Scena II

Reveil du roi

L’intermezzo musicale che accompagna la mutazione scenica è la prima delle tante mirabili transizioni atmosferiche che popolano L’anello; mulinelli di terzine, flauti e ottavini compiono la trasformazione delle onde in vapore acqueo, mentre (un poco più lento) il corno fa sentire quel tema in Do minore (rinuncia d’amore) già cantato da Woglinde; sarà tratto comune degli intermezzi sinfonici del Ring quello di richiamare alla memoria i temi legati a fatti decisivi della scena appena conclusa: accorgimento mnemonico che nelle nuove combinazioni della veste sinfonica perde ogni traccia didascalica.

Prima di vedere qualcosa, già si respira un’altra aria; poco alla volta, dai fiocchi di nebbie, l’occhio abbraccia una vasta regione alpestre; su un prato fiorito, come quello in cui è depositato Faust al principio della seconda parte della tragedia di Goethe, dormono Wotan e la moglie Fricka; sopra di loro s’innalza un fortilizio inespugnabile, un lucido parallelepipedo che scintilla nel sole: il paesaggio è immenso, come la musica che lo rende percepibile agli occhi della fantasia. I frammenti melodici circolari (tema dell’anello) presenti nell’intermezzo si raddrizzano in accordi solidi come basamenti: un corale insomma, o una marcia regale, affidato alle tube, strumenti che Wagner si era fatto costruire per la loro sonorità patinata, docile all’impasto con corni e tromboni; accordi irrefutabili, che non lasciano dubbi sul nuovo sito: il Walhalla, olimpo degli dei luminosi, quegli dei di schiatta superiore baciati dalla fortuna, se la loro sicurezza, in un cosmo divenuto contenzioso e precario, non fosse insidiata da altre stirpi, spore endogene di dei generati dal collasso del Tutto; appunto ad arginare i quali è stata edificata la rocca in alto, lavoro di magna ingegneria operato dalla stirpe dei giganti.

In questa cornice omerica, fuori dal tempo, il genio teatrale di Wagner sorprende la coppia coniugale, Wotan e Fricka, in una situazione quanto mai prosaica, dove il caso umano, come ogni tanto succede, salta fuori dalla cornice mitologica. Intanto, Wotan è ancora mezzo addormentato: un modo di entrare in scena, per il Giove della mitologia germanica, a dire il vero più tipico di personaggi di commedia, servitori, figure secondarie, come il Just all’inizio della Minna von Barnhelm di Lessing. Wotan (basso), nella tramezzante dolcezza del dormiveglia, parla di gloria e potenza, ma accanto a lui Fricka (soprano grave), che ha dormito male, è già sveglia: preoccupata per la più borghese delle preoccupazioni, quella dei debiti, e incalza il marito a destarsi; ma questi sembra girare sul fianco il suo corpo ben pasciuto continuando a sognare di castelli merlati, mura compatte, porte ben chiuse; lei lo scuote con veemenza, sa che il nuovo giorno porta la resa dei conti, che bisogna pagare la rocca costruita dai giganti. Quando Wotan infine apre gli occhi per bene, sorvolando sull’ansietà della moglie, lo sguardo va dritto in alto alla rocca scintillante: «Compiuta l’opera eterna!», frase che Wotan articola sulle note dell’accordo perfetto di Re bemolle, gran segno de’ regi, fin dalla vecchia opera seria, a significare dominio assoluto sugli eventi. Ma questa placidezza aizza di più l’ansia di Fricka: «Svegliati, torna sulla terra! Oggi, adesso, bisogna pagare il lavoro pattuito»; e il prezzo è altissimo, niente meno che la dea Freia, sorella di Fricka, colei che con l’eterna giovinezza garantisce il perdurare dello stato beato degli dei.

