15

Parigi, giugno 1947

Quando si svegliò, Alice non si ricordava dov’era. Accanto a lei, un’infermiera chiamò il dottor Praal e a quel punto le tornò tutto in mente. Era come se sua madre fosse morta di nuovo. Sarebbe successo a ogni risveglio, da quel momento in avanti? Il medico le chiese come stava, se riusciva a camminare.

«Sì. Vorrei vedere mia madre.»

Il medico ebbe un attimo di esitazione. Balbettò: «Ma… ne abbiamo parlato… Tua madre è…».

«Sì, lo so che è morta. Vorrei solo vederla.»

«Io penso che per oggi sia già abbastanza. Domani ti accompagnerò nel luogo in cui riposa in attesa del funerale.»

Il funerale! Se n’era dimenticata… Quando si sarebbe svolta la cerimonia? Dove? Con chi? C’erano tanti dettagli da decidere. Avrebbero messo sua madre in una cassa. Una piccola cassa, sottoterra. Chiusa per l’eternità. Era come un fossato che le si apriva sotto i piedi… Il medico aveva ragione: quel giorno era troppo stanca. Sarebbe tornata l’indomani. Ora doveva andare a casa.

Fuori pioveva a catinelle, ma Alice e Vadim si incamminarono comunque verso casa a piedi. Alice non voleva rinchiudersi in metropolitana. L’idea di scendere sottoterra la angosciava. Dopo un’ora arrivarono a rue Pavée. Passarono davanti alla panetteria e l’odore dei croissant le fece venire la nausea. Quando stavano per aprire il portone del palazzo, Vadim si fece indietro. Già sulla nave aveva iniziato a comportarsi in modo strano. Quasi troppo premuroso. Alice aveva la sensazione che avesse paura per lei. Quando lei era triste o in ansia, lui si adeguava al suo umore. In quel momento, però, sembrava che qualcosa lo trattenesse. Che fosse più forte di lui. Alice non aveva il coraggio di chiedergli cosa. Forse si sbagliava, era tutto molto confuso. Si sentiva svuotata. Faceva le cose senza pensarci. Agire era l’unico modo per non pensare. Gli disse: «Preferisco che mi aspetti qui».

«Sei sicura?»

«Sì. Non ci metterò molto.»

In ogni caso preferiva salire da sola. Sarebbe stata dura rientrare in quella casa. Aveva bisogno di tranquillità per concentrarsi. Non era il momento di lasciarsi andare.

«Benissimo. Lasciami le tue cose. Vado a comprarti una merenda per quando tornerai. Devi mangiare qualcosa.»

«Okay.»

«Per qualunque cosa io sono qui.»

Alice gli allungò le sue borse e si tolse il soprabito. Anche se era fradicia, stava morendo di caldo. Sentiva la tristezza arrivare come si vede una tempesta profilarsi in lontananza, con le nuvole grigie che oscurano il cielo… Prima o poi sarebbe crollata, ma in quel momento doveva salire. Doveva resistere.

Nella tromba delle scale l’odore era quello di sempre. Alice salì qualche gradino e si fermò. Le crepe del muro erano sempre lì. Non era cambiato niente… Era incredibile come tutto intorno il mondo se ne infischiasse di lei. Strinse il corrimano raggiungendo il primo pianerottolo. Ebbe una stretta al cuore quando superò il punto in cui si fermava a parlare con Madame Léa. «Andare avanti. Andare avanti.»

Dall’appartamento di Jean-Joseph non proveniva nessun rumore. Era andato via? Alice saliva i gradini lentamente. Era senza fiato. Ancora un piano. Le sembrava di scalare una montagna.

Ogni volta che si ricordava che sua madre non sarebbe stata nella sua stanza, le veniva da vomitare.

Arrivò al quarto piano. La porta non era chiusa a chiave. Entrò.

«C’è qualcuno?»

Non rispose nessuno.

Alice attraversò il soggiorno. Monsieur Marcel era in mutande, seduto a terra.

«Sono io» mormorò lei.

Monsieur Marcel trasalì.

«Che ci fai qvi?»

Era pietrificato. Sembrava che avesse appena visto un fantasma.

«Sono qui, punto e basta.»

Alice si sedette accanto a lui e lo prese per mano. Puzzava. Aveva i capelli e le unghie troppo lunghi.

Alice non disse niente. Davanti a lei vari vestiti erano ammucchiati in modo casuale, decine di aghi erano sparpagliati sul pavimento, colletti di camicie, bottoni erano disseminati qui e là. D’un tratto Monsieur Marcel ritrasse la mano.

«Ti ha lasciato una cosa.»

Alice sentì che il cuore le batteva all’impazzata.

«Per me?»

«Era molto importante per lei.»

Monsieur Marcel s’interruppe per un istante. Sembrava che facesse fatica a parlare. Poi mormorò: «Lei lo sapeva che tu saresti tornata».

Con un cenno le indicò il camino. Alice si alzò per avvicinarsi. Le tremavano le gambe. E se fosse rimasta delusa? Se si fosse trattato solo di cianfrusaglie? Quello era l’ultimo segno di sua madre. Dopo, si sarebbe dovuta accontentare dei suoi ricordi.

«Lì, sulla mensola.»

Era una busta. Spessa e piuttosto pesante. Alice sbuffò. La esaminò a lungo. Desiderava aprirla, ma non si sentiva pronta. Guardava i muri del soggiorno e si rigirava la busta tra le mani. Sul retro c’era scritto: “Per Alice”.

Con la punta delle dita accarezzò le due parole scritte da sua madre. Era la prima volta che riceveva della posta. Per Alice. Bastava quello. Era solo per lei. Alice esisteva, bastava. Quella busta era la prova che lei aveva contato. Rassicurata, la strappò con decisione, come quando si strappa un cerotto per sentire meno male.

Dentro c’era una lettera. E un quaderno.

«Ma… quando ha scritto queste cose?»

«Voleva che tu sapessi.»

Alice si bloccò: ma lei voleva veramente sapere?

Decise di leggere ad alta voce. Si sarebbe sentita meno sola se Monsieur Marcel avesse condiviso con lei quel momento. Aveva la bocca impastata, la lingua spessa.

La grafia era febbrile. Per scriverla Diane doveva aver fatto uno sforzo notevole. Alice alzò gli occhi al cielo e iniziò.

Alice,

il sentimentalismo non è mai stato il mio forte, ma tu sei la cosa migliore che io abbia fatto.

Non sarò al tuo fianco nella vita. Non sono stata una buona madre dall’inizio e non lo sarò fino alla fine. Mi dispiace.

L’unica cosa che posso fare per te è offrirti la verità. Dopotutto cos’altro possediamo di così importante? Forse quando troverai questa lettera sarai già grande. Meglio così, vorrà dire che sarai stata felice e non avrai sentito il bisogno di tornare.

Quello che segue non l’ho scritto per farti del male; credo semplicemente che, nella vita, per sapere dove si va bisogna sapere da dove si viene. Nella busta c’è un quaderno. L’ho iniziato prima di venire a cercarti a Salies. Avevo bisogno di chiarirmi le idee. E scrivere era più facile che parlare. Ho avuto spesso la tentazione di dartelo, ma non ce la facevo. Avevo paura delle tue domande. Temevo che non mi credessi o che ti arrabbiassi con me. Adesso mi dico che hai soltanto una madre e hai il diritto di sapere chi sono.

Soprattutto non essere triste. O almeno provaci.

