa, una morettina vestita da marinaretta, una con i capelli rossi, la coda di cavallo e un completo scozzese… Erano meravigliose! Alice sarebbe potuta rimanere a guardarle per ore. Aveva sempre sognato di possedere una bambola vera. Jeanne gliene aveva fatta una con qualche pezzo di stoffa e di legno e i bottoni al posto degli occhi, ma non era assolutamente la stessa cosa. Quelle lì sembravano bambine vere.
Marie iniziò a distribuirle. Diede il bambolotto neonato a Jeannette e la bella bambina bionda con i boccoli a Claudine, che ne sembrò entusiasta. Alice era delusa, perché le sarebbe piaciuto che quella bambola toccasse a lei. Si aspettava che Marie le desse la scozzese, ma la assegnò a Lison. Di lì a qualche minuto tutte le bambine ne avevano una tranne Alice, e nell’armadio restava soltanto la marinaretta.
«Questa la prendo io» disse Marie prendendola in braccio.
Alice chinò la testa. Non era rimasta neanche una bambola per lei. Forse, quando si viveva in una fattoria, non si aveva diritto a una bambola? Si stava sforzando di non piangere, quando Marie la prese per mano.
«Vieni, ho qualcosa per te.»
La portò davanti all’armadio e aprì un grande cassetto. Dentro, su una coperta di lana, era distesa una bambola magnifica. Aveva dei boccoli castani di seta, le lentiggini, e portava un diadema.
«È una principessa ed è molto antica. Mio padre mi ha detto che proveniva dalla Russia» le spiegò Marie.
Alice non aveva mai visto niente di così bello.
«Penso che ti assomigli, perciò se vuoi puoi giocarci» disse Marie allungandole la bambola.
Alice non sapeva più cosa dire. Accettò. Non aveva quasi il coraggio di toccare il bel vestito della principessa russa. La stoffa era morbidissima.
«È velluto» le spiegò Marie. «E il diadema è d’argento.»
Incredibile. Una principessa vera con gioielli veri, e ci avrebbe giocato lei! Marie le aveva affidato la sua bambola più bella. Alice non sapeva perché, ma non aveva intenzione di chiederlo. Non voleva rischiare che gliela portassero via. Incrociò lo sguardo invidioso di Claudine, ma non ci fece caso.
«Allora, giochiamo o no?» chiese Lison.
«Sì! Forza!» rispose Marie.
«Possiamo fare finta che abbiamo tutte un bambino e che nostro marito è in guerra. Come mio padre» aggiunse Claudine dopo un po’.
Le bambine annuirono. Ad Alice, però, si strinse il cuore.
«Allora, tu come la chiami la tua bambina?» chiese Giselle a Claudine.
«Audrey. E tu?»
La stessa domanda passò di bocca in bocca, fino ad arrivare ad Alice.
«Non lo so.»
«Devi darle un nome. Bisogna sempre dare un nome al proprio bambino.»
Alice aveva caldo. Alice. Perché si chiamava così? Non ci aveva mai pensato. Era il nome che aveva scelto per lei sua madre? Quello di una nonna? Oppure era un’invenzione di Jeanne? Come poteva saperlo?
«Possiamo aprire la finestra?» chiese a Marie.
«No, mia madre dice che poi fa troppo freddo.»
«E allora, Alice, come vuoi chiamare la tua bambina?» insistette Claudine.
«Non voglio più giocare con le bambole. Scusatemi.»
«Ma giochiamo tutte, è per il compleanno di Marie.»
«Se non giochi, il bebè sei tu» la prese in giro Giselle.
Le altre scoppiarono a ridere. Alice fu colta dalle vertigini: le domande la assalivano e, con esse, il vuoto. Si alzò, appoggiò la principessa russa su un cuscino, e indietreggiò.
«Vado a sedermi sul letto per qualche minuto.»
