Anche La Walkiria incomincia con una entusiasmante «scena di natura», un preludio in cui infuria una tempesta, fenomeno naturale presente in ogni atto dell’opera; spicca da protagonista il tema di Donner, che aveva già risuonato nell’ultima scena dell’Oro del Reno, e in questo senso si può dire che La Walkiria inizia là dove era finito L’oro del Reno; senonché, nell’Oro, la tempesta era una specie di aureola alla gloria degli dei, mentre qui diventa il simbolo dell’angoscia che attanaglia i mortali: prima era uno spettacolo, ora è passione.
Il quadro tematico messo in azione da Wagner appare come uno sviluppo di quello usato da Schubert nella celebre ballata su testo di Goethe, Erlkönig: le ottave ribattute sul pianoforte dalla mano destra diventano in Wagner un tremolo all’ottava, sempre su doppie corde, di violini secondi e viole sulla nota Re prolungato per 60 battute, rombo che cresce e diminuisce come le ventate e gli scrosci; sotto questa linea, la rapinosa salita che Schubert richiede alla mano sinistra è ripresa fedelmente da Wagner con l’analogo gesto di violoncelli e contrabbassi, che dopo il forte al principio della battuta si ritira in piano in un frammento di scala a note staccate e individuate. La fonte schubertiana, evidente a tavolino, scompare all’atto pratico dell’ascolto, come pure i derivati evidenti dalla Pastorale di Beethoven: l’immediatezza espressiva di questa apertura è assoluta, sembra creare da sé il topos della tempesta romantica in musica.
Eppure le sue figurazioni hanno qualcosa di troppo inquieto e ansimante per essere solo una voce di natura, qualcosa di troppo antropomorfico per non tradursi nell’allusione a un patema umano; un po’ come in quei pittori che introducono negli elementi naturali in tumulto un pellegrino, una vela, per aumentare l’effetto prospettico della maestosa incombenza della natura: qui sarà un uomo che le note staccate ai bassi denunciano come un fuggiasco dal passo affannato, coi tonfi del cuore in gola. Dopo aver taciuto per più di sessanta battute, entrano come uno sprazzo di luce i violini primi, mentre al culmine della tempesta risuona lo squillo di Donner: per quattro volte, ogni volta salendo di un grado, tube, tromboni e tromba bassa, stupendi oricalchi naturali, celebrano le forze della natura sconvolta; quando incominciano a defluire, appare sempre più evidente il frammento delle note staccate ai bassi, linea pulsante di una scala di Re minore che resta l’unico avanzo della tempesta quando si alza il sipario.
La scena mostra l’interno d’una rozza abitazione con tavola e panche di legno; il centro è segnato da un grande tronco di frassino, a destra un focolare, nel fondo una porta da cui entra barcollando un uomo, lacero e spossato: «Sia di chiunque la casa, qui mi riposo», e si lascia cadere su una coperta di pelle d’orso. Dopo qualche momento, da una porta laterale entra Sieglinde: ha sentito un rumore, forse è suo marito; invece vede un uomo ignoto disteso a terra, si avvicina e lo osserva: dai tratti del volto ne intuisce l’animo coraggioso e vorrebbe interrogarlo. Di scatto lo sconosciuto solleva il capo e chiede da bere; la donna vola a riempire d’acqua un boccale di corno e lo ristora, lui restituisce il corno e la ringrazia con uno sguardo che poi si ferma più a lungo sul volto di lei.
Si apre a questo punto una delle più grandi scene del teatro wagneriano, con nulla di spettacolare, anzi scavata nella più pura interiorità: prova superba della dedizione di Wagner a indagare nei moti più sommessi dell’animo. In gioco ci sono due sentimenti tanto annodati assieme da essere inscindibili: la sensazione inconfessata che i due personaggi provano di essere fratelli, appartenenti al medesimo sangue dei welsunghi: lo straniero infatti non è altri che Siegmund, il fratello cresciuto con Sieglinde, separato e poi riavvicinato dalla sorte; e allo stesso tempo la nascita fra loro dell’amore, dell’attrazione sessuale. Di classica semplicità le idee musicali messe a sostegno: una melodia discendente a gradi congiunti per la spossatezza dell’uomo, e un tema al contrario ascendente, come un petto sollevato da un forte respiro, per la sollecitudine di Sieglinde, per la sua pietà esperta di sventura. Decisiva in tutta la pagina è poi la partecipazione pressoché totale degli archi, del suono dalla cavata vibrante con cui i due temi, con le loro curve e controcurve, si cercano e si stringono come due mani che spuntano dal tessuto continuo della cantabilità.