Diane

Alice era incredula. Sua madre non le aveva mai parlato in quel modo. Anzi, a dire il vero forse non le aveva mai parlato veramente. Il quaderno era azzurro e poco più grande della sua mano. All’interno la grafia era più enfatica, più rotonda rispetto alla lettera. All’epoca Diane non era ancora malata.

Nyon, luglio 1946

Alice. Chi sei? E chi sono io? Non so più chi sono veramente. Forse sto scrivendo a me stessa oltre che a te.

Spero che recupereremo il tempo perduto.

Ti dirò tutto e così chiuderemo per sempre con il passato. Alice… Non vedo l’ora di rivederti.

Da dove cominciare?

Sono cresciuta in Normandia, a Blonville, vicino Deauville. A due passi dal mare. Non ho fratelli o sorelle. Non ho mai conosciuto mia madre. È morta di parto.

Mio padre aveva consacrato la vita alla sua fattoria e per molto tempo ho pensato che anch’io non mi sarei mai occupata di nient’altro. Lavoravamo sedici ore al giorno. Ma a me piaceva. Non ero come le altre bambine. I cavalli occupavano tutto il mio tempo e tutti i miei pensieri.

Ogni volta che ne avevo l’occasione montavo Flèche, una giumenta che avevo visto nascere e che mio padre mi aveva regalato. Era di un’eleganza rara, bianca, con il muso spruzzato di piccole macchie grigie, ed era velocissima. Lei era la mia libertà e io non stavo mai bene come quando la montavo.

Quando avevo quattordici anni mio padre mi diede il permesso di organizzare delle passeggiate sulla spiaggia, per far uscire i cavalli trascurati dai padroni, allenare i nostri e guadagnare un po’ di soldi. Due volte al giorno andavo da Bénerville a Trouville costeggiando il mare.

Fu così che conobbi Paul d’Arny. Era il 1935. Avevo diciassette anni. La sua famiglia possedeva una casa per le vacanze a Villers-sur-Mer. Paul amava i cavalli: mi affidò il suo e diventammo amici. Sapevo benissimo che mi faceva la corte. Anch’io gli volevo bene, ma niente di più. All’epoca sembrava fragile, sempre un po’ nervoso. Anche se aveva un certo fascino non mi attraeva come pensavo che un uomo dovesse attrarmi. Perciò, per non rischiare di perderlo, facevo finta di non capire e contavo sulla sua timidezza. Per me la nostra amicizia era la cosa più importante.

In seguito ho scoperto che, in ogni caso, non ero all’altezza delle sue ambizioni e che lui era stato a lungo combattuto tra il suo desiderio e i suoi sogni per il futuro. Paul era un ragazzo ambizioso, pieno di complessi nei confronti di suo padre e del suo fratellastro. Legarsi a una ragazza di campagna non gli avrebbe permesso di ottenere lo status a cui puntava, o che Henri d’Arny si aspettava da lui. In quel momento, però, non potevo certo immaginare che cosa sarebbe successo. Non conoscevo la sua famiglia né i suoi progetti.

D’estate ci facevamo il bagno al mare, raccoglievamo more sulle alture in campagna, ogni tanto andavamo al cinema. Paul era il mio confidente, il mio migliore amico. Quella quotidianità mi rendeva felice.

Nel gennaio del 1936, però, la mia esistenza subì un brusco cambiamento.

Conobbi un uomo.

Sai, i grandi cambiamenti della vita di una donna spesso coincidono con questo, anche per quelle come me…

Stavo facendo la spesa nella piazza del mercato e, improvvisamente, me lo ritrovai davanti. Un uomo giovane, alto, scuro di capelli, con le sopracciglia folte e le labbra carnose. Trasmetteva una sensazione di forza che contrastava con la dolcezza del suo sguardo. Quel momento segnò la fine della mia vita di prima.

Aveva una macchina fotografica. Mi aveva sorriso a lungo e poi mi aveva chiesto se poteva fotografarmi: «Dopo tutto quello che ho visto negli ultimi anni e con quello che mi aspetta, avrò bisogno di un’immagine che mi consoli e che mi accompagni. Il mondo non va verso il bello, signorina, ma lei è splendida».

Ero imbarazzata. Mi chiedevo che cosa avrebbe pensato la gente. Ma nessuno stava facendo caso a noi. Gli risposi che mi occupavo di cavalli e che, se voleva, poteva fotografarmi con quelli. Lui si limitò a sorridermi. Poi mi si avvicinò e mi strinse la mano, come a un uomo: «Mi chiamo Vadim».

Alice si fermò. “Vago, Vago…” Allora si erano amati veramente, lui e sua madre, e lei non si era sbagliata. Le domande tornarono tutte insieme. Ma, ne era sicura, le risposte si trovavano in quelle pagine. Doveva sapere il resto, poi ci avrebbe riflettuto sopra.

La sua stretta decisa sprigionava un calore che mi sorprese e mi confortò. Io gli strinsi la mano più a lungo del normale. Ci sorridemmo. Improvvisamente il futuro si annunciava radioso. Se solo avessi saputo… Sai, non è la vita che ci delude, è lo scarto tra ciò che progettiamo e la realtà a essere intollerabile.

Ben presto l’unico mio desiderio fu passare il mio tempo con Vadim. Ti devo spiegare chi era, perché dopo averlo conosciuto non sono mai più riuscita ad aprire il cuore a un altro uomo.

Vadim era eccezionale. Segnò anche il mio cambiamento, l’inizio della mia ricerca, l’origine di tutte le mie battaglie. Era un giornalista-fotografo, voleva diventare un grande reporter di guerra. Ad appena vent’anni aveva già documentato vari avvenimenti chiave di quell’epoca folle. Nel 1933, quando aveva solo diciassette anni, era partito da solo per la Germania sotto falso nome, Vago, uno pseudonimo che conservò anche in seguito. Sentivamo voci sull’ascesa di un certo Hitler, sulla speranza che suscitava in molti tedeschi. Sapevamo che Hitler era sostenuto sia dal popolo sia da alcune élite e che usava la forza e l’intimidazione per arrivare al potere. Sapevamo, pensavamo di sapere, e Vadim voleva essere un testimone di ciò che stava succedendo.

Partì con la sua macchina fotografica come unica compagna e assistette all’incendio del Reichstag, immortalò la tragedia.

Fotografò quegli uomini vestiti di nero che aggredivano i passanti e spintonavano le donne anziane. Una camicia nera lo sorprese e gli confiscò la macchina fotografica. Lo chiuse in una camionetta con altri “indesiderabili”: omosessuali, ebrei e comunisti. Furono tutti rinchiusi in un hangar. Alcuni furono torturati e due di loro morirono tra atroci sofferenze, mangiati vivi dai cani.

Quando, dopo tutto questo, Vadim riuscì a tornare in Francia giurò a se stesso che avrebbe fatto tutto il possibile per lottare contro il fascismo. Per lui la fotografia era l’unica arma valida, o almeno l’unica alla sua portata. Pensava che la conoscenza fosse alla base dell’azione. E voleva risvegliare il mondo. Mi aveva detto: «Tutte quelle scene da gelare il sangue e non sono riuscito a riportare indietro neanche un’immagine!». Era questo il suo più grande cruccio, più ancora di essere stato picchiato o di aver assistito all’orrore di quei barbari omicidi.

Capii che niente e nessuno avrebbe mai potuto distoglierlo dalla sua ossessione, ma non mi lasciai scoraggiare.

