Salies-de-Béarn, novembre 1943
Alice sperava con tutta se stessa che aprendo quella valigia succedesse qualcosa: un clic, un segno. Magari si sarebbe ricordata la faccia di sua madre? Un oggetto poteva provocare quel genere di reazione? Prima di fare l’ultimo passo, si fermò. Aveva così paura che la valigia fosse vuota che non riusciva più ad andare avanti. Cercò lo sguardo di Jeanne e si sorprese a sbadigliare.
«Non avere paura, tesoro» la incoraggiò la balia. «Forza, aprila.»
Alice, rassicurata, s’inginocchiò. La valigia di pelle marrone era piuttosto piccola, più o meno tre volte il suo avambraccio. Era tutta rovinata in basso a destra e la pelle era consunta. Alice fece scattare le chiusure con cautela e aprì lentamente. Sopra c’era una specie di canovaccio.
«No, è un lenzuolino da neonato. Ce ne sono altri due. Quando sei arrivata, ti addormentavi con questi. Poi hai smesso e allora li ho riposti qui.»
Alice li annusò, inspirando profondamente. Magari avevano conservato un po’ dell’odore di sua madre. La stoffa però puzzava soltanto di umidità e di chiuso. I lenzuolini erano rimasti troppo a lungo in valigia e le tracce del passato erano scomparse. Poi trovò due vestitini di pizzo. Li aveva indossati lei e questo le sembrava buffissimo. Sotto una pila di asciugamani intravide un paio di scarpette di pelle nera, con la punta arrotondata e un bel cinturino.
«Che carine.»
«Come te!»
Alice sorrise.
«Eri splendida, con quei boccoli intorno al visino e quegli occhioni che mi fissavano, come per dire: “Adesso vi faccio vedere io”.»
«Assomiglio a mia madre?» chiese Alice con la voce che le tremava.
«Qualcosa c’è, sì, ma sei ancora troppo piccola per poterlo dire.»
«Lei era bella?»
«Sì. E anche molto elegante, distinta. Tua madre è una donna forte.»
«Allora non è morta?»
«Spero di no, tesoro mio. Adesso però non lo possiamo sapere.»
«Perché non lo chiediamo alla polizia?»
«È complicato, stella. Un giorno capirai.»
Alice sospirò e infilò di nuovo la mano nella valigia. Ne tirò fuori un grazioso cucchiaio d’argento: decise di usarlo per mangiare da quel momento in poi. Trovò anche due disegni, che non ricordava assolutamente. Li aveva fatti davvero lei? Non capiva cosa rappresentassero: c’erano delle grandi linee rosse, scarabocchi blu e gialli in alcuni punti e grandi spazi vuoti. Perché sua madre li aveva conservati? Sotto i disegni trovò un mucchio di mutandine così piccole che le venne da ridere. E poi basta. Infilò la mano in fondo alla valigia, sperando di individuare un rigonfiamento sospetto, un ultimo oggetto nascosto, ma non c’era altro.
«Credo che da qualche parte ci sia una tasca» disse Jeanne.
Alice ricominciò a sperare e cercò sul lato sinistro. In effetti ce n’era una! Ci infilò la mano tremante: voleva tanto scoprire qualcosa di speciale, non importava cosa. Purché la sorprendesse. Sfiorò della carta… C’erano vari fogli, molto lisci. Lettere? O erano foto? Si affrettò a estrarre i documenti misteriosi.
Che delusione. Si trattava di una rivista. Sulla copertina c’era scritto “Regards” e, sotto, la foto di un uomo, minuscolo davanti a un carrarmato. Una pagina aveva l’angolo piegato. La 22. Quando Alice aprì la rivista, da dentro cadde un foglio. Che fosse un messaggio di sua madre? Si affrettò a osservarlo. Era solo un semplice foglio, piegato in due, con la bandiera francese e tre righe scritte a macchina. Alice lo rimise subito a posto. Jeanne la fermò: «È il tuo certificato di nascita, tesoro mio».
«Il mio che?»
«Quando nasce un bambino, c’è bisogno di una prova di chi sono i suoi genitori ed è lì che lo si annota.»
