ATTO I

Scena I

L’angoscia di Mime

A sipario chiuso, il preludio dell’opera ci rappresenta l’oscurità della grotta dove Fafner, trasformatosi in drago, custodisce sotto la mole del suo corpo il tesoro del nibelungo: l’oro, sottratto al Reno da Alberich, e poi speso da Wotan per saldare il conto dovuto per la costruzione del Walhalla. Un rullo di timpani (pianissimo con tre p), come una sorda vibrazione della terra, si stende sull’apparente immobilità, percorsa dai lenti moti dei fagotti che rammentano la magia dell’anello e dall’insinuarsi tenebroso della tuba contrabbasso, lenta e ansimante come la massa torpida del drago. In questa oscurità mormorante, immagine materiale di quella paura evocata più avanti dall’opera, si fa strada una traccia di umana attività quando appare in pianissimo, alle viole, quel ritmo pulsante dei nibelunghi al lavoro forzato che aveva dominato la scena di Nibelheim nell’Oro del Reno: sempre, al principio delle sue giornate del Ring, Wagner raccoglie con scrupolo didattico le fila del racconto precedente, illuminandone per brevi tocchi i passi che più gli preme ricordare; ora, il ritmo di chi scava e lavora cresce e accelera con ossessiva continuità fino a un disperato culmine fonico, dopo il quale il preludio ritorna gradualmente al movimento e all’ultra pianissimo dell’esordio; dal silenzio emerge il tema della spada impugnata da Siegmund nella Walkiria, epitome di tutti i temi eroici del Ring, ma qui, nella sonorità appannata della tromba bassa, citato come eroismo fra virgolette: a ricordare che quella spada, Notung, era stata infranta e si trova ormai ridotta in due schegge.

Quando si alza il sipario, si distingue dall’oscurità un’accozzaglia di rocce innervate a limitare un’officina, dentro la quale c’è Mime, il più famoso dei fabbri, che aggiunge al ritmo del lavoro in orchestra i colpi metallici del suo martello e la stizzita esclamazione: «Pena implacabile! Vana fatica!»; siamo agli antipodi della classica immagine del «fabbro armonioso», di cui sembra l’amara satira. La causa dell’inquietudine, che cresce pari all’accanimento del lavoro, si capisce in fretta dall’antefatto che Mime rivela per sommi capi pur nel suo cantare interiettivo, tutto spasmi discontinui: l’elfo industrioso non è capace a forgiare una spada adatta alla forza di Siegfried – il fanciullo affidatogli da una donna, Sieglinde, venuta a morirgli lì nel suo recesso –, sapendo in anticipo che quel ragazzo, cresciuto vigoroso e selvaggio, la manderà in mille pezzi. Una spada adatta a quel braccio terribile ci sarebbe: Notung, ma è spezzata, e i monconi, consegnatigli da Sieglinde assieme al marmocchio, nemmeno la sua arte famosa riesce a saldarli. Ma c’è altro ancora: in questa situazione d’impotenza, Mime vede sfumare il suo piano di servirsi della forza bruta di Siegfried per impadronirsi dell’anello uccidendo il drago Fafner, giacente non lontano in una grotta a custodia del tesoro; aspirazione certo inadeguata alla figura grottesca del nano, ma non alla sua astuzia che ha preparato l’ignaro ragazzo all’impresa, stuzzicandone la bellicosità con racconti di duelli leggendari con mostri e giganti: di qui il suo batti e ribatti nella disperazione di una «vana fatica».