Il 1934 segnò l’inizio ufficiale della sua carriera; a quell’epoca io non lo conoscevo ancora e ignoravo la maggior parte degli avvenimenti di cui era fatta la sua vita quotidiana. L’attualità avrebbe dovuto interessarmi, ma sai, come fanno molti a quell’età, pensavo soltanto a me stessa. Vadim aveva venduto le prime fotografie alla rivista “Vu”, che all’epoca era un punto di riferimento nel mondo giornalistico, e Lucien Vogel, il caporedattore, aveva lodato la qualità del suo lavoro, la sua umanità e anche la sua ironia. Le aveva scattate durante le rivolte del 6 febbraio a Parigi. I fascisti avevano annunciato una manifestazione imponente davanti al palazzo del governo: Action française e i Jeunesses patriotes proclamavano pubblicamente la loro opposizione alla sinistra in generale e all’incarico al governo Daladier in particolare. Trentamila persone radunate a place de la Concorde! Una triste prova generale, il cui obiettivo era arrivare alla Camera dei deputati.

In realtà si svolsero contemporaneamente varie manifestazioni. Lo scopo non fu raggiunto e i manifestanti si dispersero finché i disordini non si trasformarono in una vera e propria guerriglia urbana, nei pressi del pont de Solférino.

Vadim si trovava lì. Aveva seguito quegli uomini che incarnavano il risveglio della Francia fascista, i giovani adepti e i sostenitori di sempre, improvvisamente liberi da ogni inibizione.

Il primo scatto selezionato da Vogel mostrava una giovane donna che veniva colpita in fronte da una pietra, una delle molte persone che quel giorno furono ferite a morte. La donna aveva un’espressione stupefatta. Tutto intorno l’azione continuava, come se lei non fosse lì.

L’altra foto era stata scattata in uno dei caffè della rive Gauche, trasformato in infermeria. Un vero caos, in mezzo ai tavoli e alle birre. Una scena drammatica e buffa allo stesso tempo.

Per realizzare quegli scatti Vadim aveva rischiato di essere colpito da una sbarra di ferro. Ogni volta che mi raccontava la scena, io assaporavo le sue parole. Mi descriveva la tensione nel momento dell’azione, la sua estrema concentrazione: osservare la scena d’insieme per capire e, nello stesso tempo, concentrarsi sui particolari, i suoi crampi al polso di sera, i dolori alla mascella a furia di stringere i denti.

Quel reportage lo fece conoscere in tutto il paese. Le riviste “Regards” e “Europe” gli commissionarono altri lavori. L’agenzia Alliance-Photo, una delle più prestigiose dell’epoca, lo mise sotto contratto. Per lui era incredibile, anche se non aveva mai dubitato delle proprie capacità, stando a quanto diceva.

Finalmente veniva preso sul serio.

Alice fece una pausa. Ripensò alla rivista che aveva trovato nell’armadio di sua madre. Diane collezionava i reportage di Vadim, era quello il suo segreto. Ciò voleva dire che lo amava ancora. Sospirò prima di rituffarsi nel quaderno azzurro.

Ero innamorata. Avevo la certezza di essere legata a lui per sempre. I suoi discorsi risuonavano dentro di me. Per la prima volta il mondo di fuori si apriva un varco nel mio quotidiano e i miei cavalli non mi bastavano più. Dovevo agire, volevo che mi spiegasse tutto. Volevo battermi anch’io contro il fascismo. Quel mondo in cui democrazia e uguaglianza non erano sovrane non doveva prevalere.

Vadim era spesso lontano, ma tutte le volte che tornava a Blonville sapevo che lo faceva per me. Preparavamo dei cestini pieni di cose da mangiare e andavamo sulle dune, di fronte al mare. Parlavamo di storia e lui mi spiegava la politica, almeno per come la vedeva lui.

Mi è capitato varie volte di accompagnarlo a Parigi. Eravamo lì il giorno dell’elezione del Front populaire. Cominciavo a capire la posta in gioco e avevo il cuore gonfio di speranza. L’uno nelle braccia dell’altro, gridavamo: «Il pane, la pace, la libertà», come le migliaia di persone che condividevano la nostra gioia. Le sue parole, però, spensero il mio entusiasmo. Secondo lui non bisognava confondere l’accesso al potere con l’esercizio del potere, e restava ancora molto da fare per evitare che la Francia affondasse. Quel pessimismo mi sembrava sbagliato. Io volevo gustarmi le vittorie. «Sono realista ed essere realista significa abbracciare il partito della disillusione» mi disse a mo’ di conclusione. Se essere testimone della realizzazione di un progetto a cui aveva votato mesi e mesi di impegno politico suscitava in lui una reazione così negativa, che cosa potevo aspettarmi per quanto riguardava noi? Lui però mi sorrise e io mi dimenticai di tutto. E comunque non si era sbagliato: un mese dopo scioperi violenti infiammarono la Francia e il mondo operaio ottenne il rispetto e il riconoscimento al prezzo di giornate di lotta accanita che paralizzarono il paese.

Intanto io scoprivo, sorpresa, il suo quotidiano. Mi presentava i suoi amici. Ci incontravamo nei caffè del boulevard Saint-Michel. Lì incrociavamo altri fotografi come André Friedmann e la sua compagna Gerda. Sembrava non avessero paura di nulla. In seguito lui si costruì una grande carriera con il nome di Robert Capa, mentre lei morì. Credo che l’azione e la realizzazione di sé non vadano tanto d’accordo con l’amore.

Alice pensò alle foto della Spagna con André e Gerda. Allora erano loro…

I vecchi bar servivano da tribune, dove pittori, scrittori, rifugiati politici, fotografi si ritrovavano e dibattevano in modo acceso, a volte addirittura spettacolare. Picasso, Man Ray, Lee Miller, la splendida americana, Matisse e sua moglie, Buñuel, Hemingway… Grazie a Vadim ho incrociato sul mio cammino persone eccezionali. A quel tempo ero nel loro stesso gruppo, condividevamo le stesse speranze. Io, giovane provinciale senza storia, mi ritrovavo accanto ai più grandi! Non ero abbastanza colta da poter intervenire o contraddire gli altri, ma assorbivo le loro idee, le facevo mie. Preparavano tutti i loro futuri reportage, analizzavano gli avvenimenti, bevevano, mangiavano. Era un periodo intenso, carnale. Vadim mi faceva sentire viva. Era un rivelatore e una rivelazione.

Non parlava della sua famiglia. Aveva fatto cenno solo al fatto che sua madre era una giornalista, cosa eccezionale per l’epoca, e che lo aveva spinto fin dall’infanzia ad affermare la sua visione del mondo. Vadim diceva che sua madre non aveva legami, neanche con lui. Io, da parte mia, prendevo le distanze da mio padre, per il quale tutto ciò che riguardava l’attualità politica non contava. Ai suoi occhi solo i veterani di guerra erano degni di fiducia, anche se sostenevano idee intolleranti.

A ottobre Vadim partì per Londra con l’intento di documentare la manifestazione fascista poi battezzata Battaglia di Cable Street. Evidentemente degenerò. I militanti inglesi che sostenevano la politica di quel “grand’uomo di Hitler”, sempre più popolare in Germania, decisero di organizzare una manifestazione nell’East End, un quartiere periferico con un’alta percentuale di abitanti di origine ebraica. Un appuntamento a cui antifascisti, comunisti, anarchici, nazionalisti irlandesi di sinistra ed ebrei non potevano certo mancare. Migliaia di camicie nere armate affrontarono più di centomila manifestanti. Una vera e propria guerra civile. Anche quella volta il fascismo fu respinto. E fu respinto anche Vadim, che venne scagliato contro una barricata. Rimase immobilizzato in ospedale per tre settimane, il tempo necessario perché la spalla, lussata, guarisse. E, con sua grande delusione, non ne ricavò nessuna foto da vendere.

