ATTO II

L’atto secondo, con le sue cinque scene, ha dato molto filo da torcere a Wagner. Scrive a Liszt il 3 ottobre 1855: «Mi preoccupa il secondo atto, denso di contenuto: esso contiene due catastrofi, tanto importanti e tanto gravi che basterebbero a colmare due atti; eppure sono tra loro collegate tanto strettamente, e l’una trascina seco l’altra tanto immediatamente, che sarebbe affatto impossibile tenerle separate» (Dahlhaus 1984, p. 139). Lo scrupolo dell’uomo di teatro guarda alle due scene di Wotan con Fricka e di Wotan con Brünnhilde, dove la discorsività e il ragionamento, anche per la contiguità delle due scene, dominano in misura sconosciuta allo stesso teatro wagneriano.

Anche questo atto si svolge tutto nell’unità di tempo: è la mattina dopo la notte di tempesta, il giorno fissato del duello tra Hunding e il welsungo Siegmund; oltre alla rivalità tribale, l’attesa dello scontro è accresciuta da un nuovo, più cocente motivo di sfida, il tradimento e la fuga della moglie dalla casa del marito; ma, appunto, il seguito del racconto è rimandato, l’azione immediata resta sospesa dalle due scene discorsive che si inseriscono: la storia dei welsunghi è interrotta dalla vicenda degli dei e dalla tragedia personale di Wotan. Eppure le due scene, che messe fra parentesi lascerebbero correre più spedita l’azione, sono di cruciale importanza per il futuro svolgimento dell’intero Anello. Come già ricordato, in proposito Dahlhaus parla di «monodramma» o «psicodramma», in sostanza di monologo: Fricka e Brünnhilde sono solo allegorie degli opposti impulsi che si fanno guerra in Wotan: Brünnhilde è la sua volontà, Fricka la sua coscienza (Dahlhaus 1984, p. 138).

Scena I

Il preludio è un agitato compendio di quanto si è svolto nell’atto precedente; le prime due note degli ottoni sono le stesse (una quarta ascendente) del tema della spada, che tanta parte, narrata e agita, ha avuto nell’atto precedente; ma l’armonia che le comprende non è più perfetta, è instabile; risponde nei violini il tema dell’amore nascente, ma i tratti sono alterati, resi convulsi dall’accelerazione; al fondo del preludio riprende lena il ritmo di Hunding, ritmo di battaglia imminente, che si trasforma e si assimila a quello altrettanto bellicoso di Brünnhilde, la walkiria, subito in scena all’alzata del sipario.

Duelli

La prima scena ci presenta Wotan e Brünnhilde fra scalpitanti ritmi di guerra, in uno scenario di montagne rocciose e selvagge. Brünnhilde sente odore di combattimento e si sta preparando a sostenere la vittoria di Siegmund su Hunding, secondo la volontà del padre Wotan; il suo grido di battaglia, «Hojotoho! Heiaha!», ricorda in una eccitata amplificazione il vocalizzo «Jo ho hoe!» della ballata di Senta nell’Olandese volante: canto naturale, abbozzato, su espressioni verbali a mezzo fra l’interiezione e l’onomatopea, qui, per la vergine guerriera, incrudito nell’asprezza dell’intervallo eccedente Sol-Re diesis e nello scintillio di trilli selvaggi; la cosiddetta «Cavalcata delle walkirie» che aprirà il terzo atto non sarà che uno sviluppo corale di questa folgorante entrata (o forse: quest’ultima deriva dalla «cavalcata» già composta).

L’appello di Hunding disonorato dalla fuga dei due amanti è ormai arrivato ai piedi di Fricka, moglie di Wotan, dea e custode dei vincoli matrimoniali e famigliari; infatti Brünnhilde la vede da lontano, mentre frusta gli arieti su un calesse che si avvicina a gran carriera, e non essendo tipo da discussioni familiari lascia il padre da solo a vedersela con la moglie e si ritira. Wotan, dentro di sé, intuisce «la solita tempesta», le solite vecchie ruggini, la noia di una moglie sempre virtuosa, sempre al servizio della verità.

Conflitto di principî

La prima battuta di Fricka è ironica: «Dove vai a rintanarti tra i monti?», dove mi scappi, ora che porto qui di fronte a te il diritto di Hunding, che chiede vendetta per il delitto commesso dalla coppia sfrontata? E gli ricorda il proprio ruolo di custode delle nozze, mentre frammenti del tema di Hunding e della sacertà del focolare appaiono sotto il suo declamare. Wotan si tiene calmo e ragionatore: «che delitto ha commesso la coppia», ammaliata da primavera e magia d’amore? Insomma, fa finta di non capire, ma Fricka gli ripete l’accusa, l’offesa al santo vincolo del matrimonio (in orchestra, corni e fagotti replicano le parole di Hunding nel primo atto: «Sacro è il mio focolare: sacra sia a te la casa!»). «Come, santo?», replica Wotan, i veri sacrilegi sono i matrimoni senza amore, e non sta a me, difensore di ciò che è nuovo e ardito, di proteggerli. Fricka alza il tiro: se ti sembra poco «l’offesa alle nozze», vantati anche dell’incesto, sacrilegio che fa ribrezzo: «Quando si è visto mai che nella carne si amassero i fratelli?». «L’hai visto adesso», risponde Wotan, e il tema del canto dell’aprile impallidisce in una strumentazione di violoncelli, viole e clarinetto basso.