Contrasti coniugali

L’ira di Fricka è tutta retroattiva: per pagare i giganti della costruzione della rocca, Wotan aveva tenuto conciliabolo segreto e stretto il patto di cedere in cambio del fortino Freia, la dea della giovinezza; mai avrebbero acconsentito al misfatto Fricka e le altre dee, accortamente fatte allontanare dagli uomini; ora il nodo è venuto al pettine, bisogna pagare, ma Freia non può essere merce di scambio! Wotan affetta sicurezza, cerca di tagliare corto e, cosa da non fare mai in questi casi, sorride con un’aria da cuor contento che fa uscire dai gangheri Fricka: «o criminale, ilare incoscienza!», vi siete svenduti mia sorella! cosa non fareste voi uomini quando c’è di mezzo il potere!

Il battibecco va avanti per lo più in stile di recitativo accompagnato, cioè canto declamato e accordi separati dell’orchestra: dialogo rapido a battute acide, con disinvolture tipiche di quel teatro boulevardier che Wagner aveva ben conosciuto a Parigi; unica figura musicale che spicca, un tema scosceso e imperativo, una rozza scala discendente di violoncelli e contrabbassi, a significare la costrizione del patto (la figura, classificata come «tema della lancia di Wotan», potrebbe avere una delle sue fonti nell’apertura della Sonata in Si minore di Liszt: opera che nel transito al Wagner maggiore avviene spesso di consultare). A propria difesa, Wotan ricorda alla moglie che anche lei ha voluto la costruzione di una sede splendidissima; sì, ma per viverci con il consorte in una civile dimora, in un nido d’amore, non in una caserma; e a questo punto si diffonde una musica dolcissima, in cui senti la quiete della famiglia, il tepore del focolare, momento di squisita sensibilità in mezzo alla materialità del duetto. Wagner, con oggettività classica, mette in musica la dolcezza dell’amore domestico, gli presta il suo genio caratterizzante, ma senza immedesimarsi in una Fricka che vuole tenere sotto chiave il marito, e in un Wotan stufo di stare a casa. Wotan riprende ironico il tema del tepore casalingo con le stesse note, quasi a motteggio (anche qui, un tipico procedimento da opera buffa): chiuso nella fortezza, dice Wotan, mi voglio conquistare il mondo di fuori; la vita ha dei veleni che si combattono muovendosi e io, essendo vivo, amo «ciò che si alterna e cambia», chiudendo la frase con un teatrale salto di sesta ascendente, gesto statuario di comando e di dominio (così già l’Olandese: quando sfida l’«annientamento eterno»).

Il patto con i giganti

Alla moglie, che lo accusa di anteporre i giochi del potere all’amore di una sposa, Wotan rammenta che per conquistarla aveva dato in pegno uno dei suoi occhi (e così, con una benda sull’occhio mancante, lo rappresenta la tetralogia); del resto, venendo al punto decisivo, Wotan confessa che neppure un istante ha mai pensato di cedere davvero Freia. «Allora fai qualcosa, subito, perché Fasolt e Fafner stanno per portarla via»; infatti Freia irrompe in scena in cerca di protezione: «Aiuto, sorella, cognato, i giganti!!». «Lasciali sbraitare», dice Wotan, aggiungendo fulmineo una battuta parentetica, rivolta sottovoce a Fricka: «Hai mica visto Loge?», con la solita nonchalance che tanto irrita la consorte.

2. Franz Stassen, Il contratto tra Wotan e i giganti, 1914.

2. Franz Stassen, Il contratto tra Wotan e i giganti, 1914.

Mentre gli avvenimenti incalzano, nel tempo lineare si apre una parentesi ragionativa: Fricka, custode delle antiche religioni positive, ha sempre avuto in odio questo Loge, natura intermedia fra gli dei luminosi e i demoni, che tesse inganni e consuma come il fuoco. «Dove ci vuole coraggio – replica Wotan – son qua io, ma quando serve astuzia, nessuno è pari a Loge per azzeccare le soluzioni; suo il consiglio di promettere Freia senza cederla, sua la promessa di liberarla, e mi fido di lui». Fricka chiude il siparietto e riprende il tempo drammatico diretto: «E dov’è ora il bell’amico? Ti ha mollato solo davanti ai giganti incanagliti!».