Sul potere misterioso dello sguardo e sui sintomi di un sentimento ambiguo che nasce nel subconscio, Wagner indugia con mano da grande psicologo: esausto, con i nervi sconvolti, Siegmund è più vulnerabile alla penetrazione di uno sguardo amoroso, ma anche Sieglinde, nella sorpresa inaudita del nuovo venuto, è più aperta alla speranza di riscattare una grigia esistenza. Il ritmo musicale resta un normale 3/4, però le frasi sono continuamente rilanciate e agganciate da una battuta all’altra, quasi che nel seguire lo sguardo indagatore dei due giovani Wagner volesse superare la rigidità aritmetica della battuta; in più, questa melodia è affidata alla voce più umana che ci sia, quella del violoncello, che a un certo punto resta solo, unico, a garanzia della più pura intimità: in questo teatro muto degli sguardi che solo la musica può sperare di realizzare, si adempie perfetta la poetica romantica dell’inespresso, del non detto, di quel silenzio che Heine celebra come il «casto fiore dell’amore».
Per tre volte, su altezze diverse, si fa sentire sul violoncello la figura calante dello spossamento; ma alla quarta s’arresta, sorpresa della sua solitudine, su un Si bemolle (partitura, p. 26) che diventa il perno per l’entrata dell’armonia con gli altri violoncelli divisi (un suono che pare ripensare l’immortale primo episodio dell’ouverture del Guillaume Tell di Rossini): ne scaturisce la sontuosa melodia dell’amore nascente, che avrà funzione essenziale per stringere in continuità l’atto forse più unitario e serrato di tutto il teatro di Wagner.
Alla domanda dell’ospite sconosciuto, Sieglinde risponde che «casa e donna sono di Hunding», invitandolo ad attenderne il ritorno; lui acconsente, «senz’armi e ferito» non potrà essergli rifiutato un tetto; alla parola «ferito» balza su la sollecitudine protettiva di Sieglinde, ma il giovane rifiuta ogni cura, si tratta di cosa da poco, e nei suoi detti passano fulminei i ricordi della fuga dai nemici e della tempesta. Angosce ormai lontane: si ripete la pagina del fluire melodico dei violini, mentre lei gli versa e gli offre un corno colmo di sidro; tutto è rallentato, Siegmund lo offre prima a lei, che accosta le labbra al corno e glielo rende; lui ne beve un lungo sorso (avrà prima girato il bordo del vaso per non imprimere le labbra nello stesso punto di lei?); il tempo sembra fermo, il tema dell’amore nascente, con il suo segregarsi in frammenti sempre più persuasivi, passa e ripassa mentre i due continuano a guardarsi in silenzio, come vedessero sé nell’altro.
Siegmund torna alla realtà e abbassa triste lo sguardo: «un infelice hai confortato», «riposo ho avuto e dolce quiete»; ma ora vuole allontanarsi perché questa casa non sia contaminata dalla sventura che lo segue ovunque. Fa per andare via, ma un colpo di scena lo ferma sulla soglia, perché Sieglinde, impetuosamente dimentica di ogni prudenza, gli grida: «allora rimani», perché «tu non rechi sventura là dove sventura è di casa»; i due restano muti, ancora si guardano a lungo negli occhi, emozionati e turbati da un sentimento comune, come se all’improvviso ciascuno venisse a sapere del passato dell’altro molto più di quanto avesse creduto.