Il duetto, lungi dall’essere un consueto battibecco fra marito e moglie, vede affrontate due posizioni morali di grande importanza: da una parte, diciamo così, il medio corso della stirpe, la sua continuità fisiologica e sociale, insomma, il principio normativo e conservatore; dall’altra il principio maschile contrastante, incarnato da Wotan, creatore e innovatore.

Wotan si sente ancora abbastanza sicuro da rischiare una conciliazione: visto che proteggi le unioni, questi due si amano, benedicili dunque, sorridendo all’amore! Ma l’insensata proposta fa scattare l’ira di Fricka, che rovescia sul marito una travolgente orazione, liberatoria di vecchi risentimenti: la difesa degli eterni dei è messa in pericolo dalle nuove trovate di Wotan, come la creazione dei welsunghi e delle walkirie; e passino le walkirie, «malvage vergini», che tuttavia la rispettano e le sono fedeli, ma insopportabile è la libertà selvaggia ed errabonda dei welsunghi e di Wotan stesso, che sotto il nome di Wälse partecipa alle loro scorribande; il «gusto del nuovo, del cambiare», cui sempre s’attacca il dio, è solo il paravento di un continuo adulterio che l’ha condotto alla vergogna di generare uomini comuni; e ora, preso da una frenesia di ringiovanire aizzata dall’esempio dei gemelli amanti, lascia calpestare la sua consorte, la getta, donna e dea, ai piedi dei suoi servi!

Smisurata è l’eloquenza di questa invettiva, fremente di sforzati e di sincopi; sotto la continua metamorfosi delle linee ritorna un’idea ritmico-melodica (partitura, pp. 51 sgg.) che sembra desunta dal tema principale della Sonata in Si minore di Liszt, con il suo profilo scaleno, il ritmo volitivo e scontorto; la grandezza teatrale della pagina è nel realismo con cui la difesa degli antichi costumi, la fedeltà ai vecchi dei, si converte in ferite personali, nel disgusto per la smania sensuale di Wotan, nell’offesa al rango divino arrecata dall’infedeltà del marito.

Mancata alterità

Quando Wotan può prendere la parola, la sua difesa, aggirandosi su fatti di là da venire, si rivela subito debole: secondo lui, Fricka, ligia alle tradizioni, non può comprendere la situazione prima che siano compiuti certi fatti che lui, Wotan, con la mente protesa al mai avvenuto, ha ideato; ora uno svelamento è prematuro, però qualcosa trapela: «ascolta questo: un eroe è necessario che senza un riparo divino si liberi dalla legge degli dei»; si riferisce naturalmente a quella «grande idea» che aveva folgorato la sua mente alla fine dell’Oro del Reno: cioè la salvezza degli dei attraverso la riconquista dell’anello, ottenuta da un eroe libero dai patti che legano gli dei stessi.

Più che comprensibile che Fricka si senta aggirata da un parlare oscuro, da argomenti misteriosi, e con il suo realismo non ci metta molto a far passare la «grande idea» per una gherminella: non esiste infatti alterità fra Wotan e l’eroe destinato alla conquista dell’anello; è sempre il dio che agisce, lui che consente, lui che pianta la spada nel frassino, lui che in mezzo alla tempesta guida i passi del welsungo proprio sotto quel tetto; la «grande idea» di Wotan fallisce perché fallisce l’alterità dell’eroe, e proprio questo punto la dea mette in luce con spietata chiarezza.

Fricka, che nel parlare comune si tende a considerare un personaggio secondario, oltre che una bisbetica guastafeste, è in realtà il perno su cui la vicenda del Ring compie la sua svolta fondamentale; non fosse così Wagner non le avrebbe dedicato tanta attenzione: la sua avvedutezza ci costringe a vedere l’amore dei due giovani dal punto di vista del marito tradito; dopo aver esaltato il sentimento dell’amore, l’anima rivoluzionaria di Wagner si rivolge con la stessa intensità al sentimento dell’onore, fedele alla grande legge del teatro, secondo cui ogni personaggio ha ragione dal suo punto di vista.