Visto che il cognato tergiversa, Freia chiama in aiuto i fratelli, Donner e Froh, che però non si fanno vedere, e mentre Fricka maledice la lega maschile, sui colpi di maglio dei timpani entrano i due giganti, Fasolt e Fafner, al passo di una marcia rigonfia e brutale, armati di randelli e intenzionati a farsi le loro ragioni. Nella ottusa esuberanza del loro tema i giganti fanno ancora sentire la fatica durata nel costruire, i colpi dei loro martelli, assieme a una certa fierezza del lavoro ben fatto; ora non resta che pagare, e si apre un episodio di fitto dialogo fra operai e committenti, dove nei varchi lasciati aperti dal tessuto recitativo si inseriscono coaguli tematici più distinguibili: gli accordi squadrati della rocca, la rigida scala del patto, o l’immagine leggiadra di Freia, che sale cromatica con la delicatezza della parte intermedia della seconda Novelletta di Schumann.

Contrattazioni

Due sono i giganti, e due e diversi i temperamenti morali; a questa diversità Wagner dedica la sua attenzione, del tutto indifferente che tali gradazioni di carattere possano essere percepibili al pubblico del teatro d’opera, più avvezzo a situazioni di schematicità estrema: in questa concezione analitica, più che nella empirica «lunghezza», che poi è frutto di quella meticolosa esplorazione dei caratteri, consiste forse il lato più inaudito dei drammi musicali wagneriani a metà Ottocento.

Alla spiccia richiesta di Fasolt di saldare il debito, è impagabile la reazione di Wotan, che fa lo gnorri, finge di non sapere: «Vediamo gente, su, cosa vogliamo fare come compenso?». «Ma è già fatto e deciso!», protesta il creditore sul tema della lancia garante del patto: «Freia la dolce» è il compenso, e mentre pronuncia il nome l’orchestra rivela a chiare lettere che Fasolt sotto la scorza irsuta nasconde una natura sensibile: i suoi occhi da gigante primèvo hanno visto la bellezza di Freia e l’effetto è penetrato nei precordi; insomma, il bestione si è innamorato della bella, come nella favola di Leprince de Beaumont. Wotan non prende nemmeno in considerazione la cessione di Freia, dice che si era concordato per ischerzo, che occorre trovare un altro compenso, e prova a chiudere la cosa con un bon mot: cosa ve ne fareste, voi rudi incolti, delle grazie delicate della dea luminosa? La risposta di Fasolt produce uno di quei ribaltamenti, veri colpi di scena interni, che a sorpresa innalzano il dialogo wagneriano a dramma dell’anima; in realtà Fasolt tocca una sostanza umana che il re degli dei neppure intravede: «Come ti sbagli – risponde –, proprio a noi serve la dolce, non a voi felici che barattate la donna per torri di pietra, a noi che lavoriamo con mani callose e che nei nostri tuguri aspettiamo la luce e il calore della sua presenza». Questa immagine di lindura domestica, tutta tramata dalla saliente delicatezza del tema di Freia, si conclude in quattro battute di scrittura contrappuntistica severa («wonnig und mild», «mite e amorosa»), con bassi che salgono di quarta e ritardi e note di volta nella melodia come nella musica liturgica: passo che nei Maestri cantori di Norimberga non stupirebbe, ma probabilmente un semel dictum in tutto L’anello.

