L’ultimo atto della Walkiria si apre, come il primo, con un grande squarcio di natura, una natura che comprende anche delle creature viventi, le mitiche walkirie: come le ninfe della mitologia classica, che hanno nell’acqua o nel bosco il loro habitat, così l’ambiente naturale delle walkirie è il vento delle battaglie; galoppano per l’aria, in sella portano guerrieri caduti da eroi, prelevati sul campo e avviati al Walhalla, come guardia scelta del dio Wotan.
Siamo «sulla cima di una montagna rocciosa», circondata da una foresta di abeti scompigliati da un vento di bufera. Il preludio e la prima scena formano la cosiddetta «Cavalcata delle walkirie», distaccata dalla celebrità come pezzo da concerto a sé: colossale diablerie, nel gusto «gotico» di quel primo romanticismo che coltivava la nera fantasmagoria dei convegni di streghe; laide e repellenti tuttavia, quanto le walkirie al contrario appaiono nobili e bellissime. Faust e Mefistofele sono guidati nella loro «Notte di Valpurga» da un fuoco fatuo: così questo preludio parte da dodici stupende battute introduttive crepitanti nei trilli dei legni come un fuoco che dirama. Il tema ultrafamoso, in ritmo di 9/8, su cui si basa la pagina è uno dei più antichi germogliati dalla fantasia di Wagner, come «Coro di walkirie», molto prima del suo impiego nel contesto dell’Anello del Nibelungo; nel suo salire a balzi regolari ricorda da vicino, anche per la tonalità di Si minore, il Coro dei Geni del Nilo nel Paradiso e la Peri di Schumann.
Definito nel ritmo di una giga indiavolata, nella Walkiria già lo conosciamo dall’attacco del secondo atto, con l’entrata di Brünnhilde abbagliante di freschezza; ma qui, in apertura d’atto, il tema viene dilatato a scena e a pezzo autonomo, con ripetizioni come ritornelli intercalati dagli interventi vocali delle vergini guerriere; il tema torna uguale, mutato solo nel crescendo di un peso fonico sempre più spesso, che raggiunge il culmine quando passa all’intera falange degli ottoni con l’aggiunta dei piatti: dove si avverte il peso opprimente di elmi e corazze, e un certo sudore che sa di parata militare. Forse al genio plastico di quella invenzione rende più giustizia l’apparizione intermittente, il lampo del frammento, mentre nella completezza del preludio e della scena resta sopra tutto un formidabile spettacolo acustico; e aggiungiamo pure che, dopo più di un secolo di usi e abusi di ogni genere, la «Cavalcata delle walkirie» è crollata sotto la sua stessa popolarità, tanto che oggi ci vuole uno sforzo per rappresentarsela nel suo impiego originale.
Come sempre con gli appellativi fortunati, il termine «cavalcata» è un po’ generico e riduttivo; in realtà, le vergini guerriere si trovano a un appuntamento, a un raduno su un avamposto di roccia prima di avviarsi al Walhalla; a parte Brünnhilde, che già conosciamo, possiamo per una volta annotare i loro nomi, in ordine di apparizione: Gerhilde, Ortlinde, Waltraute, Schwertleite, Helmwige, Siegrune, Roßweiße, Grimgerde, tutti nomi plasmati da Wagner su etimi guerreschi.
Quattro di esse sono già sul posto lanciando i loro gridi («Hojotoho! Heiaha!»), altre giungono sole o in coppia al punto convenuto, anch’esse annunciandosi da lontano con la voce amplificata da un megafono. Da una roccia più alta una sta in vedetta e chiama per nome le nuove arrivate; si salutano alla brava, ancora tutte eccitate si chiedono da quali scontri ritornano e chi portano con loro; nominano gli eroi riversi, rammentano l’odio che li eccitava: placati nella morte i cavalieri, l’odio continua nei rispettivi cavalli che si scalciano e mordono; piace a quelle ragazze selvagge lo spettacolo di un odio indomito e ne traggono sguaiate risate accompagnate da scivolamenti cromatici. C’è in tutto il primo episodio della scena, problema insolubile per ogni mise en scène, qualcosa di grandiosamente abbozzato: tutto scorre via veloce, come visioni di lanterna magica, le walkirie appaiono e scompaiono e anche le parole scambiate fra loro (assieme ai gridi «Hojotoho!») risultano male percepibili per la rapidità e l’intrigo delle voci; alla rozza semplicità collabora anche la struttura a ritornelli, con l’abbondare di ripetizioni che solo la fede di Wagner nell’onnipotenza della sua orchestra tiene assieme.