Cupa rassegnazione

Smontata l’illusione di Wotan, ridotta a chimera la libertà dell’eroe, la sicurezza del dio incomincia a incrinarsi; gli esce la risposta sconsiderata che il welsungo s’è guadagnata la spada da sé, in suprema necessità, ma si esprime con un «tremore represso», come se anche lui ne dubitasse; il suo sdegno sotto il peso degli argomenti della moglie appare crescente, e sempre più marcato diventa il tema del suo corruccio, con quel fremito iniziale e la discesa a rinchiudersi in sé nel colore cupo di fagotti e clarinetto basso.

Al contrario Fricka, accorgendosi dell’impressione suscitata in Wotan, procede sempre più sicura nella requisitoria; l’offesa a lei portata dal welsungo sarà sprone ai protervi e spasso ai liberi, Wotan non può volere questa sconsacrazione della sposa, tocca a lui decidere la punizione. La cupezza con cui Wotan risponde è il segno sicuro del cedimento, ma evita ancora di comminare il castigo: a denti stretti accetta che Siegmund sia abbandonato al suo destino, ma Fricka, che conosce bene il marito, impone che anche Brünnhilde, la walkiria prediletta, non lo difenda nel duello con Hunding. Ora Wotan cede su tutto, tirato fuori dal suo guscio di dio: si rassegna a togliere l’incantesimo alla spada invincibile e a sacrificare Siegmund, in risarcimento all’onore offeso di Fricka.

Infallibile, come mossa teatrale, è il fulmineo contrasto fra la depressione di Wotan e il vitalismo sportivo di Brünnhilde che annuncia il suo rientro in scena; vedere Fricka e intuire com’è finita la contesa è un attimo per la walkiria, che rapprende il suo «Hojotoho» in frammenti isolati che passano dai violini, alla viola, al violoncello, fino ad ammutolire. A Fricka invece è dedicata un’ultima pagina, un superbo arioso di appena dodici battute, che ne esalta la statura morale in difesa dei vecchi dei contro le nuove generazioni; il misurato ritmo degli accordi ribattuti, lo slancio lirico della melodia accrescono la nobiltà e la compostezza della perorazione: privati di potere, derisi dagli uomini, noi dei andremmo in perdizione se non fossero rivendicati e tutelati i nostri diritti; la walkiria difenda quindi la sua regina, la sposa del re degli dei; e passandole accanto nell’uscire, con una punta di dispetto, la invita a farsi dire dal padre le nuove sorti del prossimo duello.

Scena II

Anche se le argomentazioni della scena precedente sono costruite con la solita perizia avvocatesca di Wagner, tanto che la morte di Siegmund sembra appunto un’imposizione di Fricka, in realtà Wotan si è piegato a una legge che lui già conosceva, ma che aveva rimosso quando l’amore dei due giovani gli aveva scaldato il vecchio cuore; la seconda scena riapre la ferita e va ancora più a fondo nel suo animo: che sia detta comunemente «monologo di Wotan» indica già il rilievo assunto dal dio, dialogante in scena con la figlia, ma ancora di più in colloquio interiore con se stesso.

Ancora nella lettera a Liszt del 3 ottobre 1855 Wagner definisce questa scena fra Wotan e Brünnhilde «la più importante nello sviluppo dell’intera Tetralogia» (Dahlhaus 1984, p. 139); questa attestazione d’importanza, osserva Dahlhaus, fu senza dubbio sollecitata dalla lettura del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, avvenuta proprio nell’autunno del 1854 mentre lavorava al secondo atto della Walkiria (Dahlhaus 2014, pp. 118-9). Risaputo è il contraccolpo di quella lettura, così come la dichiarazione di Wagner di aver riconosciuto in quella filosofia, negatrice della volontà di vivere, un’attitudine spirituale che già corrispondeva alla sua «dolorosa percezione dell’essenza del mondo» (ad August Röckel, febbraio 1855; ibid., p. 117). Schopenhauer quindi conferma e chiarisce a Wagner il significato di quel Wotan, già concepito nella nostra scena come incarnazione di rinuncia alla realizzazione del desiderio: tema comune a tutto il Wagner maturo, suo contrappeso e quasi polo magnetico dell’immaginazione.

Simbiosi

Ancora più che nella scena precedente, ora la staticità sfida qualunque consuetudine: note pedale tenute ferme al basso anche per una ventina di battute ne sono il segno evidente; sulla continuità del declamato ogni tanto si sollevano organismi dinamicamente più marcati e compatti, in particolare le esplosioni d’ira di Wotan quando gli argomenti lo portano a constatare la sua impotenza; inoltre, il fatto che Wotan sembri spesso pensare fra sé conduce il suo recitativo a intonazioni appena articolate, a bisbigliate mormorazioni. Come fantasmi appariranno, negli interstizi del discorso, le immagini sonore del Walhalla, di Erda, delle walkirie al galoppo, dei giganti pretendenti, della spada invincibile; più di tutto onnipresente il corruccio di Wotan, quella figura discendente per gradi congiunti che parte da un trasalimento (è il gruppetto «sforzato» di Florestan incarcerato nel Fidelio, II, 1) e si conclude nel brusco gesto di un tagliare corto, come nei recitativi strumentali di Beethoven, Nona sinfonia inclusa; non s’ingannava Wagner quando in un passo registrato da Cosima (Tagebücher [Diari], 12 gennaio 1873) riconosceva che «la mia vera innovazione è stata d’introdurre il dialogo nell’opera e di sopprimere il recitativo» (C. Wagner 1982).