Da dove vengo

L’arrovellarsi di Mime è interrotto dal grido selvaggio «Hoiho! Hoiho!» di Siegfried che irrompe in scena coperto di fronde; a un legaccio di corteccia tiene un orso selvatico, minaccia e terrore del misero fabbro, pretendendo a gran voce la spada promessa: l’atto odiosissimo di aizzare contro qualcuno una bestiaccia, le grasse risate, l’atletica stupidità non sono fatte per conquistarci l’immediata simpatia. La ferinità del giovane si placa alla notizia che l’arma è pronta, e l’orso è rispedito nella foresta con una manata sulla schiena. Ai rimbrotti di Mime, Siegfried replica che l’animale era uscito dalla boscaglia mentre lui suonava il corno alla ricerca di un compagno, prima e fuggevole allusione a un tema che avrà grande sviluppo nella prima parte dell’atto e poi in tutta l’opera: l’impulso di Siegfried a uscire dalla solitudine, a trovare un amico, un simile, oltre l’elfo peloso che lo ha svezzato. Ma per ora tutta l’attenzione è volta alla spada appena forgiata, che Mime tremante gli consegna e che il giovane naturalmente vibra sull’incudine mandandola in pezzi: «Ehi! è una spada questo giocattolo? Mi parli di giganti, di formidabili imprese, e mi prepari questo chiodino?», e si getta a sedere furente e sconfortato.

Mime prova a cambiare registro entrando nel ruolo del patrigno: su una musica che dal ritmo del lavoro diventa poco alla volta ballonzolante e leziosa, prova a enumerare le sue benemerenze di genitore putativo; mentre gli offre un cosciotto, che Siegfried scaglia via con la scodella, Mime racconta di quando l’ha scaldato e allevato bambino, quando gli ha martellato e laminato il corno d’argento che tiene al collo, rassettato il giaciglio, dato consigli, affinato l’astuzia; e tutto racconta al ritmo stucchevole di goffe ninne nanne.

Siegfried, sospese le irose maledizioni, si fa più calmo, ma solo perché preso da una idea tutta diversa da quella della spada, un’idea che deve essergli già venuta altre volte nel suo fantasticare su genealogie e discendenze. Se lui ritorna sempre lì, nel tugurio di Mime, malgrado la ripugnanza che il nano gli ispira, è perché vuole sapere da lui qualcosa di molto importante che da tempo gli sta a cuore: qualcosa che non può conoscere da solo, cioè la propria origine, il ceppo da cui è disceso. Un caldo tema saliente nella dolce voce di viole e violoncelli s’inframmette, un tema dal cromatismo pacato e confidente, primo seme dell’umanità nascosta nel ragazzo che sente dentro di sé, ancora enigmatico, un bisogno di solidarietà, di umano consorzio, un’inesplicata intuizione del senso di una famiglia. Tante volte ne ha chiesto a Mime ritornando dalla foresta, ancora acceso nell’emozione di aver veduto gli uccellini a primavera, i caprioli, le volpi e gli stessi lupi, che tutti si confortano nella coppia, maschio e femmina, nella dolcezza delle carezze e dell’allattamento. «Dove hai dunque, tu, Mime, la tua donnetta amorosa ch’io possa chiamarla madre?». Senza dar retta agli spropositi del nano («ti sono padre e madre insieme»), Siegfried racconta di un’altra esperienza avuta nelle ore passate nei boschi, la percezione delle somiglianze famigliari: quando un giorno, in uno specchio d’acqua, ha sorpreso la sua immagine riflessa, un volto tanto dissimile dal grugno del nano odioso quanto un pesce da un rospo; «da te devo infine sapere chi siano a me padre e madre!», e prende per il collo Mime che alla fine, messo alle strette, si decide a raccontare.

Scoperta del passato

Come accade di solito nel teatro wagneriano, il «racconto» ha la doppia funzione di spiegare un antefatto e allo stesso tempo consentire all’azione di avanzare: la donna venuta dalla selva portava un bimbo nel grembo, partorito lì in un anfratto del suolo fra dolore e lamenti con le cure improvvisate del nibelungo: «morì: ma Siegfried sopravvisse». «Dunque mia madre morì per me?». Siegfried apprende stupefatto il proprio nome, il nome della madre Sieglinde e la sventura del padre ucciso in un duello: apprende il suo destino di creatura gettata orfana nel mondo. Wagner conduce la rivelazione su due registri musicali, il veemente domandare di Siegfried e la cautela di Mime, musica di scatti impazienti e filastrocca compiaciuta di finta affettuosità. Ma la poesia della pagina nasce come ricordo della Walkiria, con il venire a galla in orchestra dei temi della stirpe welsunga, della madre Sieglinde, dell’amore nascente fra i due fratelli (che affiora struggente dal clarinetto), di Siegfried stesso: cioè i temi di quel sentimento d’amore nel suo fiorire ed espandersi che ha generato il bambino, ora ansioso ragazzo inquirente.