Dopo l’arrivo delle ultime due, le walkirie si credono al completo e stanno per dirigersi al Walhalla; ma una più attenta osserva che sono solo otto, e un’altra più informata rivela che Brünnhilde è ancora occupata con il giovane welsungo; conviene attenderne l’arrivo, perché il padre Wotan non vuole la schiera disunita. Ma ecco da lontano Brünnhilde che si avvicina cavalcando con furia; tutte si affrettano al posto di vedetta e come nei poemi epici a turno descrivono lo spettacolo: il galoppo è disperato, il cavallo ansimante; e sopra tutto: in sella non è un eroe ma una donna, e perché Brünnhilde non risponde al saluto? «Sorella! Sorella! Che mai è accaduto?», e tutte le vanno incontro mentre lei appare sorreggendo la donna sconosciuta.
Mai vista una Brünnhilde che fugge invece di inseguire, che teme invece d’incalzare, mai sentite da lei parole come queste: «Datemi un riparo, un aiuto nell’estremo pericolo! Heervater mi dà la caccia»; il movimento è sempre veloce, anzi in accelerando per la ressa delle impressioni. Mentre lei racconta a pezzi e bocconi, le sorelle la credono fuori di senno, la trattano da vergine folle e inorridiscono all’idea che abbia disubbidito a Wotan, padre e dio.
Il quale intanto si annuncia nelle varie voci delle walkirie come una nera nube che avanza dal Nord (la similitudine arieggia Omero, ma la ripetuta, insistita indicazione del punto cardinale, come sinonimo di estrema durezza, fa pensare a Madame de Sévigné che aveva dato il soprannome di Le Nord all’impenetrabile Colbert, ministro delle Finanze del Re Sole). Il terrore delle walkirie per colui che «nero di notte» si avvicina dal Nord genera una concitata polifonia, che Brünnhilde interrompe con rapide battute di puro recitativo; chiamandole per nome, supplica dalle sorelle un cavallo veloce per continuare la fuga e salvare sé e la donna: Wotan infatti infuria anche contro di lei, volendo sterminare tutti i welsunghi; ma le vergini guerriere rifiutano, nessuna si sente di disubbidire al padre.
Sieglinde, fino a questo punto muta e come senza vita, ha un sussulto e si libera dall’abbraccio di Brünnhilde; il tempo passa a più adagio, è il primo rallentamento dall’inizio dell’atto e la musica prende fiato. Sieglinde, vedova di Siegmund, ora non desidera altro che raggiungerlo e che sia la stessa Brünnhilde a vibrare il colpo; di fronte a questa volontà furibonda, Brünnhilde si decide a un annuncio che capovolge tutta la situazione: «No, non devi morire, perché nel tuo grembo stai nutrendo una nuova vita!». Il senso reale della maternità commuove a tal punto Sieglinde che ora è lei a supplicare Brünnhilde di proteggerla; infine, la walkiria resterà a subire l’urto del padre, mentre Sieglinde cercherà scampo da sola. Ma dove dirigerla? A una delle sorelle viene l’idea di mandarla a oriente, dove c’è una selva in cui giace Fafner a guardia del tesoro dei nibelunghi (Wotan, che al riguardo ha una coda di paglia lunga un braccio, da quelle parti non si farà certo vedere).