Marie le lanciò un’occhiata interrogativa, ma Alice aveva l’impressione che se non si fosse allontanata si sarebbe sentita male. Si distese sul materasso. Claudine, però, non era d’accordo.
«Abbiamo detto che giocavamo, smettila di fare storie.»
Alice tremava.
«Mi fa tanto male la pancia, scusatemi. Ma sono qui.»
«No, non sei qui proprio per niente se stai sul letto!»
«Lo giuro, sento tutto, è uguale.»
Le bambine iniziarono a borbottare: «In effetti così non vale».
Nonostante la sensazione che intorno a lei girasse tutto, che il suo stesso corpo la abbandonasse, Alice sentiva la collera che le montava dentro. Perché non riusciva a dare un nome a una bambola? Era facile! Avrebbe potuto chiamarla Jeanne, o Marie: conosceva un sacco di nomi. Ma proprio non ci riusciva. E sentiva tanto caldo.
«Non voglio avere una bambina» concluse.
Credeva di aver messo fine a quella conversazione. E invece, con la stessa sicurezza di quando non aveva voluto giocare con lei nel cortile della scuola, Claudine la attaccò: «Come tua madre!».
La stanza fu invasa da un silenzio di piombo.
«Sì, insomma, altrimenti sarebbe qui!» insistette Claudine.
Un lampo nella testa di Alice. Scattò verso Claudine e le colpì le braccia, poi il viso. Le pestò i piedi. Una botta dopo l’altra, implacabile. Era come se niente potesse fermarla. Claudine diventò così pallida che tutte le altre ammutolirono. Nessuno capiva cosa stesse succedendo. A un certo punto Claudine si lasciò cadere a terra e intanto sferrò un calcio nella pancia ad Alice, che gridò. Le faceva male, ma era talmente furiosa che dimenticò il dolore. Con i suoi piccoli pugni colpì l’avversaria. Colpiva e graffiava a caso. Non si ricordava più dov’era né chi stava colpendo. Menava le mani, punto e basta. Le altre bambine la supplicavano di fermarsi, ma le loro parole le sembravano lontane, come avvolte da una stoffa spessa.
Dopo un po’ due mani la afferrarono da dietro e la immobilizzarono: era il padre di Marie. Sentendo quel fracasso, i genitori erano accorsi. Il dottore guardava Alice, stupefatto. Lei si rese improvvisamente conto del proprio stato: la camicia strappata, la gonna sbottonata, le calze scese fino alle caviglie. A Claudine usciva sangue dal naso e aveva le braccia coperte di segni rossi.
«Alice, mi senti? Che ti è preso? Dimmelo!» insisteva il dottore. Era arrabbiato. Alice si vergognava. E mentre lei incassava i rimproveri, Claudine, nascosta dietro gli adulti, le faceva le boccacce. Prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare, a quella maledetta!
«Secondo me è meglio che adesso torni a casa.»
Alice capì che insistere non serviva a niente. Salutò Marie, i grandi e le altre bambine. Si tirò su le calze e si avviò verso casa da sola. Per tutto il tragitto si sforzò di non piangere. Non era triste per la sgridata. Era triste perché Claudine aveva ragione: sua madre non l’aveva voluta.
Vedendola arrivare così presto, e in quello stato, Jeanne non trovò le parole. Si limitò a fissarla con un’espressione meravigliata. Ad Alice bastò per scoppiare a piangere. Un fiume di lacrime, cariche di tutto il suo dolore.
«Cos’è successo?»
«Niente.»
«Alice, dimmelo.»
«Niente. Abbiamo litigato e io e Claudine ci siamo picchiate.»
«Claudine… Quella che ti aveva detto quelle cose cattive?»
Alice non rispose.
«Ma cosa ti ha fatto?»
Ancora silenzio. A quel punto Jeanne la guardò negli occhi e le disse: «Piccola mia, lo sai che se non mi dici niente non posso aiutarti. E io sono qui per questo».