Impietrito dalla rivelazione, Siegmund decide di restare per attendere il padrone di casa, Hunding, che già si annuncia di fuori con una tenebrosa fanfara dei corni mentre lega il cavallo nella stalla; un attimo, ed eccolo, grande come lo specchio della porta, armato di lancia e corazza, improvvisa incarnazione diabolica di tutto ciò che sta all’opposto della sensibilità fragile e incerta dei due giovani. Nel nome di Hunding c’è dentro la parola «cane» (Hund), e qualcosa dell’abbaio, del morso del cane è presente anche nel suo tema, specie quando viene ripreso in fortissimo da quelle tube che Wagner si era fatto costruire apposta per La Walkiria, per realizzare un suono primitivo, barbaro, come il mondo che li circonda.
5. Henri Fantin-Latour, Sieglinde rifocilla Siegmund, 1886.
Hunding, il marito, è uomo rozzo, ma è buon fisionomista: infatti nota subito la somiglianza fra la sua donna e il giovane sconosciuto, in cui distingue addirittura nella pupilla la serpe lucente, segno caratteristico della stirpe dei welsunghi. Vuole sapere, chiede notizie dello sconosciuto, da dove viene, come mai si trova da quelle parti, come mai senza cavallo; le risposte di Siegmund sono generiche, dice di essersi perduto nella foresta a causa della tempesta, ma Hunding si fa sotto, lo fa sedere a tavola e dopo avergli detto il suo nome lo invita a fare altrettanto secondo le regole dell’ospitalità: battute brevi, concise, in stile di recitativo, ma la loro presa è fortissima per la pregnanza dei frammenti interposti, mozziconi dei temi di Siegmund e Sieglinde, visioni della tempesta, minacciose fanfare, tremoli come bagliori lontani.
Con una sottigliezza che non parrebbe la sua qualità primaria, Hunding lo invita a raccontare, non tanto per se stesso, quanto per la donna, che con una certa malizia indica a Siegmund avida di ascoltare; e allora al welsungo si scioglie la lingua. Ma prima di venire al fatto, apre con una premessa sul proprio nome, una premessa allontanante, in stile di leggenda, o di sciarada; dove la vera identità è celata sotto l’apparenza del nomen omen: non può dirsi Friedmund (colui «che porta pace proteggendo»), vorrebbe essere Frohwalt («che vive nella gioia»), ma può solo chiamarsi Wehwalt, cioè colui «che vive nel dolore»; Wolfe era il nome del padre, da cui è nato assieme a una sorella gemella; ma presto, negli scontri selvaggi fra tribù, madre e sorella sparirono, lasciandolo solo col padre.
Ampie zone di questo episodio narrativo sono consumate in stile vicino al recitativo accompagnato; il racconto si suddivide in un seguito di tre ballate, nel senso romantico di poesia guerresca e luttuosa, intervallate ogni volta da sezioni informative dialoganti; e questo va e vieni di forme, di superfici musicali in trasformazione che ricordano l’alternanza di recitativo e pezzo chiuso, avviene con tale fluidità e scorrevolezza da produrre un avvincente clima di suspense nel racconto. Il mondo primitivo e crudele in cui è incardinato il primo atto della Walkiria lampeggia nella rauca sonorità dei corni: la prima «ballata» narra della vita col padre Wolfe, un arazzo punteggiato di lontane fanfare di caccia e galoppate selvagge; un giorno, tornando da qualche impresa, padre e figlio trovano la casa bruciata, la madre morta, la sorella scomparsa.
Dopo i commenti di Hunding, cui sembra di aver sentito raccontare cose del genere nelle antiche saghe, e dopo nuovi incitamenti a narrare di Sieglinde, dalla seconda «ballata» si apprende la scomparsa del padre nella foresta: l’olimpico tema del Walhalla colma l’assenza di Wolfe rivelando all’ascoltatore che quel padre guerriero e scavezzacollo era il capo degli dei, Wotan in persona; vieppiù attratta verso il destino dell’ospite, Sieglinde insiste ancora a voler conoscere fatti e particolari: «narra ancora, come alla fine hai perduto le armi?».