Ammirevole, in questo breve squarcio di vita trascorsa, è la concisione, l’assenza di ogni enfasi o retorica: che dipendono in molta parte dalla mossa geniale di mettere l’esposizione dei fatti in bocca a Mime, cioè a un narratore lontano e antitetico a slanci d’amore; per cui il racconto è staccato da chi lo pronuncia, è sullo sfondo, epico, tutto cose, senza partecipazione emotiva del narratore che ne lascia tutta l’eloquenza alle voci dell’orchestra. Ma, come si diceva, il racconto serve pure a spingere avanti l’azione: per la morte del padre in battaglia, Siegfried, minacciando con la solita violenza, vuole una prova tangibile, e allora Mime va a prendere da qualche nicchia i due pezzi di una spada troncata, tutta la dote offerta al nano dalla misera Sieglinde per il tetto e il cibo; un’arma di origine divina, Notung, ma ora rotta e rugginosa, quella che il padre Siegmund teneva in mano nell’ultimo duello. Di colpo Siegfried è invaso dall’idea che quella è la spada fatta per lui e intima a Mime di saldarla oggi stesso, incitandolo a dare la prova della sua bravura: «la tua arte dimostra, oggi stesso la voglio pronta!», e, saputo quello che voleva, via nella selva con le ali ai piedi.

Prima di congedarlo, però, Wagner si prende il tempo, quasi si diverte a fargli intonare una sorta di Lied («Via, fuori dal bosco entrare nel mondo!»), uno di quei canti di spensierati viandanti che abbondano nei boschi di Eichendorff, Kerner e Schumann: lo denunciano senza veli le parole «in der Ferne bin ich heim» («nella lontananza è la mia patria»), motto di solitari sradicati o di impenitenti girondoloni (capita nel Ring, ma specialmente nel Sigfrido, che ogni tanto un personaggio esca dal ruolo drammatico ed entri in un «tipo» liederistico indossandone i panni); un attimo, e il ragazzo è già lontano, mentre Mime si accascia sotto il peso di una nuova incombenza superiore alle sue forze: saldare i pezzi di Notung.

Scena II

L’aiuto del dio

Mime non ha ancora finito di esprimere il suo sconforto che l’orchestra cambia di colpo il quadro musicale, a denunciare l’entrata in scena di un personaggio che sembra uscito dalle pagine di un vecchio libro di mitologia: è il dio Wotan nella fattispecie di Wotan-Viandante, il Wanderer della letteratura romantica: il dio con un occhio solo, che ha sacrificato l’altro nel pozzo del sapere, e percorre le regioni degli uomini, giungendo inatteso, senza corte e banditori, dormendo presso i buoni che lo ospitano. Dal suono tornito degli accordi di corni e tube spira una calma sovrana, in contrasto con la mobilità nervosa che ha dominato finora la partitura; accordi di costituzione perfetta, che tengono qualcosa della dimora sublime del Walhalla, ma anche della magia del sonno di Brünnhilde per le metamorfosi cromatiche.

Nobiltà e grandezza circondano il dio pellegrino, avvolto in un mantello azzurro, gran cappello a tesa larga che s’abbassa a coprire l’occhio che manca. Il nuovo arrivato saluta l’ospite con un epiteto lusinghevole, «Salute, fabbro sapiente!», ma costui rimane diffidente, come quelli che aprono l’uscio di casa con la catenella, restando dietro lo spicchio della porta; il loro dialogo è un gustoso pezzo realistico che mette di fronte un gran signore e un piccolo borghese: Wotan parla in termini omerici, adattati dal mare all’ambiente terrestre («sul dorso della terra molto ho vagato»), è un ulisside per il quale viaggiare è sapere, «molto ho cercato, molto ho compreso», e in cambio dell’ospitalità offre utili consigli. Ma Mime in tutto questo sapere sospetta un ozioso spione, e non vuole consigli: gli basta quello che sa, lasciando «via libera ai perdigiorno».