E di sicuro quello ci sarebbe stato utile, perché fu in quel momento che Vadim mi annunciò la nostra prima “separazione politica”, come le chiamavo io. Decise di raggiungere André, Gerda e gli altri in Spagna, nelle Brigate internazionali. Aveva saputo della loro presenza nel battaglione Thälmann, composto da ebrei, comunisti, polacchi e tedeschi, e voleva esserci anche lui. Non volle che lo accompagnassi. Secondo lui soltanto le mie lettere avrebbero potuto dargli il coraggio di restare e di riportare in Francia la foto eccezionale che sognava di scattare… Non potevamo certo immaginare il disastro degli anni a venire.

Stette via per sei lunghi mesi, durante i quali io lessi molto, studiando la politica del passato e del presente. Mi iscrissi a comitati di sinistra e iniziai a frequentarne le riunioni vari giorni a settimana. Una volta presi la parola per sostituire all’ultimo minuto Alain, il leader del nostro gruppo, che credo fosse innamorato di me. Ingenuamente, e anche perché non sapevo cos’altro dire, parlai del ruolo delle donne, che non bisognava più tenere da parte. Ritenevo che avessimo un’importanza straordinaria, sia nel sostegno che nell’azione. Non mi rendevo assolutamente conto del fatto che stavo intraprendendo una battaglia che non potevo portare avanti da sola. Alcune persone mi accordarono il loro sostegno, altre, uomini soprattutto, mi ascoltarono con un sorrisetto sulle labbra, senz’altro aspettando che il mio spettacolo da bambolina esagitata, senza nessun reale potere, finisse…

In quel periodo avevo ritrovato il mio Paul. Non sospettai mai che Vadim fosse suo fratello. O meglio fratellastro: la madre di Vadim aveva sposato Henri d’Arny, poi dopo qualche anno aveva divorziato per andare nel Pacifico. Vadim era talentuoso, intelligente, mentre Paul si godeva le ricchezze di Henri senza farsi tante domande. La vicinanza di quel fratello perfetto non lo aiutava a crearsi dei legami. In quel momento, però, io ignoravo tutto questo. Non avevo mai parlato con Paul di Vadim, perché volevo tenere soltanto per me quell’amore travolgente: avevo paura che anche solo la più piccola rivelazione lo potesse distruggere.

Io e Vadim ci scrivevamo ogni giorno. La lontananza rafforzava i nostri sentimenti. Lui mi descriveva la sua vita laggiù. Barcellona aveva perso il suo splendore in seguito alla rivoluzione. Il sindacato anarchico aveva installato il suo quartier generale provvisorio in via Laietana. Chiese trasformate in garage o magazzini per materiali di guerra, canoniche usate come uffici del sindacato, grandi banche e alberghi occupati dai lavoratori. Il POUM aveva inoltre installato la propria base nell’hotel Falcon, vicino a plaça de Catalunya, e il Ritz era diventato una mensa popolare! A Madrid la vita si apriva difficilmente un varco nelle strade, gli spagnoli si buttavano a terra negli autobus per evitare i proiettili casomai ci fossero sparatorie. Alle finestre erano appesi drappi con la scritta: «No pasarán!». Vadim mi mandava le foto di persone dallo sguardo profondo, pronte a portare la lotta fino in fondo. Era rimasto molto colpito dalle donne spagnole, così scure di carnagione, così indomite, un giornale in una mano e un Mauser nell’altra.

Poi capì che l’azione non sarebbe avvenuta nelle grandi città e partì per raggiungere i repubblicani nelle province. Mi aveva scritto: «Pensa che i madrileni fanno comunque la fila per ore per andare al cinema a vedere Fred Astaire e Ginger Rogers che ballano». E io mi dicevo: «Anch’io preferirei morire con delle belle immagini in testa».

Al fronte le armi, fornite in gran parte dai russi, stentavano ad arrivare. I combattenti provenivano da ogni parte dell’Europa: dall’Inghilterra, dalla Russia, dall’Italia, dalla Francia. Tutti quelli che temevano che l’ombra nera del fascismo potesse abbattersi sul loro paese consideravano la Spagna un simbolo. Gli uomini, però, sono pur sempre uomini, e gli scontri tra repubblicani cominciarono a compromettere il morale delle truppe. I dirigenti russi non sopportavano di essere arrivati fin lì per prendere ordini da inglesi idealisti. Regolamenti di conti, risse, stanchezza… Le battaglie perse deprimevano i volontari nella fornace dell’estate iberica e questi ultimi, con i nervi a fior di pelle, perdevano di vista il senso della loro presenza.

Vadim si ritrovò in prima fila durante una battaglia. Si nascose nella vegetazione per fotografare quelli che considerava i suoi, finché non si rese conto che si trattava di un’imboscata. Erano stati mandati in avanscoperta in modo che le brigate dietro di loro potessero circondare il campo di battaglia e sorprendere il nemico.

Vadim vide morire decine di uomini in poche ore. Recuperò una mitragliatrice che uno dei suoi vecchi compagni a terra teneva ancora sul cuore. Riuscì a trovare un riparo, vide passare dei soldati nemici che non si accorsero di lui. Rimase nascosto due giorni, paralizzato dalla paura, scioccato dal tradimento. Visse quella disfatta come una disillusione umana. Anche tra gli uomini considerati perbene si nascondevano dei traditori e non si facevano scrupolo ad autorizzare manovre per la gloria personale.

Dopo quell’episodio tornò da me per qualche giorno. Non era più lo stesso. Sembrava un fantasma. Mi accompagnò al comitato, ascoltò le preoccupazioni degli organizzatori a proposito dei nuovi gruppi francesi di estrema destra e non alzò mai lo sguardo durante il dibattito. Alla fine si limitò a dire: «Il mondo non ne verrà fuori. Non ne verremo fuori».

Io invece ero ancora piena di speranza, convinta di poter agire, certa che non fosse troppo tardi per evitare una nuova guerra.

Non facevo mistero delle mie idee socialiste e nel luogo in cui ero nata molti mi allontanavano, a partire da mio padre. Vadim mi dava ragione, ma per lui io ero sola e quindi vulnerabile: visto che lui non sarebbe stato sempre al mio fianco, preferiva che non sbandierassi le mie opinioni. «Gli uomini sono violenti, Diane, e non mi va di leggere sulla tua tomba: “Aveva ragione lei”».

Trovavo profondamente ingiusto che lui andasse al fronte e che io non potessi dire quello che pensavo, solo perché ero una donna.

Quando ritornò in Spagna ne fui così devastata che decisi di impegnarmi ancora di più. Andavo sempre più spesso a Parigi, rivedevo gli amici che Vadim mi aveva presentato e partecipavo a un numero sempre maggiore di riunioni politiche.

Avevamo avuto varie prove del fatto che l’estremismo di destra si era organizzato. La loro azione diventava pericolosa. Dovevamo fare qualcosa e c’era un ruolo per me. Una prima missione, a cui ne seguirono molte altre.

Dovevo infiltrarmi avvicinando un membro attivo della Croix-de-Feu, Jean-Michel Crin. Il suo ruolo nell’organizzazione era secondario. Non era così importante da dover temere di essere un bersaglio, ma lo era abbastanza da avere delle informazioni utili. Anche se morivo dalla voglia di dirlo a Vadim, mi imposi di non rivelargli nulla.