La terza «ballata» è quella che fa scattare il collegamento dall’azione narrata a quella agita: al ritmo martellante di violoncelli e contrabbassi, Siegmund racconta di essere volato alla difesa di una fanciulla che i parenti volevano forzare a un matrimonio senza amore; ammazza in duello i fratelli della sposa, ma viene assalito dalla turba dei congiunti e nella lotta vede le sue armi spezzate e la giovane uccisa: triste compimento del destino dei welsunghi, che un tema di marcia fatale consacra all’eroismo e alla morte. La pausa al racconto (adagio) prepara il disinganno: c’era anche Hunding nell’ultima avventura, ma dall’altra parte, chiamato a difendere il patto matrimoniale; arrivato tardi, a cose fatte, ritorna a casa «per scoprire qui nel mio tetto l’orma dell’infame fuggiasco».
Tuttavia, secondo le leggi dell’ospitalità patriarcale, Hunding accoglierà per la notte il nemico, rimandando il duello mortale alle prime luci dell’indomani. La scena si chiude con le voci quasi umane di clarinetto, corno inglese e oboe che riprendono temi legati all’eroismo dei welsunghi o alla pietas di Sieglinde. L’ospite rimane fermo al focolare, la donna si allontana esitando e da una madia estrae qualcosa, certo una droga, che versa nella tazza del marito; quindi cerca di attirare lo sguardo di Siegmund sul frassino al centro della sala, nel punto in cui una spada è confitta nel tronco: azione il cui senso si realizza solo con il tema della spada suonato, piano ma deciso, dalla tromba bassa. Impaziente, Hunding con un gestaccio manda la donna a preparargli la bevanda notturna, stacca le armi dal chiodo e si ritira.
L’ultima scena concentra in impressionante unità un progredire di avvenimenti e di tensione fino a estuare nella vitalità disperata e trionfante della conclusione. Intanto, raccontando di cacce e combattimenti, si è fatta notte: nella stanza si vede solo una fiammella che ondeggia al focolare mentre l’oscurità sta divenendo completa. Il tema di Hunding è ridotto alla pura dimensione orizzontale del ritmo; affidato dapprima al timpano solo, è ripreso in pianissimo dai corni in ottava e rimbomba come una pulsazione alle tempie, un batticuore amplificato dal silenzio e dal buio.
Siegmund ricorda che il padre Wälse gli aveva promesso una spada, «in rischio estremo l’avrei trovata»; e quale momento migliore, ora che è inerme e prigioniero in casa del nemico con cui deve battersi appena sarà giorno? Tornano in mente le peripezie della giornata, e in esse l’incontro con la giovane donna e «l’ansia deliziosa» che lo attrae verso di lei, resa palpabile dalla voce del violoncello solo. Il martellare regolare delle terzine, come una fissazione sull’appuntamento del duello, cresce al fortissimo di una doppia, disperata invocazione del nome Wälse: sulla prima nota c’è un punto coronato, eccezionale in Wagner, il segno favorito dei cantanti che prolungano le note alterando il fraseggio; ma qui non c’è nessun fraseggio da alterare, c’è solo una nota che ripiegata in ottava sfoga un anelito possente, un desiderio incolmabile.
Un bagliore dal focolare illumina un punto del frassino dove emerge l’elsa di una spada infissa nel tronco; ma Siegmund la prende per un’allucinazione e si abbandona invece alla sensazione dello sguardo di commiato di Sieglinde; l’entrata magica dell’arpa apre la porta al sovrapporsi dei ricordi e mentre il tema della spada appare e si ritira passando dal nitore della tromba ad altri strumenti più discreti, l’immagine della giovane donna, come un sole dal «soave splendore», si trasfigura nella bocca di Siegmund in nuova intensità melodica. Poi ogni luce si spegne; l’oscurità penetra l’orchestra e solo il timpano resta in superficie a scandire il ritmo di Hunding.
