Il 3 novembre 1852 Wagner aveva finito di scrivere il testo letterario, il «libretto» diciamo, dell’Oro del Reno (Das Rheingold), mentre la composizione musicale lo occupò dal settembre 1853 al maggio 1854: a quel tempo un atto unico per due ore e mezza di musica era qualcosa di affatto inconsueto nella prassi operistica. Eppure Wagner ci aveva già provato dieci anni prima con L’olandese volante, quando, per salvaguardarne l’origine dal genere poetico della ballata, intendeva presentarlo al pubblico come atto unico: impresa irrealizzabile in qualunque teatro, e infatti alla prima di Dresda del 1843 l’opera fu rappresentata nei tre atti regolari (solo nel 1901 a Bayreuth viene proposta per la prima volta in un solo atto). Quando l’esigenza artistica della compattezza, incurante delle esigenze del pubblico, rinasce con l’atto unico dell’Oro del Reno, segue più o meno la stessa sorte: solo nel 1876 (a parte l’esecuzione avvenuta a Monaco il 22 settembre 1869, disposta da Luigi II di Baviera contro la volontà di Wagner) verrà rappresentato a Bayreuth come atto unico e prologo della prima esecuzione completa della tetralogia. Dopo Wagner, alla fine del secolo, l’atto unico incontra invece una diffusa fortuna; basta pensare a Salome, Elektra, Ariadne auf Naxos, Daphne di Strauss o a Cavalleria rusticana di Mascagni o al Trittico di Puccini: gli ideali culturali inoculati nel teatro musicale da Wagner conoscevano ormai una momentanea vittoria, e all’uso pratico e civilissimo dell’intervallo si sovrappone l’esigenza estetica di unità, concentrazione, coerenza; cioè, l’istanza culturale sul diletto dello spettacolo.
Alla concentrazione dell’atto unico è complementare la densità e la numerosità del testo verbale; Wagner vuole esporre e raccontare tutto, aborrendo quelle scorciatoie, quei voltafaccia immotivati o dovuti a interventi esterni tipici dell’opera tradizionale per collegare i vari numeri musicali. Dall’esigenza di esaurire l’antefatto e dallo scrupolo di porre le premesse di quanto capiterà nelle giornate successive, Wagner è spinto in questo prologo a fare il giro completo della creazione; pressata nell’atto unico si conserva infatti l’articolazione di un’opera completa, con, a sua volta, un prologo (preludio e scena con le ondine, nel fondo del Reno) e tre atti (sui monti, sotto terra, di nuovo sui monti); sono in scena tre stirpi di dei: i celesti con il loro padre Wotan, i neri nibelunghi con il re Alberich, e i giganti, oltre a divinità minori come le tre figlie del Reno e il dio del fuoco Loge: una sfilata di personaggi come in nessuna delle altre opere del Ring. Tanta superficie verbale da coprire ha come conseguenza necessaria una certa rapidità interna di trattamento, una sveltezza nel condensare informazioni, racconti e stati d’animo in poco spazio: attenendosi a un dettato «conciso, determinato e ricco di contenuto serrato», come scrive lo stesso Wagner (2016, p. 48).
Pur inaugurando L’oro del Reno in modo definitivo la stagione del Wagner maggiore, è naturale che nel suo tessuto poetico-musicale si trovino residui di forme chiuse (accenni di arie, brevi Lieder), e sopra tutto frammenti di recitativi, in tratti anche estesi di musica «utilitaria», alternata con infallibile abilità teatrale a episodi di musica «poetica» per rappresentare quadri di natura o dare spazio a tirate morali: una duplicità che nell’Oro emerge con una certa evidenza, per attenuarsi via via nelle altre giornate della tetralogia, senza però scomparire del tutto.