Alice si affrettò a leggere le informazioni: «Alice Amarille, nata il 14 giugno 1938, figlia di Diane Amarille, nata il 18 luglio 1918 a Villers-sur-Mer. Di padre ignoto».
E basta. Non c’era scritto nient’altro. Alice rigirò varie volte il foglio, ma inutilmente: continuava a essere bianco.
«Allora, se mio padre è ignoto, non sono la figlia di Armand?»
Jeanne guardò Alice e poi abbassò lo sguardo. Rimase così per un po’, senza parlare né muoversi. Alice non sapeva se doveva avvicinarsi o meno, ma il corpo di Jeanne era come una barricata: le gambe e le braccia incrociate, la testa china. Alice sentiva di doverle dare un po’ di tempo, perciò rimase immobile anche lei. Si concentrò sui rumori tutto intorno. Un uccello all’esterno, il pavimento di legno che in qualche punto scricchiolava, le mucche. Dopo un po’ Jeanne si sedette a terra e fece un respiro profondo: «Quello che sto per dirti deve rimanere tra di noi. Non ne dovrai parlare con nessuno».
Ad Alice quel genere di frase faceva paura. A malincuore rispose a bassa voce: «D’accordo».
«Dico sul serio. Altrimenti il rischio è che ci succeda la stessa cosa che è successa all’uomo che non c’era, te lo ricordi?»
Alice tentò di distogliere subito il pensiero dalla scena spaventosa a cui aveva assistito nel campo, che a distanza di mesi continuava a tormentarla, e annuì lottando contro l’angoscia.
«La tua mamma ti ha portato qui perché fossi al sicuro. È rimasta per qualche giorno, il tempo di farti ambientare, poi è ripartita. Era molto triste di doverti lasciare e mi ha assicurato che sarebbe tornata. Mi ha detto: “Le dia tanto amore, perché finora non è stata molto coccolata”. Voleva che tu fossi felice.»
«Ma perché non è rimasta qui anche lei, per stare al sicuro?»
Jeanne ebbe un momento di esitazione.
«Non lo so» rispose alla fine. «Forse non voleva farsi vedere dagli abitanti del villaggio.»
«E mio padre?»
«Mi ha detto che non avevi un padre.»
«È morto?»
«Non so altro. Ma mi è venuto in mente di dire a tutti quelli che me lo chiedevano che eri la figlia di Armand.»
Jeanne si strinse nelle spalle, come se avesse appena sollevato un grosso peso. Poi sospirò, si alzò e spostò un baule. Dietro, appoggiati al muro c’erano alcuni quadri; ne prese due e tornò a sedersi. Girò il primo e lo mise davanti ad Alice.
«Ecco, guarda, qui ci siamo io, mio padre, mia madre e mio fratello.»
«Com’eri piccola! Che buffo!»
«Eh sì, anch’io ho avuto la tua età, cosa credi!»
«E adesso dove sono i tuoi genitori?»
«Mio padre è morto in guerra, nel ’70.»
«C’è stata una guerra anche prima?»
«Sì, tesoro, gli uomini adorano fare la guerra e dimenticano in fretta, ma io no. Mio fratello e mia madre sono morti poco dopo, di malattia e di tristezza.»
Poi girò il secondo quadro, che in realtà era una foto incorniciata.
«E qui ci sono di nuovo io, con mio marito, mio figlio Jules e mio figlio Armand.»
«Ma è un neonato!»
«Sì, è una foto molto vecchia. Mio marito e Jules sono morti in battaglia durante la guerra del ’14, e anzi mio figlio è stato anche decorato, un giorno ti farò vedere la sua medaglia. E poi Armand è morto in Spagna, proprio all’inizio, nel ’36. L’ho supplicato di non andarci, ma ovviamente lui non mi ha dato retta.»
Jeanne rimase in silenzio per un istante. Non piangeva e non sembrava neanche triste. Era arrabbiata. Alice ripensò alla bottiglia dietro i ciocchi di legno e alla medaglia che Jeanne tirava fuori le sere in cui le chiedeva di andare a letto prima. Finalmente capiva.