Continuavamo sempre a scriverci moltissimo, continuavamo a sognare un futuro insieme in cui avremmo potuto vivere finalmente in pace. Nel frattempo, però, lui stava per partire per il fronte d’Aragona, dove qualche settimana più tardi infuriò la battaglia di Belchite. Vadim aveva paura, ma era convinto che la ruota sarebbe girata a loro favore e che avrebbero avuto la meglio in quello scontro.

Io invece avvicinai Jean-Michel in un bar e dovetti attendere il nostro sesto incontro perché mi confidasse i dettagli delle riunioni “speciali” alle quali partecipava. Ascoltare le sue insopportabili parole di odio nei confronti degli ebrei, dei comunisti, di quella Francia che, secondo lui, rappresentava il passato (per di più un passato patetico da quando la Russia, direttamente o indirettamente, era al potere) alla fine pagò. Io riferivo sistematicamente le sue rivelazioni ai miei superiori. Non sapevo a chi venissero passate quelle informazioni né cosa ne sarebbe stato di quell’uomo, troppo stupido per avere consapevolezza della pericolosità delle proprie idee. Ubbidivo e, quando avevo finito, tornavo a occuparmi dei miei cavalli.

Paul mi sentiva distante: fu proprio questo, credo, che fece scattare la sua voglia di conquistarmi. Mi invitava a uscire o restava fino a sera tardi a casa mia e cercava di decifrare quello che definiva il mio mistero. Io sorridevo e mi sforzavo di cambiare discorso. Gli volevo molto bene e la sua presenza mi era di conforto, ma non gli davo nessuna speranza. Anche se avevamo trascorso insieme solo qualche settimana in due anni, io amavo Vadim. Nulla avrebbe mai potuto separarci veramente. Ci credevo. Saremmo stati insieme fino alla fine del mondo.

In Spagna i repubblicani furono sbaragliati a Belchite all’inizio di settembre del 1937. In Francia l’11 dello stesso mese la Cagoule organizzò un attentato dinamitardo parzialmente riuscito contro la Confédération générale du patronat français. Ci furono soltanto due morti, ma fu la prova definitiva della forza della loro organizzazione.

Avevo fallito, proprio come tutti i miei compagni di azione. Ero triste, arrabbiata, e avevo paura di tutto.

In quel momento Vadim si presentò alla mia porta. Era sporco, dimagrito, aveva il viso sudicio e la barba incolta. Era riuscito a superare a piedi la frontiera con l’aiuto dei contadini, poi si era nascosto sui treni per evitare di dover pagare il viaggio. Una corsa folle per raggiungere me. Ero al settimo cielo. Trascorremmo due giorni senza mai separarci. Lui era lì, vivo, con me, e non contava nient’altro.

Quando alla fine uscimmo di casa per andare in paese, crollò tutto. Paul ci vide e ne fu sconvolto. Io attribuii il suo choc al fatto di vedermi insieme a un altro uomo. Non potevo sapere.

Si insultarono gridando. Possibile che quei due si conoscessero? Non capivo più niente. Paul diede un pugno in faccia a Vadim, che ricambiò con un calcio. I passanti li separarono: io e Vadim ci allontanammo, mentre Paul scomparve in mezzo alla folla. A casa, Vadim mi parlò di quel fratello e del loro rapporto conflittuale. Volle sapere tutto del mio rapporto con Paul. Capiva la sua rabbia, senza comunque riuscire a giustificarlo. Ero il trofeo di troppo.

Più tardi andai a trovare Paul, pensando di sistemare le cose. Ma lui mi fece un discorso sconclusionato, un misto di amore e di disprezzo. Mi chiese di andare via e, dato che io mi rifiutavo di interrompere così la nostra conversazione, mi diede una spinta. Io caddi a terra.

Avevo appena perso il mio amico e Vadim si sentiva in colpa nei confronti di suo fratello perché mi amava.

Dopo quell’episodio rimanemmo isolati per due settimane. Due settimane di alti e bassi. Poi chiamò Alliance-Photo. All’inizio di luglio l’armata imperiale giapponese aveva causato un grave incidente diplomatico a nord della Cina e, dopo alcuni scontri, i giapponesi avevano finito per occupare Pechino all’inizio di agosto. Il conflitto si era esteso a Shanghai e non ci volle molto perché si iniziasse a parlare di una seconda guerra sino-giapponese. Una nuova via di fuga per Vadim. Sarebbe partito ancora una volta per andare troppo lontano, per troppo tempo, e io non potevo dire niente. La fotografia rimaneva la sua priorità e, anche se ero importante per lui, non ero la prospettiva di un reportage unico, né un mondo da salvare e, soprattutto, io potevo aspettarlo.

Era passato pochissimo tempo dalla sua partenza quando mi resi conto di essere incinta. Ero divisa tra la gioia e l’inquietudine. Non sapevo se sarebbe tornato in tempo, se dovevo dirglielo. Continuai a fare la vita di sempre. Il futuro sembrava troppo complicato, mi accontentavo del presente.

Le mie riunioni politiche mi tenevano occupata e non facevo caso agli atteggiamenti di alcuni vicini o agli sconosciuti che giravano intorno a casa mia: io ero altrove. I nemici peggiori, figlia mia, sono spesso quelli che non vogliamo vedere. Un giorno mio padre ebbe un malore: dovevo portarlo urgentemente in ospedale, ma mi era impossibile. In preda al panico, mi rivolsi all’unica persona su cui potevo contare: Paul. Lui venne in mio aiuto. Il cuore di papà era sempre più debole. I medici gli raccomandarono il riposo assoluto. Aveva avuto un piccolo infarto e, se non avesse fatto attenzione, ne avrebbe avuto sicuramente un altro, più grave. Dirgli che la sua unica figlia, non sposata, avrebbe avuto un bambino da sola mi sembrava impossibile.

La gravidanza e tutti quegli stravolgimenti mi sfinivano. Di sera mettevo a letto mio padre e lasciavo che Paul mi consolasse. Veniva ogni giorno a chiedere notizie e stavamo un po’ insieme. Io piangevo per ore. Lui mi accarezzava i capelli senza farmi domande. Finalmente ritrovavo il mio amico e gli ero sinceramente grata per il suo sostegno.

Cominciavo a pensare che la situazione potesse sistemarsi quando ricevetti la prima e ultima lettera di Vadim dalla Cina. Diceva cose confuse. Quello che aveva visto laggiù lo aveva disilluso per sempre rispetto agli esseri umani. Non capiva più il senso dell’esistenza. Mi annunciò che non sarebbe più tornato e che dovevo andare avanti senza di lui. Mi aveva amato, ma io non gli bastavo più.

Ero incinta di un uomo che non sarebbe tornato.

Io non bastavo.

Ebbi un crollo, ma fu l’ultima volta.

In seguito niente e nessuno è mai più riuscito ad abbattermi.

Eppure quel giorno lo choc fu immenso ed ebbi bisogno di un ramo a cui aggrapparmi. Ero così disperata, così infelice di non avere niente da offrirti… Ti meritavi un padre.

La soluzione mi sembrò evidente. Paul era pronto ad amarmi, e io finii per cedere. Soltanto una volta, perché mi resi conto subito che quella storia era votata al fallimento.