Sapere ciò che serve

Naturalmente, sotto il manto dell’augusto visitatore, sotto le alate parole che dispensano saggezza, le vere intenzioni di Wotan non sono meno interessate di quelle di Mime. Wotan, anche se indossa l’abito del Viandante, non è cambiato; non gli è bastato lo smacco ricevuto da Fricka nel secondo atto della Walkiria: in realtà è venuto da quelle parti per far sapere a Mime come saldare Notung perché poi Siegfried, che è sua progenie, riconquisti per lui l’oro ai giganti; è la nota contorsione di quella che alla fine dell’Oro del Reno sembra a Wotan la «grande idea», cioè l’intenzione di riprendersi per procura quello che è stato obbligato a cedere.

Il punto debole della faccenda, come svelato da Fricka, è che «l’altro» dovrebbe vivere e operare in libertà, laddove è sempre il dio, pur negandolo in apparenza, che tiene le fila dell’azione; con tutto ciò, la bizzarria della «grande idea» (che forse sarebbe meglio chiamare l’«idea fissa») serve in realtà a Wotan per aggirarsi nella tragedia del suo destino, quella di non esserne padrone, di frammentarsi in impulsi separati dal loro nesso con l’uomo integro: slanci di volontà e zavorra di opprimenti doveri, in una figura tormentata da quella moderna perdita della totalità che fa di Wotan forse il più grande personaggio del Ring, anche se nessuna giornata del ciclo porta il suo nome.

Ora vuole riprendersi l’oro e l’anello, ma, appunto, non può farlo apertamente: andrebbe contro i patti, deve farlo in modo indiretto, circonvoluto, e questa circonvoluzione è appunto la seconda scena del Sigfrido, che in realtà sembra tutta derivare da una battuta di Faust nella scena «fuori porta»: «quello che non si sa ci servirebbe/ e non ci serve quello che si sa» (Faust I, vv. 1066-67). Così Wotan squaderna la merce del suo sapere per aggirare il diffidente: «qualcuno s’illudeva di essere saggio, ma ignorava ciò che sul serio gli occorreva di conoscere: e io ho fatto in modo che proprio questo mi domandasse». Mime, ripetendo che in quanto a sapere basta a se stesso, lo invita a riprendere il cammino; ma Wotan, un passo dopo l’altro, gli è entrato in casa e ormai si siede al focolare; quindi, per dare la direttiva senza averne l’aria, propone una scommessa, una gara di sapienza: «mi gioco la testa, se non risolvo la tua domanda su ciò che più di tutto ti preme sapere».

10. Arthur Rackham, Mime e Wotan il Viandante, 1911.

10. Arthur Rackham, Mime e Wotan il Viandante, 1911.

Indovinelli

Assecondando l’importuno nella speranza di disfarsene, Mime finge di raccogliere la sfida e pone tre domande a casaccio (cioè deviando dal vero problema: chi salderà i pezzi di Notung?): quale stirpe vive nelle viscere della terra, quale in superficie e quale sulle alture sopra le nubi, indovinelli che il Viandante, che è stato dappertutto, scioglie con perfetta puntualità. Sulla carta la scenetta è pleonastica e risaputa all’ascoltatore, che vede passarsi davanti le vignette musicali dei nibelunghi, dei giganti e degli dei superi come in un’enciclopedia per ragazzi; e il passaggio infatti è spesso criticato come prosaico e banalmente didascalico, ma la banalità si dissolve nei frammenti in cui la capacità icastica della musica trasforma la materia mitologica in evocazione poetica: ad esempio, quando, fra stirpi e nozioni geografiche, viene fuori il nome del Walhalla, chi non sentirà nella fanfara degli ottoni l’eccitazione di ritrovarsi di fronte la mole e la verticalità del fortilizio?