Dalla porta della stanza laterale entra Sieglinde, precisa la didascalia, vestita di bianco: annotazione che potrebbe denotare un’intenzione idealizzante, un’aura di ringiovanimento e di purezza. In realtà, seppure sposata a forza e senza amore, ingenua non è, e si prepara con molta determinazione a diventare quello che nei romanzi del tempo si chiamava un’adultera; più avanti dirà che essendosi coricata a forza sotto Hunding si sente come profanata, indegna dell’amore nuovo e vero appena sbocciato: la veste bianca potrebbe così essere un segno del desiderio di rinverginarsi. Con fare deciso informa l’ospite di aver drogato il marito per consentirgli di fuggire e mettersi in salvo; come un fremito alla vicinanza di quel corpo salgono lievi terzine dagli archi, ma ora un’urgenza preme su tutto: la presenza di un’arma, lì in casa, destinata a un eroe, forse proprio lo sconosciuto riparato sotto lo stesso tetto.
Sieglinde si appresta a un racconto, con l’enfasi di un «ascolta!», come in una normale opera italiana. Durante la cerimonia delle nozze, mentre lei sedeva triste nella sala degli invitati, ecco entrare un vecchio straniero, con un mantello grigio e un cappello a larga tesa calato su un occhio; con l’altro lampeggiava terrore agli uomini, ma s’inteneriva nel guardare lei, la fanciulla maritata a forza. I dati anagrafici del personaggio sono fatti certi dai maestosi accordi del Walhalla, ma non deve sfuggire il passaggio dal mondo mitologico a quello reale degli affetti: mutando dalla sonorità regale degli ottoni a quella umana degli archi, il tema del Walhalla si spiritualizza, fa sentire alla giovane la solidarietà della stirpe, se non la cerchia della famiglia. «In me sola quell’occhio destò dolce afflizione e attesa», racconta Sieglinde, occasione per un dolcissimo cedimento cromatico in viole e violoncelli soli, primo rintocco del grande motivo dell’amore fra padre e figlia sviluppato alla fine dell’opera. Prima di uscire dalla sala contristata, il viandante misterioso pianta una spada nel frassino al centro della scena, profetando che soltanto chi riuscirà a estrarla dal tronco potrà farla sua. Molta gente va e viene, in tanti provano, ma nessuno ci riesce.
A questo punto, all’idea di quella prova di forza, il racconto è come preso da un nuovo impeto (sehr lebhaft, molto vivo): fiammeggiano ritmi bellicosi, scalpitano gli anapesti, il sangue welsungo si rimescola. Sieglinde avverte vicina la svolta della sua vita, intuisce che è proprio lui, il fuggiasco venuto da lontano, l’amico che qui e adesso conquisterà la spada e lei stessa riscattandola dalle umiliazioni subite. L’entusiasmo accende anche Siegmund, che sente compiersi un anelito comune («io fui scacciato e tu disonorata; lieta vendetta sorride ora ai felici!»). Mentre l’entusiasmo è al massimo, la porta in fondo si spalanca di colpo sotto l’effetto di una ventata, e un flusso tiepido si diffonde nella stanza; qualcuno sembra entrato, ma intorno non c’è nessuno, splende la luna, la tempesta è passata: è entrata primavera, che ha vinto la sua battaglia con borea e aquiloni e ora «ride nella sala».
Dalle arpe fluenti viene come un brivido isterico, le armonie si fermano sul Si bemolle maggiore, i ritmi si placano (misuratamente mosso); gli archi con sordina oscillano con sommesso fluire, come nella scena al ruscello della Pastorale, solo i violoncelli salgono con melodiose terzine a sfumare l’immobilità del quadro.
Incomincia così, con un vero e proprio «Lied della primavera», il grande duetto d’amore dei due giovani amanti e fratelli; per un paio di pagine procediamo come in un pezzo strofico, unico momento di compiuta felicità in tutta l’opera e celebre eccezione alla continuità del dramma musicale. In tempi lontani di polemiche estetiche, i wagneriani di più stretta osservanza, e gli intenditori per i quali solo il progresso è degno di ammirazione, disprezzavano il brano come un momentaneo cedimento alle basse seduzioni dell’orecchio: Bouvard, rinato critico musicale con il suo compagno Pécuchet nel Proust di Les Plaisirs et les Jours, da buon progressista aveva accuratamente strappato la pagina dallo spartito della Walkiria, disgustato dalla generale ammirazione che la circondava. Tutt’altra invece la reazione del nostro D’Annunzio, cui l’estenuata raffinatezza non faceva velo al giudizio critico: scrive infatti a Barbara Leoni nel 1891: «In quella pagina è il più alto e il più inebriante grido d’amore che sia mai scoppiato da petti mortali» (Giani 2017, p. 160).