Lo sdilinquirsi del fratello innamorato fa perdere la pazienza al secondo gigante, Fafner, quello meno sensibile e più pericoloso: a noi Freia giova poco, rimugina fra sé, ma è indispensabile agli dei superi, perché lei sola sa coltivare i pomi aurei che ne garantiscono la giovinezza. Mentre pensa, il tempo della riflessione si sovrappone a quello della rappresentazione: l’immagine dei pomi miracolosi s’immobilizza in un quadro di musica dolcissima, con lontane fanfare dei corni come nel dorato romanticismo di Weber, musica che si fa riverente di fronte all’incanto della natura. Senza il nutrimento di quei frutti, Fafner lo sa bene, la schiatta orgogliosa degli dei invecchierà e sparirà dalla faccia della terra; è l’occasione che i giganti cercavano per detronizzare i «luminosi», dare loro scacco matto prendendosi la dea. Quindi si fanno sotto, mentre a sua difesa ecco finalmente apparire Froh, fratello di Freia, baldanzoso dio della serenità, e Donner fragoroso, dio del tuono con il terribile martello che schianta le folgori; si alzano mazze e randelli, si sta per venire alle mani, ma Wotan si oppone alla forza bruta, come difensore dei diritti garantiti dalla sua lancia; o forse perché con la coda dell’occhio ha visto arrivare Loge, annunciato dal pullulare tortuoso, inafferrabile come la fiamma, del suo tema cromatico.

Loge

Quello di Loge è un tipico tema naturalistico-descrittivo; infatti resta sostanzialmente uguale in tutto L’anello: unisce il vitalistico scintillare del fuoco (accordi dei legni) all’astuzia del tessitore d’inganni (scivolamenti cromatici degli archi), come Hermes. Loge sta per conto suo, anche come stile di canto, tenore leggero che gli interpreti di turno accentuano con inflessioni parlanti e stridule; ma questo stare per sé gli dà una nota umoristicamente snob, quindi moderna, è un critico, è colto, fa citazioni dai classici: infatti irride gli dei con la polemica, famigliare alla poesia di Goethe o di Hölderlin, contro gli dei superi, i dormienti lassù, galeotti di una vita senza dolore e senza destino. Focolare e sonni beati non sono per lui; Wagner gli impresta due versi, «nell’alto e nel profondo l’impulso mio mi spinge», che sembrano tolti di bocca allo Spirito della terra nel Faust I (vv. 501-503), tanto ci tiene a dare il senso di una insonne attività. Anche lui celebra il Walhalla, splendida dimora per sedentari; ma poi mette subito le mani avanti, la soluzione del problema Freia non c’è, la cosa è impossibile; Wotan e gli altri celesti strepitano, si sentono turlupinati, vecchi rancori vengono fuori, mentre i giganti vedono il pagamento andare per le lunghe.

Assediato, Loge si difende: non aveva promesso di riscattare Freia, ma di pensare a come farlo, che è tutto un altro paio di maniche; e infatti ci ha pensato col massimo zelo, ma la soluzione non si trova perché inesistente. Fricka e gli dei inveiscono contro il brigante matricolato, ma interviene Wotan: «Lasciatemi in pace l’amico! l’arte di Loge non conoscete!», quindi, rivolto a lui a muso duro: «Per l’ultima volta, sentimi bene, testardo: dove sei andato girando?». La risposta di Loge è uno dei primi grandi «racconti» dell’Anello e allo stesso tempo la magistrale orazione di quel grande avvocato che sonnecchiava nell’animo di Wagner.

Il racconto di Loge

Messo alle strette, Loge non si lascia confondere nell’esporre il suo racconto, bene ordinato secondo i precetti della retorica: invenzione e disposizione della materia, esordio e sviluppo, descrizioni accattivanti, assi nella manica da calare al momento giusto; il tutto, come si può immaginare, innestato su una base di recitativo accompagnato, con squarci immaginifici, pezzi di bravura inseriti dall’oratore a luogo debito.