Poi la balia riprese: «Era fidanzato con una ragazza del villaggio, ma quando è venuta a sapere che era morto, lei… Insomma, è sparita. Mi sono detta che avrebbe potuto benissimo aver avuto un bambino da mio figlio e avermelo lasciato. Allora mi sono inventata che eri la figlia di Armand e che tua madre era partita affidandoti a me».
Alice si prese qualche minuto per mettere ordine nei suoi pensieri e assimilare tutte quelle informazioni nuove. Si aspettava di trovare qualcosa. Le sarebbe piaciuto scoprire una fotografia di sua madre, magari di loro due insieme, ma quello… Aveva l’impressione che il pavimento le si muovesse sotto i piedi. Quante cose ancora le tenevano nascoste? Quante guerre aveva vissuto il mondo? Jeanne aveva avuto dei figli, una famiglia…
Ma allora… la stanza in cui dormiva lei probabilmente in passato era occupata da uno dei suoi figli. Fu assalita da un senso di nausea. Quindi il suo letto era quello di una persona che era morta. E suo padre… era ignoto. Eppure non poteva essere del tutto ignoto! Sapeva che per fare un bambino serviva che un uomo e una donna si amassero. Perciò sua madre aveva amato per forza suo padre. E qualcuno che ama non può essere qualcuno che non si conosce! Questo significava che le stavano mentendo ancora!
Alice strinse i denti così forte che le sembrò si potessero rompere. Quella storia non era affatto chiara.
«Sono molte cose da digerire tutte insieme. Lo so, stella. Ma ricordati, non dire neanche una parola, a nessuno. Ti ho raccontato tutto perché adesso sei grande. Conto su di te.»
Alice aveva tante domande da fare, a partire da tutte quelle guerre, di cui non aveva mai sentito parlare, in cui erano morti i familiari di Jeanne. Avrebbe voluto dirle quanto le dispiaceva per lei. Le sarebbe piaciuto che la sua balia le parlasse ancora di sua madre, che le dicesse “quando” sarebbe tornata, visto che aveva promesso di farlo. Infine, e soprattutto, che le spiegasse il motivo di tutte quelle bugie. Quelle rivelazioni non le bastavano. Ma non aveva la forza di chiedere. Rimase ad ascoltare il silenzio e il respiro affannoso di Jeanne, che aveva di nuovo lo sguardo perso nel vuoto. Con passo incerto, le si avvicinò e la prese per mano. Strinse le sue grandi dita rugose e le accarezzò il palmo screpolato. Si strinse contro la gonna della balia e le appoggiò la testa contro la spalla. Jeanne rabbrividì. Alice l’abbracciò con l’altro braccio e si schiacciò contro di lei con tutta la forza che aveva.
«Stai tranquilla, tesoro. Ne ho superate tante.»
Rimasero vicine vicine, senza dire niente. Poi Jeanne si staccò da lei e si alzò di scatto. Agitò le braccia come per muovere l’aria intorno a sé e disse con un tono allegro: «Ho un’idea!».
«Cosa?»
«E se facessimo le pulizie di primavera?»
«Ma è inverno!»
Jeanne ci pensò su: «E va bene, allora saranno le grandi pulizie d’inverno!».
Scoppiarono a ridere. Ad Alice non sembrava così divertente, ma ridere le faceva bene, si sentiva improvvisamente più leggera. Le piacevano tantissimo le pulizie di primavera, quando buttavano a terra grandi secchiate d’acqua e, nel farlo, si bagnavano un po’, prima di pulire a fondo le piastrelle e i mobili, di spolverare gli oggetti della casa, perché tutto fosse pulito e odorasse di fresco. Era come costringere l’inverno ad andare via.
Una volta Jeanne era scivolata ed era finita nell’acqua. Aveva la gonna tutta bagnata e sembrava che si fosse fatta la pipì addosso! Che ridere!
«Forza, andiamo a prendere l’acqua per far brillare questa casa.»
Alice non ce l’aveva più con Claudine per averla esclusa e per aver detto quelle cose cattive, tipo che sua madre non l’aveva voluta. Adesso riusciva a immaginarsi la sua mamma. Esisteva. La sera prima aveva pregato che la guerra la risparmiasse e che lei potesse tornare per recuperare tutto il tempo perduto. Da allora in poi avrebbe recitato quella preghiera tutte le sere.