Dopo quella notte lo evitai. Ancora una volta una pessima scelta. Dopo un mese insistette così tanto per rivedermi che gli confidai di essere incinta. Senza lasciarmi finire di spiegare, Paul pensò che il bambino fosse suo e abbracciandomi mi disse di non preoccuparmi, perché saremmo diventati una famiglia. Non sapevo cosa fare. Avevo così tanta voglia di crederci. Non avevo la forza di dire la verità. Ma la debolezza si paga sempre.

Qualche giorno più tardi Henri d’Arny si presentò alla fattoria. Mi annunciò che lui e Paul sarebbero andati a vivere in America per dedicarsi ai loro affari. La mia situazione, come la definiva lui, li turbava moltissimo. Non faceva altro che ripetere: «Cosa dirà la gente?». Non ero sicura di capire e gli chiesi di essere più chiaro. Lo fu. Non ne voleva sapere di quel bambino. Nessuno doveva sapere di me e Paul. Mi offrì una grossa somma di denaro in cambio del mio silenzio. Dovevo fare una scelta: avere i mezzi per allevarti per qualche anno perdendo la mia reputazione o scontrarmi con la famiglia d’Arny…

Accettai la sua offerta. In ogni caso detestavo mentire a Paul. E siccome di noi non ne voleva sapere niente nessuno, decisi che ti avrei amato per due.

Pensavo che non avrei mai usato quei soldi. Speravo che Vadim cambiasse idea e che tutto si sistemasse, perché le cose non potevano andare peggio di così.

Mi sbagliavo.

Anche Flèche aspettava un puledro. Era un segno? Mi dicevo che da future mamme dovevamo vegliare l’una sull’altra e la sentivo particolarmente vicina quando la montavo. Lei mi diede la forza di affrontare lo sguardo di mio padre quando fui costretta ad annunciargli la mia gravidanza, prima che il mio corpo mi tradisse. Lui non mi disse niente, ma si allontanò da me.

Quando ero al sesto mese la sua malattia si aggravò improvvisamente e, a quel punto, nessuno poté fare niente per lui. Morì il 23 marzo del 1938. La sua morte per me fu doppiamente dolorosa, perché non ero riuscita a trovare un terreno d’intesa che ci avrebbe permesso di dirci addio in pace. Nello stesso momento iniziavo a essere il bersaglio di vari attacchi. Non ne ho mai avuto la prova, ma ho sempre pensato che c’entrasse Jean-Michel Crin. Ricevetti varie lettere anonime. Poi qualcuno iniziò a lanciare regolarmente oggetti contro la facciata di casa mia.

Alle riunioni i miei compagni mi consigliarono di fare attenzione. Alain mi propose anche di trasferirmi a casa sua. Rifiutai, perché speravo che Vadim ritornasse. A partire dall’ottavo mese smisi di montare Flèche, ma passeggiavamo insieme tutti i giorni. Evidentemente qualcuno ci vide…

Non dimenticherò mai la mattina in cui, aprendo il suo stallino, mi trovai di fronte a uno spettacolo devastante. Le avevano tagliato la testa e avevano usato il suo sangue per scrivere insulti sul muro. Era un gesto di una violenza inaudita. Vomitai e corsi a rifugiarmi da Alain.

Allora capii che non saremmo riusciti a evitare una guerra. Il nostro paese, l’Europa, il mondo intero, erano troppo divisi. Una febbre violenta s’impossessò di me. Dovevo proteggerti, perciò andai per qualche giorno a Parigi.

Sei nata il 14 giugno 1938. Era una bella giornata, faceva caldo, e tu eri una neonata bellissima. Nonostante la mia grande felicità, avevo paura per te. Non sapevo dove andare. Tornai alla fattoria e, naturalmente, le minacce ricominciarono. L’unica soluzione accettabile fu portarti da Jeanne, una balia che mi era stata consigliata, e usai così il denaro di Henri.

All’inizio venivo a trovarti regolarmente. Poi scoppiò la guerra e, a poco a poco, m’impegnai in quella che divenne la Resistenza. Presagii ben presto il pericolo: quando gli altri ridevano della calma apparente del conflitto al punto da definirla la “strana guerra”, io capii che non c’era proprio niente di strano.

La propaganda antisemita si intensificò. Io non conoscevo ebrei a parte Vadim e fui sconvolta dalla sollecitudine con cui la Francia si adeguò alla disumanità e all’intolleranza dei tedeschi. Vadim mi aveva raccontato di che cosa erano stati capaci dieci anni prima.

Qualche mese dopo Pétain diede vita al regime di Vichy ed ebbe così inizio l’insulto supremo alla democrazia francese. Anche se il mio interesse per la politica era recente, quella svolta improvvisa mi era insopportabile. Quel mondo governato dalla legge del più forte e del più crudele non doveva esistere. Era impensabile lasciarti crescere in quel contesto. E, per quanto mi riguardava, non potevo aver perso tutto per niente. Per fortuna non ero l’unica a pensarla così. Non eravamo in molti a voler agire, ma lo facemmo comunque.

Le nostre discussioni ideologiche si trasformarono in riunioni strategiche. Alain si mise a capo del nostro comitato e ben presto i nostri incontri si moltiplicarono. Ci unimmo ad altri gruppi più importanti per formare quello che fu chiamato Réseau Surcouf, il più attivo della Normandia.

Venire a trovarti era diventato pericoloso. Non volevo farti correre neanche il minimo rischio e volevo evitare che la gente iniziasse a farsi domande sul mio conto. Perciò decisi di non vederti per un po’. Ogni tanto Jeanne mi scriveva presso un contatto che le avevo dato. Sapevo che stavi bene e questa era la cosa più importante.

I nostri primi sabotaggi iniziarono nel ’42. All’inizio i miei compiti si limitavano alle staffette. Più che altro passavo informazioni e ricevevo aiuti dall’Inghilterra.

Non dimenticherò mai quelle notti, nascosta in mezzo ai cespugli, a sorvegliare un granaio pieno di materiale appena inviato dalla soe, una sezione dei servizi segreti britannici. La paura quando sentivamo una macchina in lontananza, il terrore in occasione dei controlli d’identità. Al minimo rumore di passi nella mia stanza pensavo che fossero venuti ad arrestarmi. Ancora oggi ho la sensazione di essere un coniglio terrorizzato su un terreno di caccia. Ma ci si adatta a tutto, persino alla guerra… E io mi abituai molto in fretta.

Una mattina di gennaio del 1944 Vadim ricomparve. Rasato di fresco e incredibilmente bello. Sembrava aver recuperato le forze ed era anche più robusto di prima. Mi aveva ritrovato grazie a un amico. Era rientrato dalla Cina dopo due anni, poi dopo l’attacco di Pearl Harbor era andato in America per immortalare il fronte Pacifico. Solo che un giorno, senza un motivo, aveva perso la voce. I medici avevano stabilito che era la conseguenza di uno choc.

Sei mesi di silenzio e altri tre di convalescenza per individuare l’origine del problema.

In Cina un soldato ferito aveva tenuto impegnata tutta l’équipe medica. Gli avevano curato un braccio che era stato fatto a pezzi, una gamba, e avevano bloccato un’emorragia all’altezza della cassa toracica. Vadim aveva assistito a tutta la scena. Voleva fotografarlo. Dieci giorni dopo c’era stato il miracolo: il giovane era in piedi e quando si era alzato l’équipe medica aveva applaudito. Qualche ora dopo Vadim lo aveva ritrovato impiccato alla cinghia della sua mitragliatrice.

Profondamente scosso, aveva messo in discussione tutta la sua vita. Quando non si è abbastanza forti, gli altri hanno su di noi un impatto a volte drastico.