Come per accattivarsi il favore dell’uditorio, Loge dapprima si autocompassiona, fa un po’ di scena: povero Loge, si affanna per tutti e raccoglie solo ingratitudine. Anche ora, ha frugato in ogni angolo della terra per trovare un equivalente di Freia che possa appagare i giganti; quindi rallenta accortamente l’esposizione, come preso dalla sfiducia, per rivelare il suo fallimento; sei battute di puro recitativo, perché il concetto si imprima bene, sul semplice traliccio di otto accordi pizzicati degli archi: «invano cercai e ora comprendo: nel cerchio dei mondi niente è tanto prezioso da contare per l’uomo quanto la soave virtù di una donna». E dopo l’asciutto recitativo, che parla al pensiero, il pezzo musicale compiuto che parla al sentimento: arpeggi vengono su lievi come brezze dagli archi divisi, allargandosi a cerchi come nella Fantasia in Fa minore di Chopin; potremmo chiamare la pagina «Lied dell’eterno femminino», in cui Loge, il cinico, lo snob, è capace di suscitare il senso della felicità famigliare: sembra di vederli, in cerchio, dei e giganti a bocca aperta davanti a questa sorta di miracolo. L’impressione di un Lied inserito nel flusso recitante è confermato dalla ripetizione d’interi versi e dal senso di conclusione, quando il tema di Freia, che rameggia ovunque, alla fine s’inalbera nei violini primi in un gruppetto di schietta origine vocale (partitura, p. 124), quasi termine tecnico dell’empito lirico amoroso.

Ma a questo punto Loge cala la carta che aveva tenuto in serbo e avviene il capovolgimento di fronte. Prima non aveva detto tutto: nel suo vagare, a dire la verità, ha sentito parlare di un tale che aveva rinunciato all’amore per qualcosa che a lui sembrava di maggior valore: l’oro; il suo nome è Alberich, della schiatta dei nibelunghi notturni; testimoni degne di fede le figlie del Reno, cui l’oro è stato rapito e ora, piangenti, ne lamentano la vedovanza, come già sappiamo dalla scena I. Il loro lamento (partitura, p. 125), frammento della passata felicità accanto all’oro, più che un tema è un gesto, un intervallo di seconda discendente sulla base di un accordo di nona; un composto sonoro gravido di soluzioni e di sfumature che avrà molte applicazioni nel corso del Ring, sempre legate a una costrizione dell’anima, a una stretta dolorosa quasi fisiologica. Le figlie del Reno, così Loge preparando la conclusione, accusano Alberich e invocano Wotan come giustiziere: ulteriore prova dell’astuzia dell’oratore che, per dare tempo all’effetto del racconto di depositarsi bene nell’animo degli ascoltatori, cambia argomento, e chiede a Wotan di adoperare la sua autorità per punire il brigante e riportare l’oro in fondo al Reno.

Ensemble di perplessità

Un particolare cui merita sempre rivolgere attenzione nel teatro musicale di Wagner è l’impiego di luoghi tipici dell’opera tradizionale, vecchie cornici e attrezzi usati e strausati, adattati a nuovi utilizzi ma tuttavia riconoscibili. Qui l’effetto del discorso di Loge sull’uditorio produce un episodio che ha la stessa funzione drammatica di quello che la tradizione chiama un «ensemble di perplessità»: ciò che avviene quando tutti i personaggi, colpiti da qualche notizia o fatto eccezionale, restano «perplessi» e immobili; attimi di sbigottimento dilatati a grandi episodi musicali unitari, in cui il compositore (esempi massimi in Rossini) sembra uscire di scena e contemplare le sue creature nei vari stati d’animo indotti dalla circostanza; ma, a differenza della tradizione, dove il fermarsi del tempo prende forma di concertato polifonico con voci che si sovrappongono, qui Wagner ottiene la sospensione del tempo, la contemporaneità mentale, con interventi contigui dei personaggi che uno dopo l’altro (ma idealmente assieme) ci dicono il sentimento che provano: che qui è uno solo, il fascino perverso dell’anello che tutti li magnetizza nelle armonie ferme, nei lunghi pedali, nelle reminiscenze di temi noti (oro e anello più di tutti) che ritornano su se stessi trattenendo lo scorrere dell’azione.