La sua dolcezza d’antan, dopo il quadro di vita primitiva sbozzato nell’esordio dell’opera, ha la funzione di una necessaria sosta lirica prima del rapinoso finale: tre strofe disuguali, la prima di dodici, le altre di otto versi ciascuna, un frusciare di rime allitteranti di w e di l; il tema intonato dal tenore («Winterstürme wichen/ dem Wonnemond,/ in mildem Lichte/ leuchtet der Lenz», «Cedono le bufere invernali alla luna voluttuosa, in mite chiarore primavera risplende») ha una rifinitezza di rime melodiche quasi mendelssohniana, mentre l’ordito, diviso chiaramente fra canto e accompagnamento, è del tutto anomalo nel maturo pensiero wagneriano; il tessuto liederistico peraltro si dissolve presto in un contesto che ne riprende soltanto alcuni frammenti e che diventa continuo e impetuoso per l’uso ricorrente d’innestare ogni nuova modulazione sulla stessa nota che concludeva la frase precedente. Estrapolare qualcosa da questo fluire è improprio, ma certo uno dei frammenti più pregnanti è quel gesto rappreso in due note («O süßeste Wonne!», «O ebbrezza dolcissima!»), gesto di divorante erotismo tristaniano, dopo il quale non può che seguire la distensione di un sehr ruhig (molto calmo) che per un momento («Un sogno d’amore anch’io ricordo») sembra antivedere l’estasi del quintetto dei Maestri cantori: tanto grande è il raggio d’azione di questo duetto nella creatività di Wagner.
Nei momenti di calma i due ricordano, o forse sognano, la memoria di una fratellanza d’infanzia; lei dice di aver visto la propria immagine nello stagno e di rivederla adesso in lui, e lui risponde: «tu sei l’immagine che nascondevo in me», come se li cogliesse il pensiero di essere chimeriche ripetizioni e trasformazioni di loro stessi (già si sa che gli amanti credono sempre di essersi conosciuti in qualche passato favoloso). In un nuovo sentimento d’onnipotenza, mossi da un desiderio infinito, vogliono colmare un vuoto, prendere possesso di una legittima eredità: la posizione morale di Wagner contro i vincoli formali di ogni genere, l’odio per ogni ortodossia (sempre vivo anche se coperto dai panni borghesi dell’artista arrivato) hanno in questo duetto dei due fratelli amanti un compendio e un inno.
6. Mariano Fortuny y Madrazo, L’abbraccio di Siegmund e Sieglinde (particolare), 1928.
Nella certezza del sangue comune, tocca alla sorella battezzare ora il fratello: Siegmund, «colui che porta protezione con la vittoria», a garanzia della quale lui afferra infine la spada e la estrae dal tronco con facilità; l’arma che il padre gli aveva promesso per i momenti di necessità e che lui chiama appunto Notung (Not: necessità, bisogno; la mania lessicale di Wagner non cede a nessun frangente), ora dono nuziale alla sposa sorella. La «grande idea» di Wotan sembra tradursi in realtà. Ma qui è sopra tutto importante avvertire la straordinaria presenza di spirito di Wagner regista sonoro del suo dramma: proprio sulle parole del suo trionfo, sentendosi bruciare nel petto la vampa del «sacro amore», Siegmund canta assieme all’orchestra il tema fatale e severo della rinuncia all’amore; archi e tube sollevano un muro di Do minore contro il destino dei due giovani prefigurandone la fine luttuosa. Sorella e fratello escono finalmente all’aperto, come avvinti al sentimento gagliardo della loro doppia esistenza, e si dileguano nella notte di primavera; l’ultima pagina è in accelerando, musica col cuore in gola: l’accordo orchestrale che chiude l’atto è consonante, tuttavia preparato da una lacerante dissonanza a lungo tenuta, come a simboleggiare che qualcosa alla radice delle antiche rune è stato tagliato.