Quanto doveva essere bella la mamma! Forte, elegante, così aveva detto Jeanne. Quando fosse tornata, e sarebbe tornata visto che lo aveva promesso, non ci sarebbe stato niente di più meraviglioso della loro vita insieme. Si sarebbero volute bene, sarebbero andate a Parigi, avrebbero comprato dei bei vestiti. Sua madre le avrebbe insegnato tante cose, l’avrebbe iscritta alle scuole migliori della capitale, dove prima di lei avevano studiato tutti i grandi scrittori, e insieme si sarebbero costruite un futuro felice. Sì, un giorno la sua vita sarebbe stata splendida. La sua presenza alla fattoria era solo un momento di passaggio, per stare al sicuro in attesa che le belle promesse si compissero: le parole di Claudine non le facevano più così tanto male.
Quando arrivò a scuola si avvicinò alla sua compagna, che aveva ancora il labbro scorticato, ma lei indietreggiò.
«Vattene! Mi hai picchiato, non voglio parlare mai più con te!»
«Claudine, mi dispiace tanto.»
«Basta! I soliti trucchetti da spia!»
«Non sono una spia. Sono la figlia di Armand e ti chiedo perdono.»
Claudine interrogò Alice con lo sguardo: sembrava che cercasse di scoprire dov’era il trucco. Le altre bambine che erano andate alla festa di compleanno si avvicinarono formando un cerchio intorno a loro.
«Chiedo scusa anche a voi» disse Alice. «Marie, mi dispiace tanto se ti ho rovinato la festa.»
Si girarono tutte verso Marie.
«Non fa niente. I miei genitori mi hanno detto che non era veramente colpa tua.»
«Allora facciamo pace?» chiese Alice.
«Sì, facciamo pace.» Marie tese la mano ad Alice, che la strinse, e le altre fecero altrettanto.
Claudine continuava a essere imbronciata. Si teneva in disparte, ma sembrava che non volesse allontanarsi dal cerchio. Alice non poteva dire nient’altro per convincerla. Toccava a lei decidere. A quanto pareva era una scelta difficile, perché era tutta rossa e stringeva i pugni. Marie se ne accorse e le mise una mano sulla spalla, perciò Claudine finì per dire a denti stretti: «E va bene, facciamo pace».
Alice era felice. Si chiedeva ogni giorno quando sarebbe tornata sua madre e se stava bene, ma era felice. Amava le sue compagne di scuola. Da quando aveva chiesto scusa, non c’erano stati quasi più litigi, o almeno niente di grave. Amava anche Madame Jeanson, che la lodava per il suo talento nel recitare le poesie e per i suoi bei voti. Amava Jeanne e alla fattoria imparava ogni giorno qualcosa di nuovo: aveva visto anche come si uccideva e si spennava un pollo, ma non era pronta a farlo da sola. A dirla tutta non riusciva neanche più a mangiare il pollo la prima domenica del mese, lei che fino a quel momento ne andava ghiotta.
La settimana precedente Jeanne si era infuriata. Era la guerra… e loro erano fortunate ad avere una fattoria e a poter mangiare la carne una volta al mese.
«Ti comporti come una bambina capricciosa. Dovresti vergognarti.»
I tedeschi perlustravano di rado la zona e la primavera arrivò con il suo carico di speranza e di entusiasmo. Mancava poco all’estate, alle passeggiate e ai picnic nei campi, alla fine della scuola. Alice era convinta che sua madre fosse già tornata al villaggio e che si nascondesse per non farle correre dei rischi, perciò la tirava per le lunghe quando tornava da scuola e si attardava sotto gli alberi, nel caso lei la seguisse e volesse avvicinarla nonostante tutto.