Il primo che abbocca è Fasolt che sussurra al fratello: mala cosa che l’oro sia in mano al nano nero, più volte ci ha giocato dei brutti tiri; Fafner chiede a Loge cosa dà tanto potere al nibelungo, e la risposta è lapidaria: finché l’oro è in acqua è gioco per le ninfe, ma temprato in anello ti consegna in mano il mondo. L’attenzione si sposta su Wotan che l’idea del dominio del mondo, o la paura di perderlo, ce l’ha confitta nell’anima; tra sé mormora di aver sentito, o di aver letto in qualche vecchio codice runico, degli immensi tesori che può sortire questo anello, il cui tema, nelle più sinistre sonorità dei fiati, sembra assorbire lenti e complessi significati nella sua circolarità senza fine. Ora è Fricka che interroga Loge: l’aureo gingillo servirebbe pure d’ornamento, magari per piacere al suo sposo? Si ascolta di nuovo, dolcissima, la musica del nido d’amore, cui Loge, che ha capito al volo, subito si adatta per lusingare Fricka, sempre in ansia per la fedeltà del marito.

Ma Wotan è come sotto incantesimo e sta pensando come per lui non sia possibile foggiarsi l’oro in anello: infatti rinunciare alle beatitudini dell’amore, come suggerisce Loge, è un’idea che non gli va giù, e lo manifesta con un gesto di stizza. Loge, con voce stridula e astuzia da Ulisse nordico, ribatte che in realtà la rinuncia all’amore l’ha già fatta Alberich, sicché basta riprendersi l’anello, rubandolo a chi già l’ha rubato. L’episodio statico volge al suo termine, ma Wagner procede sempre per passi graduali e non rinuncia a nessuna annotazione, per quanto minuziosa: il consiglio di Loge è rubare l’oro, ma per restituirlo alle figlie del Reno, occasione per aprire ancora uno squarcio acquatico, tanto che Fricka non perde occasione per denigrare le ondine capricciose e seduttrici; Fafner persuade il fratello che più di Freia vale l’oro, che compra tutto, anche l’eterna giovinezza; ma dalla musica degli aurei pomi pieni di dolcezza si capisce che Fasolt è persuaso controvoglia: preferiva, è chiaro, Freia in carne e ossa come creatura, non nella sua funzione di giardiniera e dispensatrice di giovinezza.

Pesanti terzine dei bassi unisoni lacerano l’involucro dell’ensemble di perplessità e si esce dalla stasi; è passato un attimo, diffratto però nella durata interiore dei vari personaggi, e ricomincia l’azione, in presa diretta con i colpi di timpano del tema dei giganti e con le nuove condizioni, dettate in poche parole: resti con voi Freia, a noi rudi giganti basta l’oro del nibelungo.

Dei invecchiati e partenza per gli inferi

Alla nuova condizione Wotan esce dai gangheri: «Siete matti, quello che non possiedo dovrei regalarlo a voi?». E per tutta risposta Fasolt allunga le grosse mani sulla dolce Freia e se la carica sulle spalle: resterà con i giganti come pegno fino a sera, quando torneranno per riscuotere il riscatto; a quel punto, se Wotan non sarà riuscito a procurarsi l’oro, la fanciulla resterà per sempre con loro. E con Freia che grida aiuto alla sorella e ai fratelli, i due colossi si allontanano a balzelloni, al suono di un ottuso motivo dei bassi, giù verso valle, frangendo sterpi e cespugli, sotto lo sguardo degli dei esterrefatti.