Il tempo stringe, ma prima che Sieglinde esca di scena, Brünnhilde la incoraggia a sopportare ogni pena, a ridere al dolore, sapendo che nel suo seno protegge «il più nobile eroe del mondo», e mentre pronuncia il vaticinio da sotto la corazza estrae i pezzi della spada di Siegmund e li consegna a Sieglinde, come una reliquia sacra. Wotan s’avvicina e non c’è più tempo, per cui argomenti di enorme peso vengono condensati in poche battute: per la prima volta risuona da due corni all’unisono il tema di Siegfried, il nascituro, oggetto nelle successive «giornate» di continue vicissitudini, e subito dopo, a piena orchestra, quello che sarà l’ultimo tema di tutto L’anello: cantato qui da Sieglinde rivolta alla walkiria salvatrice, «O sublime prodigio! O fanciulla gloriosa!». E su queste note e con il viatico dei monconi della spada, Sieglinde scompare veloce sul fondo.
«Fermati, Brünnhilde!», rimbomba la voce di Wotan ingigantita e storpiata dal megafono; Brünnhilde si appella ancora alla protezione delle sorelle le quali, più umane delle vergini savie della parabola, ingenuamente la coprono a cerchio, come nei giochi infantili.
Nella massima concitazione fonica, tra affannose progressioni cromatiche, Wotan appare finalmente di fronte alle walkirie atterrite: «dov’è Brünnhilde, dov’è la scellerata?», e se la prende pure con le sorelle, denigrate, con tratto maschilista, a «codarda razza di donne». L’ira di Wotan ha qualcosa di spropositato, di madornale; ma, come già osservato, occorre ricordare la ferita ricevuta da Fricka, ora irritata dalla disubbidienza della figlia più cara; con la quale inoltre Wotan si era confessato come parlando con se stesso, e non c’è di peggio che subire un’offesa da chi poco prima aveva ricevute le nostre confidenze più segrete; la sua collera nasce quindi da una situazione psicologica molto realistica, da una malcelata insicurezza che si vendica in una furia punitiva irrefrenabile.
Alle sorelle che ancora la circondano, Wotan denuncia la colpa di Brünnhilde: la disobbedienza, la ribellione, sbandierando il motivo della lancia, cui i tromboni danno già la durezza di una sentenza. «Mi ascolti, Brünnhilde? Odi l’accusa e l’accusatore che vile cerchi di fuggire?». Segue un silenzio, il movimento molla la presa per un attimo (più lento) e, preceduta da un arpeggio ascendente del clarinetto basso, schietto come un ramo d’ulivo, Brünnhilde esce dalla cerchia sororale: «Sono qui, padre, comanda la punizione!». Wotan riprende con veemenza le accuse (di nuovo un poco vivo), l’elenco delle malefatte contro di lui, e nella foga oratoria quasi incespica nel ripetere in continuazione «gegen mich» («contro di me»). Infine si decide a pronunciare la pena, una pena da codice militare. Brünnhilde perda la divinità, sia degradata a comune donna: non più galoppate a raccogliere eroi per il Walhalla, non più conviti con gli dei, bevute di idromele e carezze del padre; vivrà separata, bandita dalla corte celeste e, punizione più bruciante di tutte, chiusa «in inerme sonno», sarà abbandonata lì dove si trova, in modo che l’uomo, il primo che passa, possa svegliarla e farla sua. Le altre walkirie saltano su esterrefatte, ferite anche nell’orgoglio di casta: per loro l’uomo, il marito, è l’obbrobrio, il peggio che ci sia, e quindi la vergogna di Brünnhilde toccherà pure loro.