C’è poi da notare l’ultima risposta, quella intorno agli abitatori delle alture, risposta che in realtà è un’epifania involontaria: perché il pellegrino viandante parlando di dei luminosi, quando arriva a menzionare il loro capo supremo, Wotan, il reggitore del mondo, è preso da una esaltazione identificatoria e batte involontariamente il suolo con la sua lancia; tanto che un tuono risponde lontano e lo stesso Mime confessa fra sé di aver riconosciuto nel curioso pellegrino il dio Wotan travestito; questo tratto psicologico sulla vanità di Wotan che non riesce a non rivelarsi riscatta la piattezza della scena a domande e risposte.

Di nuovo si sfiora la pedanteria con una nuova serie di indovinelli, necessari tuttavia allo scopo del dio, perché finora il nano ha evitato la sostanza dell’inchiesta perdendosi in futili domande. Il Viandante allora decide di cambiare il giro: per «la norma delle sfide» sarà lui a porre i quesiti e Mime a rispondere: la sua testa è perduta se non saprà dire qual è la cosa che gli è più utile conoscere (in questo parlare involuto e tipico delle narrazioni fiabesche sembra di cogliere un’eco del «conosci te stesso» del pensiero socratico).

Le domande di Mime erano di geografia antropologica, diciamo così, quelle di Wotan riguardano casi umani complessi e connessi alle dinastie. Ma il dotto nano risponde bene ai primi due quesiti, enfaticamente lodato dal maestro interrogatore: i welsunghi, la stirpe eroica cui Wotan si è mostrato più avverso pur essendogli la più cara, e la storia di Notung, conficcata nel frassino, brandita da Siegmund e poi spezzata dalla lancia di Wotan; e nelle risposte ritornano eventi e immagini del passato, argomenti cui Mime impresta una per lui inedita pomposità. Ma ecco finalmente la terza domanda, chi salderà i frammenti della spada?, che getta Mime nel panico, impotente a penetrarne l’incantesimo; solenne come le parole di un oracolo, arriva la risposta del dio: «Solo chi la paura non ha mai provato, ritempra Notung a nuovo», vaticinio scolpito dalla voce per intervalli ascendenti, mentre dalle trombe s’innalza il tema della spada con trionfante gestualità; Mime si è giocato la testa, ma il Viandante la lascia all’eletto che non conosce la paura e scompare nella foresta.

Scena III

Cos’è la paura

Mime precipita in una sorta di incubo, assalito da visioni di luci abbaglianti e di draghi con le fauci spalancate, e Wagner ne approfitta per dare vita a uno straordinario «pezzo di bravura»: bravura nel doppio registro dei versi, con assonanze e rime allitteranti («flackert und lackert», «guizza e oscilla»; «schwebt und webt», «fluttua e freme»; «brummt und braust», «brontola e mugghia»), e della scrittura orchestrale, soffiata via nella trasparenza di uno Scherzo dalle screziature timbriche inaudite, con legni e ottavini sibilanti che riprendono la volubilità abbagliante dell’«Incantesimo del fuoco» alla fine della Walkiria; all’effetto mirabile, oltre al lingueggiare dei legni, collaborano i violini divisi, con i pizzicati che simulano le arpe, e persino minimi tocchi di triangolo, piatti e tam tam per orecchi dalla percezione speciale; non sfugge a nessuno invece la divaricazione dei registri, fra suoni acuti e note tenute dal basso tuba nel registro profondo, colpo di genio già attuato da Mendelssohn nell’Ouverture del Sogno d’una notte di mezza estate.

A distaccare Mime dalla sua allucinazione interviene Siegfried, sopraggiunto improvviso dalla foresta al canto del Lied del girovagare con cui si era congedato. È la seconda volta dal principio dell’atto che riappare a sorpresa, ma una e sempre la stessa è la richiesta: il lavoro finito, la spada da consegnare; solita scherma fra difese e finzioni del nano e pretese vocianti del ragazzo forzuto, ma questa volta c’è la novità: la notizia, da fonte autorevole, che la spada può essere forgiata «solo da chi non sa cosa sia la paura». La rivelazione oracolare sulle prime sembra a Siegfried una gherminella di Mime, che gioca bene la sua carta suscitando nel giovane ignaro la curiosità per cosa nasconde questa nuova parola, la «paura»; ha pure l’astuzia, come spesso succede, di chiamare a rinforzo le ombre dei trapassati, ovvero la madre partoriente che gli aveva fatto promettere di non mandare Siegfried nel mondo prima di avergli fatto conoscere la paura.