Si ritrovano così a fronte il padre e la figlia, in situazione psicologica tanto mutata rispetto al fervore di azione con cui si era aperto l’atto: l’apprensione della walkiria, che vede Wotan come lesionato da qualche grave accadimento, è espressa in interrogazioni scolpite in forme classiche, simili ai recitativi di Gluck o a quelli delle Passioni di Bach. Alle domande della figlia, come spesso avviene in famiglia, Wotan risponde dapprima con un’esplosione di furore («O disonore sacro! O sconcio dolore!»), tanto che lei lascia perdere lancia e scudo e si getta ai suoi piedi angosciata; il dio si placa, s’intenerisce, la guarda negli occhi, le carezza i capelli. Con calcolata lentezza, a curve melodiche equivalenti, il clarinetto basso si aggira attorno al tema dell’amore nascente: un calando che accompagna la sussurrata confessione della simbiosi fra padre e figlia, un’anima sola in due; lei non è altro che la volontà di lui, lui parla con se stesso se parla con lei: anime che si specchiano, come in un raffronto araldico.

Fatta questa affermazione di identità psichica, ci viene incontro il carattere pleonastico che impensieriva Wagner: Wotan deve raccontare a Brünnhilde quello che è appena successo nella scena precedente, e che anche il pubblico conosce; ma la monotonia è aggirata, o quanto meno attenuata, perché Wotan dà al riassunto degli eventi passati il tono di un sofferto bilancio della propria esistenza: il desiderio del potere senza rinunciare all’amore, l’inganno per pagare i giganti, il furto dell’anello maledetto, il consiglio di Erda di evitarlo: fatti noti dal prologo dell’Oro del Reno; ma ora Wotan aggiunge nuove notizie.

Sul margine della fine

Angosciato dallo spettro della fine, per saperne di più Wotan era balzato nel grembo del mondo per interrogare Erda; con incantesimo d’amore si è congiunto con lei ottenendo sapienza e generando come pegno la più saggia delle donne, Brünnhilde: che assieme a otto sorelle allevate come walkirie doveva raccogliere i guerrieri più arditi periti in battaglia per difendere un giorno il Walhalla; ma è quello che abbiamo fatto, protesta Brünnhilde, la rocca è ben difesa, che cosa ancora ti pesa sul cuore?

Con voce sempre più appenata («D’altro si tratta: ascolta bene»), Wotan sprofonda nel suo avvilimento: «Dalle orde di Alberich su noi incombe la fine», e un ansimo, come un fiato sul collo, si muove nei registri infimi di contrabbassi, fagotti e tromboni; il pericolo è che il nibelungo possa riprendersi l’anello, ora possesso del gigante Fafner, che Wotan, servo dei patti, non può riacciuffare. Solo uno saprebbe fare ciò che al dio è vietato: e in un avanzo di energia recupera i cocci della «grande idea», fantasticando di un eroe, libero, estraneo ai suoi comandi, che compia l’opera a lui negata. Ma «come creare l’Altro, che da solo adempia l’unico mio desiderio?»; brucia ancora l’umiliazione inferta da Fricka: «fino allo schifo scopro in eterno me stesso in tutto ciò che faccio!», e in questa nausea di sé erompe in una seconda, più violenta geremiade.

«Ma il welsungo – riesce a dire Brünnhilde –, non agisce egli da solo?», e l’interruzione richiama al dio le scorribande di caccia nei boschi: tempi passati! I piani sono cambiati e Siegmund deve morire, sacrificato agli dei delle leggi sacrosante. Brünnhilde s’indigna all’idea di togliere una vittoria già promessa; ma in Wotan ormai ingigantisce la fatalità di un senso di colpa: «la maledizione che io ho scansato, ora non scansa più me». Wotan ha toccato l’anello, deve uccidere chi ama, tradire chi gli è fedele, distruggere ciò che ha costruito; «abbandono la mia opera; voglio una cosa sola: la fine!». Dalla notte fonda dell’anima, Wagner torna a misurarsi con l’invocazione dell’Olandese: «annientamento eterno, prendimi».