Ma Wotan ha deciso e non può tornare indietro; insiste invece nell’infierire: Brünnhilde, non più vergine guerriera, ubbidirà a un uomo, siederà al focolare, filerà, cucinerà, indifesa ai dileggi. Tutta questa tirata, così greve nel testo poetico come esibizione di autorità paterna, nella partitura musicale si riscatta in una grandiosa e serrata eloquenza, che diventa specialmente avvincente quando il tema di Brünnhilde messaggera di morte (missione ormai a lei vietata, apposta Wotan gliela ricorda) si fa sentire nel subbuglio iracondo. Le vergini inorridiscono all’idea che una di loro debba soccombere a un mortale, e chiedono ancora pietà un’ultima volta; ma Wotan le respinge e le congeda fra diffide e minacce. Le walkirie si disperdono nei venti lanciando inutili strida, mentre ancora risuona, giovane e liberatorio, il tema della cavalcata, ma ridotto a sezioni sempre più brevi, con effetti estremamente sottili di allontanamento, di dissolvenza sonora: il ritmo rallenta poco alla volta, la tempesta si placa, comincia a spuntare un tramonto. Si resta stupefatti del cambiamento atmosferico prodotto, pezzo di bravura cui Wagner non rinuncia mai: l’aria si rinfresca, si passa dalla frastornante pienezza sinfonica al suono puro di singoli strumenti: clarinetto basso, corno inglese, oboe, e poi alla scomparsa o quasi dell’orchestra per lasciare campo libero alle voci.
L’ultima scena della Walkiria si distende in una sola arcata il cui respiro prevalente è quello dell’Adagio: il tempo adatto per una scena con due soli personaggi che devono argomentare e definirsi partendo da punti opposti, trovandosi alla fine concordi e diversi da quello che erano; Bruckner e Mahler ne trarranno incitamento a concludere alcune delle loro sinfonie con degli Adagio.
Soli di fronte, Brünnhilde e Wotan rappresentano un conflitto – fra libertà del sentimento e legge decretata – simile a quello espresso da Antigone e Creonte. Wagner gioca la sua carta più alta in questa scena a due, consapevole di poterlo sciogliere come culmine dell’intera opera. Il problema era quello di una doppia metamorfosi: condurre a più miti consigli la furia di Wotan, disgregare il macigno del suo furore; e portare Brünnhilde, che già vi inclinava, a spogliarsi della sua natura divina per assumere in forma completa quella umana: il «puramente umano», al centro dell’interesse di Wagner, ha qui una delle sue applicazioni paradigmatiche. Ma c’è un altro argomento per cui questa scena si mostra esemplare: cioè l’arte della transizione in cui si cala il processo delle due metamorfosi. «Dare tempo al tempo» è il grande problema di ogni compositore teatrale che deve rappresentare nel canto una situazione parlata o dialogica; nell’opera italiana, dove il librettista riduce a pochi versi lo sviluppo di una situazione drammatica, la cosa è più evidente: il compositore completerà con la musica quanto manca al tempo delle parole per essere persuasivo. In Wagner, dove in sostanza c’è un tempo solo che scorre uniforme, il problema sembrerebbe già risolto; ma anche in lui si danno momenti dove il testo verbale da solo è troppo corto e diventa essenziale la sua elaborazione musicale per rendere plausibili situazioni di particolare complessità.
Fuggite via le walkirie, nello spazio sonoro che sembra essersi vuotato i due personaggi si studiano immobili nelle loro posizioni; in ordine sparso, clarinetto basso, corno inglese, oboe si scambiano lenti una frase dal contorno ascendente, dilatato fino a intervalli di settima e di ottava: è l’embrione di quello che diventerà il tema della «giustificazione di Brünnhilde», il nocciolo musicale della sua difesa per aver disubbidito alla volontà del padre. La tensione in scena è massima, condotta con mezzi espressivi minimi: il quadro armonico è semplice, lindo, ancorato a triadi perfette; a voce scoperta, senza soccorso di strumenti accompagnatori, Brünnhilde rompe il ghiaccio misurando il suo canto fra recitativo, declamato, arioso, come osservandosi sotto una lente. Non cavilla sulla colpa, accetta la punizione, si ribella solo all’infamia: «tanto fu vergognoso quello che ho fatto, che mi punisci in modo vergognoso?»; fra gli accordi dei fiati circola astioso il brontolio dei violoncelli, a significare il disappunto di Wotan, la fronte corrugata, il fastidio di dover ragionare sulla sua esplosione di prima; infatti, la sua prima risposta è una tipica non risposta: «chiedi al tuo gesto – ti sarà chiara la colpa!».