Una mattina, però, guardandosi allo specchio, realizzò una cosa: era grande, ormai. E se sua madre non l’avesse riconosciuta? In preda a nuovi dubbi, sentì la testa che le girava: si sedette sul bordo del letto per provare a calmarsi, ma l’agitazione non le dava tregua. E se sua madre fosse arrivata e poi ripartita senza riuscire a trovarla? Forse avrebbe dovuto attaccare un lenzuolino alla cartella come segno di riconoscimento. Salì in soffitta, prese il più riconoscibile dei tre, quello con i fiori, e lo legò alla cinghia dello zaino. Ogni giorno osservava gli angoli delle strade del villaggio, i tavoli davanti al bar della piazza del mercato, i cespugli, i dintorni della fattoria brandendo il suo pezzo di stoffa. Ma niente. Sua madre non c’era. O almeno non si palesava. Alice cercava di tranquillizzarsi. La guerra sarebbe finita presto. A dire il vero, ne parlavano spesso con le compagne, nel cortile della scuola. Claudine voleva che suo padre tornasse, come molte altre bambine. La fine doveva essere vicina, poco ma sicuro…
Un giorno, mentre suonava la campanella della ricreazione, alcune macchine si fermarono davanti a scuola. Una decina di uomini in divisa entrarono in cortile, allontanando la direttrice e suo marito che cercavano di mettersi in mezzo. Alice riconobbe la divisa.
Erano tedeschi. Strano. Davvero strano. E Alice non era l’unica a pensarlo: intorno a lei, alcuni bambini si misero a piangere, altri corsero in bagno, altri ancora rimasero immobili. Erano in pericolo, lo sentiva. Quello che doveva essere il comandante soffiò dentro un fischietto e il rumore stridente la fece sussultare. Cercò di calmarsi: sarebbe andato tutto bene, sapeva cosa doveva dire. Lei era la figlia di Armand, sua madre l’aveva lasciata da Jeanne. Era la figlia di Armand, non rischiava niente, la nipotina di Jeanne, avrebbe funzionato. Marie la prese per mano, era tutta rossa e singhiozzava, come Claudine e Giselle.
L’ufficiale ordinò qualcosa alla direttrice. Alice non riuscì a capire cosa, ma vide la donna impallidire: scosse la testa come per dire no e poi giunse le mani in un gesto di supplica, ma il tedesco la spinse da un lato e suonò di nuovo il fischietto. A quel punto la direttrice fu portata a forza nel suo ufficio, scortata da altri due soldati. Nel cortile non si muoveva più nessuno, sembrava quasi che il tempo si fosse fermato. Alice inspirava piccole boccate d’aria ed espirava a stento. La tensione aumentava a ogni passo dell’uomo con il fischietto.
La direttrice tornò: aveva dei fogli in mano che allungò al comandante. Quest’ultimo, con un accento che Alice detestava, disse: «Femmine a destra, maschi a sinistra».
Gli obbedirono tutti. L’uomo fece l’appello. Dovevano dire «Qui» quando sentivano il proprio nome e rispondere a eventuali domande. Quando arrivò il suo turno, Alice aveva un nodo in gola. La figlia di Armand, la figlia di Armand, accolta da Jeanne, la figlia di Armand… Ma l’ufficiale non le chiese niente. La guardò e passò al nome successivo. Le gambe le tremavano, sembrava che non riuscissero più a sostenerla. Ebbe un capogiro e fece per lasciarsi cadere a terra, ma incrociò lo sguardo severo di Madame Jeanson. Con un cenno le fece capire che doveva tirarsi su, non era il momento di attirare l’attenzione. Così Alice si fece forza, deglutì con difficoltà e alzò lo sguardo verso il cielo. Le nuvole erano sempre lì, e anche l’azzurro intenso. Il mondo intorno a lei non si era mosso, bisognava solo aspettare che quel momento passasse.
Alle bambine fu dato il permesso di tornare in classe, e venne il turno dei maschi. Non riuscendo a stare sedute al proprio posto, le alunne si radunarono davanti alle finestre che davano sul cortile. Quando l’appello fu concluso, i soldati permisero anche ai maschi di risalire, tranne che a due di loro: Nicolas, uno dei più grandi, di dieci anni, e Thomas, che aveva la stessa età di Alice.
I tedeschi indicarono loro il muro in fondo al cortile e dissero qualcosa. Nicolas scosse la testa e uno dei tedeschi brandì il suo fucile. A quel punto i due bambini si abbassarono i pantaloni e un altro soldato si chinò davanti a ognuno di loro, per guardargli in mezzo alle gambe. Le bambine erano turbate, era tutto così strano. Perché guardare lì sotto? Ai tedeschi piaceva guardare i bambini nudi? Alice non capiva, ma era convinta che non fosse niente di buono.