Alice sapeva benissimo cosa c’era che non andava, ma dirlo era troppo difficile. Soprattutto a Jeanne. Dopo un lungo istante di esitazione, mormorò: «Non sono normale».
«Ma che dici!» ribatté Jeanne, e aggiunse con disinvoltura, quasi ridendo: «Io vedo una bambina con due braccia, due gambe, la normalità assoluta!».
Come poteva prenderla in giro? La collera s’impossessò di nuovo di lei ed esplose: «Dov’è mia madre? Quando verranno a prendermi i miei genitori?».
Tra una domanda e l’altra Alice singhiozzava, batteva i piedi a terra e si colpiva le cosce. Non riusciva a liberarsi da quella rabbia. Soffocava, le gambe le bruciavano, aveva voglia di rompere tutto, di devastare la fattoria, le galline, odiava tutti!
«Alice, non ho intenzione di giocare a questo gioco. Se hai delle domande da farmi ne parleremo. Ma non così. Prima devi calmarti.»
Alice, però, non era più in grado di pensare. Jeanne l’afferrò per le braccia e la chiuse fuori. Non aveva né cappotto né sciarpa, e il vento glaciale, pieno di piccoli fiocchi di neve, l’anestetizzò di colpo. Si rannicchiò e dopo qualche minuto ricominciò a respirare in modo più regolare.
A quel punto ebbe il permesso di rientrare. Si sentiva spossata. Jeanne la prese in braccio e la strinse forte. Senza dire niente, Alice si concentrò sui movimenti del suo grande petto, i battiti regolari del suo cuore. Uno-due. Uno-due. Le palpebre le diventarono pesanti. Uno-due. Uno-due. Annusava il collo di Jeanne, quell’odore che conosceva tanto bene. Uno-due. Uno-due. E poi più niente.
Fu svegliata dal canto del gallo. Era nel suo letto. Le tornarono in mente alcune immagini della sera prima. Non ricordava di essersi coricata. Che avesse sognato tutta quella storia? Si rigirò sotto la coperta e avvertì un dolore lancinante all’anca destra. Si sollevò la camicia da notte e vide un grosso livido violaceo. Il calcio di Claudine. I suoi ricordi erano assolutamente reali. Si vergognava. E aveva anche paura, perché Jeanne doveva essere furiosa. Cosa sarebbe successo? Per quanto tempo avrebbe potuto rimanere nascosta lì senza che nessuno andasse a cercarla? Non sarebbe più tornata a scuola e non avrebbe parlato mai più con nessuno.
Jeanne aprì la porta della sua stanza.
«Buongiorno, tesoro. Seguimi, ho una sorpresa per te.»
«Non è ora di mangiare?»
«Più tardi.»
Alice, diffidente ma curiosa, si infilò in fretta la vestaglia e saltò giù dal letto.
Jeanne la prese per mano e tirò giù una scala da una botola nascosta nel soffitto del corridoio: Alice non l’aveva mai notata. La balia la invitò a salire. La soffitta era buia, piena di oggetti. C’erano una divisa da soldato, alcune bottiglie di alcolici, un telaio e altre cose che Alice faceva fatica a identificare.
«Vedi quella valigia laggiù?»
Strizzando gli occhi Alice fissò il punto che Jeanne le indicava. Eccola, la valigia.
«Tua madre ha messo lì dentro le tue cose quando ti ha portato qui.»
«Mia madre? Qui?»
«Sì. Se vuoi puoi guardarle, in fondo sono tue. Adesso sei abbastanza grande.»
Se sua madre era andata lì voleva dire che esisteva davvero! Quella valigia era una parte di lei, che era sempre stata lì, qualche metro al di sopra del suo letto. Era più di un tesoro. Era più di una magia. Forse conteneva qualche risposta. Alice strinse la mano di Jeanne. Con passo esitante si avvicinarono alla valigia.