È naturalmente il momento in cui l’astro negativo di Schopenhauer entra in congiunzione con la tragica visione del mondo wagneriana, momento in cui Wagner escogita, a somma efficacia espressiva, una traumatica frattura del tessuto musicale, ipotiposi di ogni scacco morale: la prima enunciazione di «das Ende» («la fine»), in forte, è preceduta dal vuoto di una battuta; poi Wotan, cupido solo di abisso, ripete la parola in piano, dopo una «lunga pausa», su una nuova e lontana tonalità: Do minore, rispetto a Mi maggiore, un salto su cui ha tanto indugiato lo Schubert del Viaggio d’inverno, e che potrebbe essere citato a esempio di un passo del Mondo come volontà e rappresentazione (III, 52), dove si legge: «Il passaggio da una tonalità a un’altra affatto diversa, venendo a togliere la connessione con ciò che precede, somiglia alla morte, in quanto essa è fine dell’individuo». Esaltatosi all’inizio dell’atto in una sorta di rinascita provocata dalla fuga d’amore dei gemelli, Wotan si piega alla legge; la sua volontà non è solo spezzata, ma dagli accordi che accompagnano le due enunciazioni emana qualcosa di arcano, di magico, che fa sembrare il dio come affascinato dalla decisione in cui s’è chiuso: clima del più alto patetismo, di enfasi per sottrazione, che concentra su una parola, «fine», la morale di tutto L’anello del Nibelungo.

Cambio delle sorti

Wotan, come l’avesse dentro il cervello, incomincia a sentire il rodìo di quel tema della «cura» che Alberich gli aveva consegnato come viatico infernale inseparabile dall’anello. Erda aveva detto che, ove il nibelungo generasse un figlio, la fine dei beati non poteva più tardare. Ora Wotan è venuto a sapere che Alberich, quando era in possesso dell’anello, si era comprato una donna, che proprio adesso nutre nel ventre il figlio dell’odio e della vendetta. Le smorte fosforescenze del tema della cura, che sussurrano l’avvicinarsi inarrestabile del crepuscolo degli dei, s’introducono come qualcosa di losco che scava nella coscienza; come scivolando su un piano inclinato Wotan continua a tormentarsi: lui solo non riesce a creare il «libero da sé» e quindi esplode fra contorte fanfare degli ottoni in una sarcastica benedizione del nascituro, cui lascia in eredità la propria ripugnanza per ogni pensiero di potenza divina.

Placato lo sfogo, Wotan dispone che Brünnhilde combatta per Fricka, per far vincere il suo servo; ma la generosa, che sa troppo bene quanto Wotan ami il welsungo, si ribella e lo supplica di ritirare la parola data a Fricka, e osa affrontarlo: «contro di lui, mai può obbligarmi la tua parola discorde». Solo all’intravedere una possibilità di ribellione, Wotan va in furia e arresta brutalmente lo slancio di Brünnhilde (così vicino a quello che lui stesso ha ricacciato in fondo al cuore): sconfitto da Fricka sul piano dei massimi sistemi, ora non sopporta una perdita di autorità anche in privato, con la figlia addirittura. Lampi e folgori ardono nel regio petto, e il tema della lancia ribadisce quanto resta del suo potere; ma il tumulto interiore del dio scisso fra aspirazioni e divieti ribolle nella parte dei violoncelli, i quali sulle armonie tenute dai fiati ripetono una figura cromatica che gira all’impazzata su se stessa, come un verminaio di note senza requie. Ripetuto l’essenziale: «Siegmund cada! Questo il dovere della walkiria!», in un’ultima tempesta sinfonica il dio scompare fra i monti.

Sola e col cuore pesante Brünnhilde si accinge al suo compito; il tema del corruccio da Wotan è transitato in lei, e non è mai sembrato così «unisono», spoglio e solitario, senza conforto o relazione di armonie. Il rullo misurato del timpano è già uno schietto segnale funebre; i vani lasciati liberi dalle pulsazioni sono riempiti da frammenti del tema della cavalcata, che il suono velato della tromba bassa scarica di potenziale eroico. La walkiria indossa di nuovo le armi per apparire nella sua pienezza di dea delle battaglie: infatti, quando una walkiria si rende visibile a un mortale prima di uno scontro, come Brünnhilde si appresta a fare con Siegmund, quell’uomo è destinato alla morte. Ma dalla musica, d’infinita delicatezza, più che la walkiria nell’esercizio delle sue funzioni mitologiche, noi veniamo a conoscere la pietas del suo cuore («Ahimè, mio welside, con il più grande dolore la tua fedele senza fedeltà ti abbandona»): in un tempo «ancora più lento», nella voce del corno inglese, del clarinetto basso e degli archi con sordina, i ricordi della storia dei welsunghi sembrano coprirsi di una falda di cenere.

Scena III

Prima del duello mortale si inserisce la scena III, breve e concitata; mentre Brünnhilde si ritira alla vista in una grotta, appaiono Siegmund e Sieglinde salendo su dalla gola di rocce; sono usciti dal primo atto correndo insieme, corrono anche adesso, ma tutto è cambiato nella direzione di questa corsa: lei, davanti, fugge per balze e picchi, lui la insegue cercando di trattenerla.