Con quell’insistenza argomentativa di cui Wagner è campione insuperabile, Brünnhilde cerca nuove vie per giustificare l’atto compiuto: protesta di aver eseguito il comando ricevuto, ma quello vero, non quello cambiato per istigazione di Fricka, di avere fatto lei quello che lui voleva fare (tema della walkiria a cavallo, a muovere l’atmosfera pesante della giustificazione). Un poco largo, come all’inizio: il corno inglese, riprendendo il lento motivo ascendente del principio, segna la ripresa dell’argomentazione. Brünnhilde ripete di sapere una cosa soltanto: che Wotan amava il welsungo, ma ha dovuto piegarsi alle convenzioni, all’uniformità, alla legge del già noto, lasciandolo solo a morire; e incomincia la sua difesa, resa più eloquente dai meandri avvolgenti degli archi che rompono la stasi dominante dal principio della scena. La persuasione si mette in movimento.
Brünnhilde, a differenza di Wotan, ha visto negli occhi il welsungo, ha sentito la sua voce quando ha dovuto apparirgli come messaggera di morte, e la melodia fatale che l’annunciava ritorna come un sottofondo fra i mulinelli degli archi; la missione di portarselo via dal mondo è fallita perché si era scontrata con un sentimento inesplicabile: quello provato davanti a un uomo che per amore di una donna rinuncia allo stato divino dell’immortalità. Nel «tremito sacro» della nuova condizione, Brünnhilde ha sentito la propria volontà, prima in simbiosi con quella di Wotan, separarsi e distanziarsi per seguire la sorte del welsungo.
Il nuovo sentimento che colma l’animo di Brünnhilde prende forma nella musica con la realizzazione completa del tema della giustificazione, sulle parole «Der diese Liebe» («Sicura della volontà che mi ha ispirato questo amore… ho tradito il tuo ordine») che sembrano schiudersi in un’aria, o almeno custodirne in sé tutto il potenziale melodico: una di quelle tipiche melodie «di redenzione», care a Wagner fin dall’Olandese, basate su una certezza armonico-melodica che punta verso il cielo della speranza; è anche la prima melodia spiegata, «lirica» diciamo, dopo tutta una parte interlocutoria di piccole idee, di piccoli motivi che la preparano, segno di una posizione morale nuova che sta per nascere. Il lavoro della musica nell’ultima scena della Walkiria è quello di farti sentire che ciò che doveva essere una punizione, il degrado da dea a donna comune, incomincia a non essere più una punizione, diventa un’accettazione e poi un’esigenza di vita nuova che nasce dall’interno, come opera del fare e disfare del tempo.
Degna della grande pagina di Brünnhilde è l’impetuosa risposta di Wotan, responsabile per intero del successivo episodio; il tempo si muove (vivo), Wotan ammette che Brünnhilde ha fatto quello che lui stesso voleva, ma che non poteva fare perché legato dai patti, e quindi si avvede che le loro volontà, prima una cosa sola, ora si sono separate, come se un incantesimo si fosse rotto; e batte e ribatte su questa duplicità: il cuore di lei aperto alla gioia, il suo alla pena; lei felice di cedere alla compassione, lui rabbioso di arrestarne la fonte, lei vittoriosa, lui costretto all’ultimo grado della sconfitta, alla volontà di annientamento.
Anche Wotan sta lentamente offrendoci uno specimine di quella maestria della «minima transizione» di cui Wagner andava tanto fiero: pur inflessibile, non è più ostile; rispetto alla seconda scena, quando latrava sotto l’ingorgo dell’ira, ora canta, non vive più in uno stato d’animo diretto, lo cita, lo descrive. Sensazione che diventa palpabile nella sezione più lenta che incomincia con le parole «da labte süß dich selige Lust» («allora grato te ristorò un felice diletto»): la sezione è distinta fra doppie sbarre di battuta, il tempo si sospende (misurato e trattenendo), al cantante è chiesto di essere un poco libero (etwas frei), l’orchestra è ridotta ai soli archi, pianissimo, il canto si fa strada fra armonie tenute; Wotan percepisce dentro di sé il sentimento provato da Brünnhilde, mentre la melodia è a un passo dallo sbocciare nel tema dell’amore nascente tra i fratelli: per Wotan un momento di frescura, un sogno dolcissimo, in cui rivive la sua giovinezza dentro la giovinezza di Brünnhilde. Il dio esce dal sogno con la ricomparsa tagliente dei fiati e con l’ennesimo ritorno sul discorso delle due volontà separate, come per fugare il momentaneo cedimento; ma intanto l’episodio, con lo spaccato che si è aperto nel mondo interiore di Wotan, ha allungato i tempi; ha dato tempo al tempo.
