Nell’apertura dell’Oro del Reno l’immagine tradizionale del Chaos primigenio è capovolta; se Rameau nel prologo di Zaïs e Haydn nell’apertura della Creazione avevano addensato elisioni e dissonanze in funzione del rassicurante, positivo sbocco nella certezza della tonalità, simbolo di un Ordine raggiunto, Wagner sostituisce il disordine con la quiete assoluta della sola tonalità di Mi bemolle maggiore, ferma e inalterata per 136 battute. Questo preludio è un manifesto romantico che rovescia la classica rappresentazione del Chaos come si trova nel libro I delle Metamorfosi di Ovidio: guerra fra gli elementi, informe coacervo in attesa di una luce che dia un senso alla creazione; al contrario, qui il pensiero musicale concepisce il Chaos come unità di potenze nel profondo, purezza dell’inorganico e inanimato; l’appello è al pathos monistico dell’immutabile, giusta il famoso detto di Anassimandro secondo cui l’individuazione apparirebbe come una colpa, di cui gli individui particolari debbono pagare il fio, tornando a dissolversi nel tutto.
«The One remains», così Shelley nell’Adonais, l’Uno soltanto è, e tutte le altre cose non sono che le sue passeggere alterazioni. Se dalla prima frase di un romanzo, dalla sua lunghezza e dal suo andamento, si dovrebbe già intuire il tempo dello sviluppo, l’apertura a compasso della composizione, il principio dell’Oro del Reno, con la sua stasi nella tonalità di Mi bemolle, può fare da solida base alla mole dell’intera tetralogia; i pochi minuti del tempo matematico prendono massa, la durata reale evoca un tempo cavo a perdita d’occhio; battute immobili senza altra vita che la vibrazione del suono, magia dell’incoativo.
Tuttavia, questo Mi bemolle fondamentale non discende poi del tutto dai cieli senza tempo della metafisica, ma ha pure le sue radici storiche particolari: è il buon massonico Mi bemolle del Flauto magico di Mozart e della «religione del Reno» di Schumann; ciò che induce qualcosa di convenuto, di famigliare in quella solitudine cosmica. Sulla nota di base (otto contrabbassi divisi e tre fagotti), unica nota, come la monade acquea primordiale, spuntano, distribuite fra gli otto corni, la quinta, la terza, le altre note della tonalità, come peduncoli e protuberanze: creature, come irritazioni, infiammazioni dell’immobile materia armonica. Sul tronco della triade, articolando le note dell’accordo verso l’alto (per tutto il Ring simbolo di emersione dal profondo, di elementi naturali o di divinità) cresce poco alla volta la vita ritmica: le energie primordiali fluiscono, seguendo la tecnica tradizionale della variazione ornamentale per aggiunta di note e intensificazione ritmica. Una volta avviato, l’impulso creatore non cessa di espandersi e propagarsi: si rende nitida la figura dell’arpeggio, a partire dai violoncelli e poi su alle viole e ai violini; i valori ritmici raddoppiano di velocità, e presto si riconosce il ben noto fluire del 6/8 per sestine, con cui la musica rappresenta ab antiquo il moto ondoso; così le onde cullanti di Schubert nel Lied Auf dem Wasser zu singen, così il mare dell’ouverture La bella Melusina o del Fingal di Mendelssohn, o dell’Olandese dello stesso Wagner; l’indicazione ai violini, sempre aggraziato e dolce, sembra evocare con grazia raffaellesca riccioli di spuma al termine delle scale volanti, mentre aumenta la densità di arpeggi e scale e l’orchestra freme come un alveare.
Ma, prima che si alzi il sipario, c’è forse il tempo di ricordare quella famosa pagina dell’autobiografia, ripresa simile in una lettera a Emilie Ritter del 29 dicembre 1854, in cui Wagner ci racconta come quel preludio sia nato all’improvviso in un albergo di La Spezia durante un breve viaggio in Italia nel settembre del 1853. Gettatosi sul letto stanco morto, l’artista entra in una sorta di dormiveglia, con la sensazione di sprofondare in una sonora corrente d’acqua; il suo rombo sembra definire un suono musicale «e precisamente l’accordo di Mi bemolle maggiore, dissolto in arpeggi continuamente ondeggianti; questi arpeggi si configurarono in forme melodiche sempre più mosse, ma senza mai uscire dalla triade pura di Mi bemolle maggiore» (parole che in realtà paiono scritte con l’occhio al preludio già composto); «con la sensazione delle onde che ora rumoreggiavano alte su di me, mi destai di colpo atterrito dal mio dormiveglia. Tosto riconobbi che mi si era rivelato il preludio orchestrale dell’Oro del Reno, che portavo in me senza ancora averlo potuto distinguere esattamente» (Wagner 1973, pp. 615-6).
Il racconto della visione sembra voler ricostruire per i posteri una naïveté alquanto incerta, contraddetta anche dagli abbozzi: dallo studio dei quali (per cui si veda Warren Darcy 1989) parrebbe che la forma definitiva del preludio dell’Oro del Reno, secondo la buona tradizione della prassi operistica, sia stata raggiunta a cose fatte, a opera quasi finita o quanto meno molto avanzata: traendo nutrimento dalla figura dell’apparizione di Erda nel successivo episodio della scena IV, dove il tema ascendente accompagna l’emersione dal profondo della dea. Di fatto il primo abbozzo del preludio è molto diverso dalla forma definitiva quale riporta il manoscritto della partitura completa, e anche qui con correzioni e alterazioni: segno di un intenso lavoro di trasformazione ed elaborazione, di cui il compositore va specialmente fiero in una lettera a Liszt del 4 marzo 1854: «Cerca di immaginare: l’intera introduzione strumentale di Das Rheingold è costruita sulla singola triade di Mi bemolle» (Darcy 1989, p. 81), senza più accennare all’allucinazione sonora di La Spezia.
Quindi l’avvincente pagina della Vita non è da prendere per oro colato, ma neppure è da considerare come pura invenzione, smascherata dai dati documentari; non c’è ragione di dubitare che Wagner abbia compreso di colpo, anche se non subito realizzato, come organizzare idee e fermenti tematici che da tempo premevano; la voglia di scrivere, repressa da una lunga crisi compositiva (non aveva più scritto musica dalla conclusione del Lohengrin, nell’aprile del 1848), può essersi liberata nel clima fantastico di un sogno, in cui il compositore, cullato nel suo dormiveglia da onde e correnti marine, abbia intuito il nucleo del brano nell’ipnotizzante visione dei flutti marini. Meglio lasciare l’episodio nella sua verità poetica, osservando piuttosto che l’intensa elaborazione degli abbozzi conferisce al preludio il ruolo di un semenzaio di temi e connessioni per altri luoghi della tetralogia.