La funzione immediata della scena sembra essere quella di spezzare la stasi delle due scene precedenti, tornare ai fatti dopo tanta riflessione e introspezione; in realtà, Sieglinde fugge da se stessa, come invasata, e il suo canto è un groppo di spasimi che non si intendono: ciò che la incalza è la vergogna di essere stata la donna di un uomo non amato e quindi indegna, adesso, dell’amore di Siegmund (viene in mente la veste bianca indossata la notte della fuga, quale simbolo di riscatto). Sieglinde non sente colpa, perché al matrimonio con Hunding è stata condotta con la forza, ma l’atto di aver giaciuto senza amore con quell’uomo non si cancella, e come un’ombra la tallona nella sua corsa. Altri sensi di colpa «borghesi», come l’adulterio e l’incesto, sono invece affatto assenti: dopo la vittoria di Fricka, la spinta sovvertitrice dei valori tradizionali ritorna protagonista.

La sostanza tematica della scena è tutta ricavata dal grande duetto del primo atto, dai temi dei suoi slanci più appassionati che riaffiorano in ogni spazio libero, resi affrettati dal ritmo dell’inseguimento, o impalliditi in mesti frammenti; l’andamento è rapinoso, con intermittenze di tempo più lento quando Siegmund arresta per poco Sieglinde, la consola, cerca di persuaderla: addolcimenti indotti specialmente dalla voce sensitiva dei legni, come il tema dell’amore nascente nel primo atto, ridotto a ricordi o rimorsi luminosi nella sequenza fraterna di corno inglese, corno e violoncello.

La musica di questa prima parte della scena traduce l’isteria di Sieglinde, che si crede reietta, mentre la paura degli inseguitori, fra armati e mute di cani, domina la seconda. Siegmund vuole combattere, con Notung è sicuro di vincere, e nella vittoria vendicherà pure l’umiliazione della sorella; per lei, invece, l’avvicinarsi del duello, al barbaro suono dei corni e del latrare dei cani, diventa un’allucinazione: una figura ripetuta a ruota parte dai due clarinetti e si allarga come un gorgo, fino al «riso delirante» della sventurata; su questo culmine i corni ripetono per otto volte in fortissimo un accordo di settima diminuita, in cui l’acciaccatura sfigura l’accordo e produce un effetto di satanica risata: è la locuzione tecnica per rappresentare il brivido romantico del terrore, come attestato dal Franco cacciatore di Weber e dall’Olandese volante dello stesso Wagner. Nell’affanno che le strozza la voce, Sieglinde crede ancora di vedere la spada spezzata, il frassino nella casa schiantato a terra; stremata, perde i sensi; il fratello la sdraia con delicatezza a terra e la bacia dolcemente sulla fronte; compie i suoi gesti con lentezza, mentre frammenti del tema amoroso, separati e sparsi fra singoli strumenti, accompagnano la transizione alla scena seguente.

Scena IV

Messaggera ferale

Annunciata da un cupo accordo delle tube, Brünnhilde con scudo e lancia esce dalla grotta tenendo il cavallo alla briglia; dalla scurità delle grotte sogliono venire alla luce portenti o figure soprannaturali, circostanza che qui aggiunge nuova maestà alla funzione della messaggera, vecchio espediente per sbloccare l’azione, in uso fin dalle origini del teatro musicale. Poche volte in Wagner il vocabolario è stato così semplice e spoglio per rappresentare la faccia della morte: una cadenza enigmatica delle tube (tema del destino), un funesto rullo di timpani, una frase di quattro battute, pianissimo, di tromboni e trombe che impresta la compostezza di un corale. Tre figure sonore – cadenza, rullo, frase melodica (fra le quali ogni tanto va scoprendosi stupendamente il tema del Walhalla) – sono sufficienti a sostenere nella sua durata l’impalcatura dell’immortale confronto.

La frase melodica, così venata di aristocratica tristezza, vanta molte analogie; l’attacco dell’aria della regina in Hans Heiling (II, 9) di Marschner ne traccia già l’incipit, avvicinando pure l’esordio della Scozzese di Mendelssohn, anche se in Wagner la frase non chiude, ma resta aperta con senso interrogativo; nella sua fatalità ritmica costeggia anche il Lied di Schubert La morte e la fanciulla, e per il contorno melodico si mostra imparentato con una frase di Tristan (II, 3), quando agogna «una terra dove non splende luce di sole»: tutto questo per dire che Wagner è dentro l’universo romantico più puro, nella ferale dolcezza della morte, dove la mitologia diventa compromettente materia umana. La rappresentazione è piana e aulica allo stesso tempo, immediatamente definita dall’apostrofe della messaggera: «Siegmund! Guardami!»; il giovane non capisce bene chi sia colei, ha la sensazione tuttavia di trovarsi di fronte a una dea, «così bella e così severa». Il mistero è spiegato da lei stessa: «solo ai sacri alla morte è concesso vedermi: chi mi vede, rinuncia alla luce della vita». Nel vuoto numinoso che segue all’appello, contrabbassi e violoncelli sembrano lentamente sciogliere la cadenza enigmatica, articolando le tre note distinte come una formula iniziatica: Fa diesis-Mi diesis-La (stemma da cui César Franck trarrà il filo della sua Sinfonia in Re minore); un fluido misterioso sembra attirare l’uomo dietro all’augusta messaggera: dove conduci l’eroe? «A Wotan, il Walvater; mi seguirai al Walhalla».