Wotan vuole riguadagnare posizioni e va per le spicce: il duetto procede per frasi più ravvicinate, di onda patetica crescente, con qualche riposo, qualche riparo o diga, da cui l’onda balza ancora più in alto. Brünnhilde non ha dimenticato il punto centrale che le sta a cuore, quello di non essere disonorata dalla punizione; e sfida Wotan sul suo terreno: se siamo due metà che devono separarsi non puoi permettere che la vergogna della mia metà si rifletta sulla tua: «non mi dare a un vile». Ma Wotan, sotto specie di virtù, continua a ritrarsi: «non posso scegliere, ormai siamo due volontà separate». Allora Brünnhilde, sottovoce con fiduciosa intimità, scopre la carta dei welsunghi, una schiatta che non conosce la viltà, e chiede che sia proprio un welsungo a svegliarla: la sezione musicale volge all’eroico, ma ormai Wotan ha girato le spalle alla sua stirpe, i welsunghi lo nauseano perché gli ricordano il suo io e la sua sconfitta; «non tentare, giovinetta, di turbarmi la mente; aspetta la tua sorte, quale a te si darà». Ma sente di aver perso un po’ di terreno, e con schietto voltafaccia da commedia passa al livello quotidiano, quasi recitando: «ma ora devo andar via, già troppo ho indugiato», e fa per andarsene.
Brünnhilde lo ferma, vuole ancora sapere dalla bocca del padre che cosa dovrà patire; questa la condanna ribadita: chiusa in forte sonno (per la prima volta: magia di accordi cromatici che si aprono a vicenda come sbucciando un frutto), dormirà inerme e chi la sveglia l’avrà sposa. Brünnhilde vola ai piedi di Wotan e, confortata da una frase degli archi gonfia di passione, supplica di essere circondata da una barriera di «respingente terrore», in modo che soltanto un uomo di formato speciale, di coraggio invincibile, possa arrivare fino a lei; a Wotan sembra ancora troppo concedere, esita ancora, e Brünnhilde («questo solo ti chiedo!») abbracciandogli i ginocchi scongiura un’ultima volta di essere straziata nel corpo ma salvata dalla vergogna: la tensione è folgorata dall’apparizione del tema della «Cavalcata» (tromba bassa e trombone) e dai primi barbagli del fuoco purificatore; solo a questo punto Wotan, finalmente, cede, e accetta l’escamotage del «respingente terrore» che custodirà il sonno della figlia. Wotan (forse è quello che voleva) la solleva, e i due si guardano negli occhi sopraffatti dai loro stessi sentimenti, mentre l’orchestra al completo ha aperto tutto il suo getto entusiasmante.
Brünnhilde non canta più fino alla fine dell’opera, ma resta più che mai presente nell’ultima pagina, nota anche in antologia come «addio di Wotan». «Leb’ wohl!» («addio!») è ripetuto tre volte salendo di grado, in un canto sfogato, con qualcosa d’italiano nell’empito melodico che stacca sulle fratture conosciute prima; «se mi devo separare da te, se non puoi più galoppare al mio fianco né offrirmi il sidro al banchetto, un fuoco nuziale arda ora per te quale nessuna sposa ha mai avuto» (o vedi orgoglio di padre!).