Ma, dopo un lungo e doloroso periodo di incertezza, Vadim si era detto che c’era ancora da fare e si era ritrovato ben presto in Inghilterra, a Baker Street, al quartier generale della soe. Lì aveva simpatizzato con uno dei nostri, Jules, mandato come portavoce delle nostre esigenze presso gli inglesi. Jules aveva visto tra le mani di Vadim la mia foto, quella del giorno in cui ci eravamo conosciuti: mi aveva riconosciuta e, dopo essersi accertato dell’affidabilità di Vadim, gli aveva spiegato cosa facevo e dove abitavo.

Vadim mi chiese scusa. Mi spiegò che, quando mi aveva scritto quell’ultima lettera, per lui tutto aveva perso colore, sapore e importanza. Non faceva più distinzione tra il giorno e la notte, non riusciva più a proiettarsi nel futuro. Poi il tempo aveva fatto la sua parte e lui ormai da tempo aveva una sola idea fissa: ritrovarmi.

«Ho avuto così tanta paura di non rivederti» mi ripeteva.

Eppure ancora una volta vissi le tre settimane di quella parentesi come in apnea. Ciò che era successo negli ultimi anni ci aveva allontanato e arrivavo spesso alla conclusione che non mi conoscesse più. Mi avrebbe amato comunque scoprendo la verità? Non sapeva niente della mia vita quotidiana e, naturalmente, della nostra bambina. Sapeva di me e di Paul? Preferii che, se proprio dovevamo parlarne, fosse lui ad affrontare l’argomento. Invece mi concentrai sui bei momenti.

Sfortunatamente a quell’epoca i periodi di calma non duravano mai a lungo. Sapevamo che lo Sbarco era imminente e la separazione inevitabile, ma pensavamo che sarebbe durata poco. Eravamo sicuri di ritrovarci qualche mese più tardi per ricominciare tutto. Era impensabile non dare il nostro contributo alla fine della guerra.

Vadim tornò in Inghilterra e io ripresi i contatti con il mio quartier generale.

Comunicavamo poco, seguendo un codice che avevamo elaborato insieme. Lui non rischiava molto ma, per quanto riguardava me, nessuno doveva sapere che avevo dei legami oltremanica. Quindi solo messaggi brevi, soltanto per dirgli che ero viva e che lo amavo. Lui mi rispondeva che sognava ogni notte una grande casa in cui avremmo cresciuto insieme i nostri figli.

Non gli dissi di te. Non so perché, ma non ci riuscii. Era la vergogna per non averti tenuto con me? Per aver usato i soldi di Henri? O la paura che, una volta che lo avesse saputo, si sarebbe tirato indietro? Non volevo dargli la scusa per sparire ancora una volta. Averlo ritrovato era già un miracolo e mi dicevo: «Ogni cosa a suo tempo. Se sopravvivremo a tutto questo andremo a cercare Alice insieme e andrà tutto bene».

Le missioni si susseguivano a un ritmo indiavolato. Poiché molti dei partigiani del nostro gruppo erano stati uccisi o imprigionati, le donne avevano maggiori responsabilità. Io riportai qualche successo grazie al quale mi venne affidata un’ultima operazione: far saltare una centralina telefonica per troncare le comunicazioni tra i tedeschi appostati in Normandia e i loro rinforzi al momento dello Sbarco. Lo scopo era guadagnare i due giorni decisivi per l’avanzata delle nostre truppe.

Vadim era riuscito ad accodarsi a un reparto come fotografo e doveva sbarcare al fianco dei soldati. Quel privilegio era stato concesso soltanto a due fotografi, lui e André. Il momento del nostro incontro si avvicinava. Se qualcosa fosse andato storto, ci saremmo ritrovati sotto la torre Eiffel, al tramonto, alla fine della guerra.

Tre ragazze del nostro gruppo morirono, ma la mia operazione raggiunse comunque il suo scopo: la centralina prese fuoco. I tedeschi ci misero giorni a riparare i cavi. Credo invece che gli Alleati avanzarono abbastanza da consolidare la loro offensiva. In ogni caso si trattava di una mia supposizione, perché non vidi mai lo Sbarco: qualcuno mi aveva denunciato e i tedeschi mi arrestarono.

Cercarono di farmi parlare. Volevano nomi, luoghi, ma non ottennero niente. Le gambe non mi reggevano quasi più quando mi chiusero con decine di altre persone in un vagone di legno. Nessuno sapeva dove stessimo andando. Io, che ero convinta che il conflitto fosse arrivato alla sua conclusione, non immaginavo che la mia guerra stava per cominciare.

Tre giorni dopo arrivammo alla fine del mondo. La mia prigione era un posto chiamato Auschwitz. Quando il campo fu liberato, all’incirca un anno dopo, l’esercito americano ci fece rimpatriare a bordo di camion, fino all’hotel Lutetia. Stavamo male, eravamo sporchi e affamati. Dovevamo imparare di nuovo a mangiare, guarire dal tifo, liberarci dai pidocchi; e, una volta recuperate un po’ le forze, affrontare i fantasmi della nostra mente. Una guerra che combatto ancora oggi. Non so come vivere dopo essere uscita di lì… Sembra tutto assurdo. Credo che il campo mi accompagnerà per sempre. Che io scelga di pensarci, di parlarne, oppure di non pensarci e di non parlarne affatto, tutto ruota intorno al campo.

Qualche settimana fa sono stata messa in contatto da ciò che resta del mio gruppo con Geneviève de Gaulle, che ha invitato me e altre ragazze in una pensione in Svizzera perché possiamo riprenderci. Ed eccomi a Nyon.

L’intenzione era lodevole, il risultato lo è stato meno. La pensione è gestita da protestanti, che ci ripetono che la libertà bisogna meritarsela, che dobbiamo sbrigarci a trovare un lavoro, imparare la dattilografia o l’inglese…

Ero ancora più scoraggiata di prima, eppure non so cosa è successo ma tre giorni fa ho capito che avrei continuato a vivere. È cominciato tutto con un desiderio, molto semplice, che però non provavo da mesi: un pain au chocolat. Poco dopo ho sognato un orologio per conoscere l’ora esatta. Tornando nella mia stanza mi è venuta voglia di venirti a cercare.

Devi capire che, fino a quel momento, era una cosa ben al di sopra delle mie forze. Potrei dirti che ho continuato a volerti bene nonostante tutto, ma la verità è che non provavo più niente. Non sapevo cosa fosse rimasto della vita di prima. Avevo paura che fosse scomparso tutto. Per vederci più chiaro ho deciso di scriverti. Ho chiesto dei fogli e mi hanno dato questo quaderno. Sarà per te.

Alice girò qualche pagina bianca, poi il racconto riprendeva, stavolta con l’inchiostro blu.

Parigi, settembre 1946

Alice, ho avuto così tante cose da fare da quando sono tornata da Nyon che non sono riuscita a scriverti.

Ho cercato di ritrovare Vadim. Negli ultimi tre mesi sono andata ogni giorno al tramonto sotto la torre Eiffel. Ho aspettato per ore, ma lui non è mai venuto. Ho fatto vari tentativi, ho ripreso i contatti con tutte le nostre conoscenze comuni della soe. Nessuno aveva notizie, fino alla settimana scorsa…

È tra i caduti.

Jim Smythe, del reparto che Vadim accompagnava, lo ha visto annegare nella Manica durante lo Sbarco. «Cento giorni di combattimenti in Normandia, centoquarantamila morti: scomparire è la regola» mi ha detto. Mi ha consigliato di concentrarmi sul futuro, come fa lui.