A Loge Wagner assegna il ruolo di oggettivo narratore della metamorfosi subita dagli dei (poco alla volta un poco più lento): Fricka intona il semitono discendente del dolore, «wehe!» («ahimè!»), e la figura serpeggia in orchestra ogni volta che un’armonia cede il posto a quella successiva, come brace che si disfa; la melodia saliente di Freia e le fanfare dei pomi salutiferi risultano rallentate, allontanate, in un quadro musicale sontuoso, segnato dalla dorata malinconia dei corni, come un’età dell’oro trattenuta per gli ultimi raggi. I luminosi ingrigiscono di colpo, a Donner cade di mano il martello, Wotan e gli altri si fanno smorti, una livida nebbia invade la scena e penetra pure in orchestra: nei tremoli degli archi divisi, i temi perdono le sicurezze diatoniche sotto l’azione di microrganismi cromatici.

La diagnosi di Loge spiega cosa capita loro: è l’astinenza dai pomi di eterna giovinezza che li deprime in un anticipo di crepuscolo; io, Loge, che «sono una metà soltanto di quel che voi siete», ne sono meno toccato, ma voi, dei magni, senza le mele d’eterna giovinezza siete spacciati (e i felpati intrecci dei corni, ancora una volta, aprono nel racconto uno squarcio di età dell’oro); quindi, dovete fare subito qualcosa, altrimenti, derisa da tutti, la vostra stirpe morirà. Alla terribile sentenza fa eco un sordo rullo di timpani in pianissimo (partitura, p. 149), sul quale scende dolorosa e presaga di sciagure l’apostrofe di Fricka al consorte, «uomo sventurato, vedi fino a che segno ci ha condotti la tua leggerezza»: frase che nella sua casta nudità di linee (con la voce, solo timpani e due clarinetti) sigilla di umana naturalezza uno degli episodi più stipati di sortilegi.

Fatti mansueti e balbettanti, gli dei si volgono a Wotan che infine si scrolla dalla sua fissità e balza su con decisione radicale: «Su, Loge! Scendi con me al regno delle nebbie, voglio che l’oro sia mio». La conclusione della scena si presta ancora a un rapido squarcio di commedia borghese: «Per di qua – insinua Loge malizioso –, attraverso il Reno?». «No – risponde Wotan –, per di là, alla larga dal Reno e dai piagnistei delle sue figlie!». Sembra di sentire porte che si aprono e si chiudono come in una commedia degli equivoci. I due spariscono in una crepa della crosta terrestre come due fuggiaschi, che per di più vanno a compiere una ribalderia, non un atto di giustizia come sarebbero tenuti a fare dalla loro posizione sociale.

Intermezzo sinfonico

Il viaggio al regno sotterraneo dei nibelunghi, voragine scavata fra pareti di roccia, si compie attraverso un intermezzo sinfonico che serve a preparare il cambio di scena: mirabile è la concentrazione della pagina, musica in caduta accelerata che sembra ingoiare se stessa. Domina al principio il pancromatismo di Loge, con gli snodamenti serpentini degli archi, mentre con effetto sinistro salgono per moto contrario le scale cromatiche di tre fagotti; contrabbassi e basso tuba sprofondano per intervalli di tritono, il vecchio diabulus in musica, qui trionfante e imperativo. Da un pedale di Fa dagli archi sale su col cuore in gola una figura disperata (sehr schnell, molto veloce), mentre tema dell’anello e fanfare dell’oro alle trombe appaiono come oggetti travolti nella corrente: a questa musica angosciosa si sovrappone la materia bruta delle diciotto incudini dietro la scena, su cui battono e ribattono i martelli dei nibelunghi al lavoro per estrarre oro dalle vene della terra; l’apporto ulteriore del rumore naturalistico dà la sensazione della bolgia, del girone infernale in cui si è precipitati. Quando il fragore delle incudini si va smorzando, da trombe basse e tromboni si alza ancora strisciando una melodia sinistra, tutta a intervalli dissonanti, vera musica di dannati.