Nicolas ebbe il permesso di tornare su. Thomas, invece, ricevette una pacca sulla spalla. Gli fu ordinato di rivestirsi e due tedeschi lo affiancarono per portarlo via, come avevano fatto poco prima con la direttrice. Lo costrinsero ad avanzare e Thomas lanciò un’occhiata dietro di sé, come se non volesse lasciare il cortile. Attraverso la finestra il suo sguardo incrociò quello di Alice, che lo salutò con la mano. E poi Thomas scomparve.
Marie, che non aveva smesso di piangere, si avvicinò ad Alice e le chiese: «Dove va Thomas?».
«Non lo so.»
«Perché lo hanno portato via?»
Alice cercò una risposta, ma tutto ciò che riuscì a dire fu: «Perché è la guerra».
Le bambine aspettavano in classe. Madame Jeanson disse che potevano fare quello che volevano, ma loro non avevano voglia di fare niente. Poi la direttrice salì da loro. Spiegò che le dispiaceva tantissimo, che avrebbe voluto impedirlo. Era tutta rossa e si asciugava a intervalli regolari le piccole lacrime che le spuntavano agli angoli degli occhi.
«Il vostro amico Thomas è stato portato via, come avete potuto vedere.»
Molte bambine chiesero perché, ma sembrava che la direttrice non volesse rispondere. All’improvviso qualcuno disse: «Perché è ebreo».
Presa alla sprovvista, la direttrice ebbe un sussulto e confermò: «Sì, Thomas è ebreo. Tra qualche minuto potrete tornare a casa. Mi dispiace tanto, bambine mie».
Alice accompagnò Marie a casa. La sua amica non ce la faceva a tornare da sola. Naturalmente questo non cambiava quanto era appena successo, e Alice aveva sempre mal di pancia quando chiudeva gli occhi e le compariva davanti la faccia di Thomas, ma rendersi utile era una consolazione. Arrivate davanti alla casa del dottore, Marie abbracciò Alice e la ringraziò.
«A domani.»
«Pensi che potremo tornare a scuola?»
«Sì. Non verranno tutti i giorni» disse Alice prima di rimettersi in cammino. Non vedeva l’ora di ritrovare Jeanne, Crème, la sua casa, il suo letto. Si chiedeva dove fosse Thomas in quel momento. Se i tedeschi gli avrebbero fatto del male. Non lo conosceva bene. Sapeva soltanto che era bravissimo in matematica, non sorrideva molto e una volta l’aveva avvisata che aveva una scarpa slacciata e doveva stare attenta a non inciampare. Era stato arrestato perché era ebreo. A scuola non aveva osato dire niente, ma non sapeva proprio cosa significasse. Era una malattia, come quando si è asmatici? Ma perché punirlo per il fatto di essere malato? Quella storia non aveva senso e lei era stufa di tutte quelle insensatezze.
Quando arrivò a casa si tuffò tra le braccia di Jeanne, che sapeva già tutto: «I Michelac sono venuti a raccontarmelo, certe notizie non ci mettono molto a diffondersi… E a te, non hanno fatto domande?».
«No. Hanno solo chiamato il mio nome.»
«Grazie al cielo.»
«Secondo te quando libereranno Thomas?»
«Non lo so, tesoro.»
«Che cos’è un ebreo? Hanno detto che Thomas era ebreo.»
«È una religione, come per esempio noi siamo cattoliche.»
«Ma io conosco qualche ebreo?»
«Ne conosci almeno due!»
Alice la guardò sorpresa.
«Thomas e Gesù. Anche Gesù era ebreo.»
Alice non se ne capacitava. Poi fu presa dai dubbi: «Ma i tedeschi, di che religione sono?».
«Spesso cattolici, protestanti…»
«Allora credono in Gesù?»
«In molti casi sì.»
«E allora perché non gli piacciono gli ebrei?»
«È complicato.»
Alice cercò di capire e, ancora una volta, l’unica spiegazione che ottenne la scoraggiò.
«Perché è la guerra?»
«Sì… E quella guerra è iniziata tanto tempo fa.»