Gioie eterne e vita mortale

A questo punto si apre uno dei confronti più commoventi dell’opera, serrato ma sempre concepito in andamento calmo e nella massima economia di materiale tematico: essenzialmente la frase melodica, vibrante per lo più nella voce umana del violoncello, il tema del Walhalla, a magnificare le aule sacre del paradiso, il rullo di timpani e la cadenza enigmatica; su tutto, un lieve sincopato dei legni o degli archi con sordina mantiene la tensione. Siegmund, per nulla turbato dall’apparizione o dalla prospettiva di morire, vuol sapere qualcosa di più del luogo in cui sarà introdotto, e fa una serie di domande, un po’ nello stile dei racconti fiabeschi: «Chi troverò lassù nel Walhalla dove vuoi condurmi?»; Brünnhilde risponde che troverà assieme al Walvater, il re delle battaglie, una schiera di eroi ad accoglierlo. «E ci sarà pure mio padre Wälse?». «Certo, rivedrai tuo padre». «Ci sarà anche una donna?». «Ci saranno le figlie di Wotan che ti faranno corona e io stessa ti verserò da bere l’idromele». «Dimmi, però, creatura immortale: ci sarà anche la mia sposa sorella?», potrà Siegmund abbracciare lassù Sieglinde? No, la sposa sorella non ci sarà, ancora deve respirare aria terrena, «non è ancora venuto il suo momento: Sieglinde là Siegmund non vedrà», e l’impossibilità è segnata dal tagliente divario di una tonalità lontana, segno di un mondo estraneo e freddo.

Allora Siegmund si china verso la fanciulla, la guarda, la bacia sulla fronte e si volta calmo verso Brünnhilde; e in tutta semplicità le dice di salutare da parte sua il Walhalla, di salutare Wotan, il padre Wälse, tutte le vezzose vergini guerriere, di salutare l’idromele e le beatitudini dell’eternità: «io resto qui con lei, voglio vivere la mia sorte con questa donna, in gioia e in dolore». Il ritmo non cambia, né si aggiungono nuove figure tematiche, per cui il tutto assume l’aspetto di un racconto in stile di ballata: dove Siegmund si fa conoscere per un erede della schiatta uscita dal Prometeo di Goethe, di coloro che preferiscono vivere nella storia, compromettersi e rischiare, piuttosto che essere eternamente e noiosamente beati, ignari di patimenti, audessus de la mêlée.

Il tono in cui è trattato l’argomento è sorprendente: immaginiamo come l’avrebbe affrontato un operista italiano o francese, quasi certamente con una invettiva veemente dell’eroe contro le spietate leggi del destino decretate dagli dei; il carattere e l’andamento della musica di Wagner, al contrario, sono mansueti, pervasi di tenerezza, come se la walkiria già avvolgesse Siegmund in un sudario con la lentezza dei sogni; nei suoi accenti non senti rifiuto a una realtà ostile, ma accettazione di una continuità fra la vita e la morte, come vuole la più pura sensibilità romantica: è un passo che mette in luce come la «teatralità», l’effetto a contrasto, in Wagner possa essere subordinata a una più profonda realtà morale e umana.

Decisione capovolta

Ma Brünnhilde deve compiere la sua missione: l’eroe l’ha veduta e deve morire: così avviene agli uomini quando incrociano gli immortali, come il cavaliere nel Waldesgespräch di Schumann - Eichendorff, quando gli capita il brutto incontro con la strega Loreley. Il caso inaudito di Siegmund che vuole ribaltare il corso prescritto dalle leggi celesti provoca la comparsa di un risentimento negli archi, un nodo nervoso di poche note in circolo che assomiglia come una goccia d’acqua a un’idea secondaria nello Scherzo in Si bemolle minore di Chopin; questo nuovo individuo s’insinua fra i due personaggi, fermi nelle loro posizioni.