Come rapita, Brünnhilde si abbandona sul suo petto in un abbraccio che dura per due pagine di musica: per l’ultima volta s’impenna come un inno il tema della giustificazione, attirando a sé un tassello (partitura, p. 376) che ha una tradizione non trascurabile nel codice musicale romantico; è la curva melodica che dal ciclo di Lieder di Beethoven «all’amata lontana» (ma circolava anche prima, in Mozart ad esempio) è diventata poi un termine tecnico della sensibilità romantica, ripresa in particolare da Schumann, Mendelssohn e Brahms: non solo le grandi correnti, anche i ruscelli tematici del romanticismo vanno a finire nel mare wagneriano.
La separazione è confortata da una melodia di cinque note discendenti, dolce come una ninna nanna; ancora una volta si resta ammirati della capacità di Wagner di utilizzare vecchi arnesi del teatro musicale, qui la convenzionale «aria del sonno», per penetrare in situazioni della psiche umana di ogni tempo. La ripetizione della stessa idea melodica annebbia le idee e allunga i tempi; nello spazio di trenta, quaranta minuti del tempo matematico, il tempo psicologico ha fatto la sua metamorfosi: Wotan da padre degli dei è diventato un padre comune, un padre come noi, per il quale è giunto il momento di separarsi dalla figlia amatissima, l’unica della corte celeste che lo capiva. L’ira smisurata del dio, i patti, Fricka, i welsunghi recedono sullo sfondo, domina in primo piano, nei lunghi passi di sola orchestra, il sentimento del tempo che ha trasformato i rapporti. Sono sempre vissuti insieme, uno implicava l’altra, ma Brünnhilde ora è diventata adulta, anche se il padre non se n’è accorto; la punizione le ha tolto lo stato di walkiria, e così la gioia di cavalcare e combattere, azioni che la memoria ricorda nella sottrazione e ripresenta alla coscienza. Tanto basta a Wotan per misurare l’intervallo da ieri a oggi e sentire che ormai Brünnhilde è entrata in una nuova vita dove per lui non c’è più posto: da qui l’infinita tristezza di questa pagina immortale, la disperata dolcezza della sua elegia del tempo trascorso e irrecuperabile.
Mentre gli accordi lisztiani, zeppi di cromatismi, scivolano lenti uno nell’altro come un magico gioco di anelli, Wotan bacia sugli occhi Brünnhilde e i sensi della donna cominciano a sciogliersi nell’incoscienza del sonno. Così abbandonata, Wotan la sdraia dolcemente su un rialzo di muschio al riparo d’un abete, le chiude l’elmo, la copre con lo scudo, mentre continua a fluire come una ipnosi la musica del sonno: così in Schubert le innumeri ripetizioni della melodia che avvolge il mugnaio nella sua liquida bara, al concludersi della Bella mugnaia.
Wotan si ridesta, riprende il centro della scena e chiama Loge, il dio del fuoco, a circondare con le sue fiamme il corpo della dormiente. La musica dell’«Incantesimo del fuoco» (altro brano che ha vita indipendente nei concerti sinfonici) si è già presentata a frammenti nel corso dell’opera, ma divampa qui in tutta la sua forza, con il bagliore degli strumentini e lo scintillare delle arpe. In mezzo al trasalire delle fiamme si fa strada il tema dell’eroismo di Siegfried, protagonista dell’opera successiva; si potrebbe pensare a un finale da vincitori, ma il suo clangore sembra più appartenere a mere leggi di effetto teatrale: la musica vera è altrove, è nel cuore di Wotan che ha preso coscienza del tempo e della sua solitudine. In lui la malinconia della decisione presa, della cosa attuata, ha sostituito l’energia centrifuga e velleitaria della «grande idea» che concludeva L’oro del Reno; qui la sua volontà è come riassorbita dalla forza cosmica del fuoco, quel fuoco purificatore che è anche l’anticipo della conclusione di tutto L’anello con l’incendio del Walhalla; per ora, tra le fiamme e i fumi che invadono la scena, Wagner insiste a suggerire che Wotan si attardi a rivolgersi di continuo verso la figlia addormentata, con sguardi sempre più lunghi e più nostalgici: a conferma di quel sentimento umano che La Walkiria ha celebrato ed esaltato con forza incomparabile.