Come impararla

«Che cos’è la paura?». L’analogia del protagonista con la fiaba dei fratelli Grimm che aveva colpito Wagner come uno choc qui sfiora l’identità: la rappresentazione ingenuamente terrifica di Mime, su una musica di trilli e scivolamenti cromatici, cerca di fargli correre un brivido per le membra (come al fratello stupido della fiaba la pelle d’oca tanto desiderata); rinasce in orchestra la musica dell’incantesimo del fuoco con i bagliori delle arpe, e nella ritentiva di Siegfried s’insinua la curiosità di provare codesto brivido, come un richiamo verso nuove sensazioni commiste di piacere; «davvero strano dev’essere tutto questo», riflette come trasognato, mentre dal corno affiora il tema dolcissimo del sonno di Brünnhilde; accanto alle note musicali Wagner raccomanda all’esecutore: molto semplice, senza alcuna sentimentalità, come per rinverginare quella melodia profusa nel finale della Walkiria, presentarla tutta nuova alle future azioni del ragazzo.

Uscito dalla sua meditazione, Siegfried ne sente ancora l’oscura, eccitante attrazione: di questa paura, «di questo nuovo piacere, mi strugge il desiderio», ma come impararla da Mime? «Il maestro eccolo qua», risponde il nano astuto: un drago famelico che ha la sua tana in una grotta in fondo alla foresta, a oriente: «te la insegnerà lui, la paura». A quella grotta, che ha nome Neidhöhle, Siegfried vuole essere subito guidato; quindi per l’ultima volta a Mime: «svelto, forgia la spada che brandirò nel mondo», mentre il tempo accelera e i ritmi scanditi già anticipano il lavoro alla fucina.

Temprare la spada

Alle nuove proteste di Mime – che solo l’ignaro della paura potrà compiere l’incantesimo di saldare la spada – Siegfried decide di temprarla lui stesso: con una nuova tecnica siderurgica, che lascia il miserevole fabbro sbalordito, lima i frammenti di Notung riducendoli in polvere, versa la limatura nel crogiolo e attizza la fiamma fino all’incandescenza, mentre l’orchestra incomincia a crepitare, gonfiandosi poco alla volta come un mantice, bagliore più vero di qualunque fiamma scenografica. L’atto si conclude così con la lunga scena della fusione della spada, occupata specialmente dalla «canzone di Notung», canto di lavoro («Hoho! Hohei!») ritmato da pesanti martellate; scena non esente da una certa pedante uniformità descrittiva, alla fine della quale le parole di Siegfried rivolte alla spada, «colpisci il falso, uccidi il traditore», sembrano attingere al repertorio poetico della cavalleria medievale, quella che accorreva in ogni angolo del mondo a difesa dei buoni e confusione dei malvagi.

11. Ferdinand Leeke, Siegfried tempra la spada, 1900.

11. Ferdinand Leeke, Siegfried tempra la spada, 1900.

Mentre durava la forgiatura, infatti, Mime, prevedendo l’uccisione del drago, escogita il suo piano: quando il giovane eroe sarà stanco della lotta col drago, lui gli darà una pozione per ristorarlo, in realtà per addormentarlo, e quindi sfilargli l’anello. E non manca qui un tratto d’intristita comicità nel povero Mime: mentre rimesta al fornello per preparare il sonnifero, a Siegfried curioso di cosa stia combinando risponde commiserandosi come fabbro fallito che si dà alla cucina: leggerezza di ritmi puntati, immancabile presenza del fagotto, in uno schizzo realistico di comicità wagneriana, da far pensare ai Maestri cantori di Norimberga. L’atto finisce con i due personaggi entrambi giubilanti: Mime per la sua bella trovata, Siegfried per la saldatura della spada formidabile: non gli resta che innestare l’elsa e vibrarla a prova sull’incudine, che si spezza in due parti dall’alto in basso.