«Dove vive Sieglinde, in gioia e in dolore, lì resta anche Siegmund»; inoltre, il giovane non è affatto persuaso di dover soccombere, si sente invincibile perché ha una spada destinata alla vittoria; «ascoltami bene – incalza la walkiria –, chi te l’ha fatta le ha tolto ogni virtù e ti ha destinato alla morte»; con tratto umanissimo, mentre l’andamento ritmico per la prima volta incomincia a muoversi (un poco mosso), il welsungo sembra toccato dall’ombra della morte, e si volge a Sieglinde ancora dormiente: non può accettare che lui, suo unico difensore contro tutti, non possa proteggere la sposa nel bisogno estremo, e quando proprio dovesse cadere dichiara di rifiutare il Walhalla e di avviarsi innominato all’Orco, giù, in una fossa comune. «Tanto poco ti allettano le eterne delizie? questa povera donna sarebbe tutto per te?»: Brünnhilde, nel ghiaccio della sua bellezza, continua a pensare e parlare da messaggera di un destino già scritto; Siegmund ragiona da uomo con i piedi saldi sulla terra, pronto a superare gli dei offrendo loro il grande spettacolo del dolore umano.

Il duetto ha imboccato una nuova animazione, scandita dal ritmo sempre più accorato delle terzine ribattute; frammenti del tema d’amore del primo atto e richiami barbarici degli inseguitori si rimescolano in un flusso che scorre sempre più rapido verso un colpo di scena; la dea incomincia a sciogliersi, a sentire qualcosa vicino alla pietà, tanto da proporsi a tutela di Sieglinde quando la morte di Siegmund l’avrà lasciata sola e senza difesa alcuna. «Io e nessun altro – risponde Siegmund – può toccare la pura finché vive», e se gli sarà vietato proteggerla, piuttosto la ucciderà nel sonno, qui su due piedi; e come un forsennato estrae la spada e sta per colpire. A questo punto Brünnhilde, al colmo della compassione, abbatte l’ultimo schermo: «Fermati, o wälside! Odi la mia parola! Sieglinde viva – e Siegmund viva con lei»; la decisione è cambiata, i dadi della sorte si rilanciano, nel duello la walkiria sarà al fianco di Siegmund, pegno di vittoria.

La metamorfosi di Brünnhilde da dea a creatura umana calda di sentimenti è uno dei grandi temi dell’opera; contravvenire a un ordine del padre Wotan è un delitto enorme, inconcepibile per le regole della casta divina; ma il «puramente umano» è entrato nell’animo di Brünnhilde e le darà il coraggio di mettere sottosopra le leggi del mondo: comincia qui il processo che alla fine dell’Anello del Nibelungo la porterà ad appiccare il fuoco alla reggia del Walhalla.

Per intanto esce di scena come un turbine, dandoci appuntamento sul campo.

Scena V

Rimasto solo, Siegmund si china ancora su Sieglinde che ha continuato a dormire, come chiusa in un incantesimo; un sorriso sembra trapelare da un sogno sul viso di lei, mentre dolcissime frasi discendenti di viole e violini preparano il commiato; i violoncelli intonano sommessi il canto dell’aprile, in un registro scuro, quasi funebre. Siegmund guarda ancora una volta Sieglinde che dorme, quindi si strappa di lì e si precipita al combattimento.

Il tempo torna vivo quando i richiami del corno di Hunding si avvicinano, la scena si scurisce, si prepara una tempesta come nel primo atto e ora gli accadimenti si succedono e si sospingono veloci. Il sonno di Sieglinde è diventato un incubo e nel delirio rivive il trauma della sua infanzia: la capanna devastata da una tribù nemica, il padre col fratello fuori a caccia, lei sola con la madre, la casa brucia, «Madre! madre!… aiuto! fratello! Siegmund! Siegmund!». Tornata alla coscienza, vede che lo sposo fratello non è più lì, si alza in piedi e si arrampica su una roccia al fondo: sente le voci dei due uomini che si insultano e si aizzano al duello mortale, ma non li vede fra nubi e nebbie, finché un lampo li illumina su uno spiazzo libero, già impegnati nel duello. Sieglinde vorrebbe fermarli, offrirsi come vittima espiatoria, mentre sul tumulto crescente degli schianti brilla come una barra di fuoco il tema di Brünnhilde a cavallo, che sospesa sull’appoggio della tempesta scorta Siegmund dall’alto. È un attimo: si squarcia una nube e piomba in scena Wotan, che con la lancia manda in pezzi la spada di Siegmund consentendo a Hunding di colpirlo a morte; lo spettacolo orrendo fa perdere i sensi a Sieglinde, ma Brünnhilde la solleva con sé a cavallo e galoppando con lei scompare lontano. Hunding estrae la lancia dal corpo di Siegmund e si presenta a Wotan, come per accreditarsi a una ricompensa; ma il dio lo fa stramazzare senza neanche toccarlo, solo col gesto del disprezzo. Subito dopo pensa alla walkiria: «Ma dov’è Brünnhilde? guai alla scellerata che ha infranto il mio divieto!», e si getta furioso all’inseguimento mentre cala la tela.

7. Gaston Bussière, La rivelazione (Brünnhilde scopre Sieglinde e Siegmund), particolare, 1894.

7. Gaston Bussière, La rivelazione (Brünnhilde scopre Sieglinde e Siegmund), particolare, 1894.