Vadim è morto. Mi sembra così assurdo.

Ho passato più tempo senza di lui che al suo fianco, ma ho sempre avuto la sensazione che fosse solo questione di tempo. Che ingiustizia!

Siamo appesi a dei fili, povere marionette nelle mani di bambini crudeli e privi di ogni logica.

Ho pianto per giorni interi. Questo mondo in guerra ha fatto di noi le sue pedine e non ci ha mai risarcito di ciò che ci ha sottratto. Tuo padre era un uomo eccezionale e, come spesso avviene, l’eccezione non trova facilmente posto in mezzo all’ordinario.

Spero che sia morto senza rimpianti. Cerco di consolarmi dicendomi che faceva quello che amava, convinto che ci saremmo ritrovati.

Ma ci sei tu.

L’associazione che ha trovato una sistemazione per me e Marcel mi ha messo in contatto con un’assistente sociale, Madame Bajon, che mi accompagnerà a cercarti.

Il testo finiva lì, si ripeteva Alice. Scoppiò a piangere. «Ti prego, mamma, ancora.» Affannata, sfogliò le pagine. C’era un ultimo appunto, di nuovo con la grafia da malata.

Il seguito lo conosci. Quando sono arrivata a Salies e ti ho visto… Eri così grande. Sembrava che non avessi paura di niente e bisogno di nessuno. Ero sotto choc. Ho capito che non avrei mai cancellato la distanza causata dal mio abbandono. Ero responsabile di ciò che saresti diventata, pur sapendo che non avrei mai avuto un ruolo nell’essenza di ciò che sei. Mi sono impegnata con tutte le mie forze per proteggere te e Marcel. Voi siete tutto quello che ho.

Perdonami per averti lasciato andare e soprattutto per averti mentito. Ho pensato che saresti stata meglio con Paul. Lui ha i mezzi per offrirti una vita agiata e per stare al tuo fianco quando io non ci sarò più.

Mi dispiace tantissimo che le cose siano andate così.

Avrei dovuto scegliere un’altra strada, avrei dovuto abbandonare certe battaglie per occuparmi di te. Non ho potuto. Questione di sopravvivenza.

Alice, posso dirti soltanto che alla fine tutte le mie strade mi hanno condotto soltanto da te. E che ogni giorno che Dio ha mandato sulla Terra, come diceva mio padre, tu sei stata importante.

Diane

Alice posò il quaderno a terra. Lo fissava paralizzata. Monsieur Marcel le sfiorò la coscia, come per dirle: «Andrà tutto bene». Lei lo guardò senza trovare una risposta.

Doveva vedere Vadim.

Vadim… suo… Impossibile pronunciare quella parola. Salutò Monsieur Marcel e gli promise che sarebbe tornata presto. Lui non l’ascoltava più. Senza fare rumore, Alice richiuse la porta dietro di sé. In quel momento il pianerottolo le sembrò diverso, più grande forse. Scese qualche gradino e dovette fermarsi.

Paul non era suo padre. Paul non era suo padre. La testa le girava. Sembrava che nella mente si creassero delle connessioni senza che fosse lei a deciderlo. Qualcosa scattava, qualcosa esplodeva. Sua madre era convinta che Vadim fosse morto. Quanto doveva aver sofferto… E perché poi? Per delle bugie… Le avevano sempre detto che mentire era sbagliato. Perché i suoi non avevano fatto altro che quello?

A New York Vadim e Paul si detestavano, e finalmente Alice capiva il motivo: avevano amato la stessa donna. Sua madre. Diane era stata il grande amore di Vadim. Eppure per tutto quel tempo lui aveva pensato che non avesse contato, che il loro amore non fosse stato altro che una bugia, perciò aveva preferito scomparire.

Alice ripensò al suo arrivo a Manhattan, all’aggressività che suo zio dimostrava senza che lei riuscisse a capirne il motivo. Era semplice: lei era la prova del tradimento di Diane. Che pasticcio. Quel pensiero le toglieva il fiato. Si sedette su un gradino e guardò il muro. Lo fissava senza aspettarsi niente.

Non voleva più pensare. Voleva rimanere lì. Il passato l’addolorava, il futuro le faceva paura, e anche il presente. Lei che credeva che conoscere la storia le sarebbe stato di conforto… Era peggio. Adesso si sentiva persa.

Improvvisamente avvertì un bisogno pressante: Vadim doveva sapere la verità, sapere che era sempre stato amato. Sapere che lei era sua f… Ancora non riusciva a dirlo. Scattò in piedi e scese di corsa fino al primo piano. Lì si fermò di nuovo. Aveva i crampi alle gambe e alle braccia. Il suo corpo reclamava una pausa. Era troppo, tutto insieme.

Si ricordò di Ellen, la sua litigata con Paul. «Io non ho niente che non va» aveva ripetuto. Evidentemente lei aveva capito. Era il corpo di Paul che non “funzionava”. Ellen doveva odiare Diane per le sue bugie. Era per questo che non aveva spedito le lettere?

E Henri… Malediceva Alice per essere arrivata una seconda volta a sconvolgergli la vita. Tutte quelle persone, le loro piccole storie, il loro odio e il loro desiderio di rivalsa, la distruggevano. Quanto tempo perso.

Sentì una porta che sbatteva più su. Non voleva incrociare nessuno. Si rifugiò in cortile. Lo studio di Jean-Joseph era vuoto. Evidentemente era partito per la Germania con i ricani. Gli avrebbe scritto presto.

La pioggia crepitava sul vetro che lui aveva messo sulla finestrina del seminterrato per proteggerlo dal freddo. Grosse gocce vi battevano con una cadenza regolare. Alice si sentiva ridicola a rimanere lì, ma non riusciva a muoversi. Ripensava a se stessa, qualche mese prima a Salies, in attesa del ritorno di sua madre. Quei mesi a portarsi in giro il suo lenzuolino e il suo turbamento per essere l’ultima bambina che continuava a essere nascosta al villaggio un anno dopo la fine della guerra. Diane non aveva potuto raggiungerla prima e la sua voglia di farlo non c’entrava niente.

Era in preda a sentimenti contrastanti. Era strano. Si sentiva triste e felice allo stesso tempo. Per quanto le pesasse l’intensità delle sue scoperte, si sentiva leggera. Non serviva a niente cercare spiegazioni: non era logico. Sentì una vertigine. Si distese a terra. Era più forte di lei, aveva bisogno di una pausa prima di ripartire. In gergo musicale si chiamava sospiro, lo aveva letto su uno spartito. Un sospiro… Quella parola le sembrava perfetta.

L’indomani avrebbe detto addio a sua madre. L’avrebbe ringraziata per il quaderno azzurro. Dovunque fosse Diane l’avrebbe sentita, Alice ne era sicura. Niente di tutto quello che era successo era giusto, ma era la natura, era così e basta. Vadim aveva ragione.

Dopo un po’ smise di piovere. Quanto tempo era passato? Aveva sofferto così tanto perché pensava di non essere normale. Tutte quelle strade, quelle navi, quei treni in attesa di andare da qualche parte dove la vita avesse un senso, tutte quelle notti a chiedersi perché, a domandarsi cosa ci facesse lì, quegli interrogativi senza risposta, quegli sforzi per essere come gli altri… Era finita una volta per tutte? Adesso non era più sola. Aveva un padre, e lui l’aspettava all’angolo della strada con una merenda.