Quella paura «utilitaria», agitata come un fantasma all’immaginazione di Siegfried da Mime per i suoi fini, ora sale di grado e diventa percepibile a grandezza naturale. Intanto, siamo arrivati sul posto, Neidhöhle: «grotta dell’invidia», appunto, scrigno inviolabile dell’oggetto bramato da tanti. La nera foresta animica del Franco cacciatore di Weber è ancora più sprofondata in una notte primordiale: domina al timpano il tema pulsatile del drago Fafner, che è poi quello dei giganti, deformato dalla rude e netta tonalità di un tempo in un intervallo diminuito, strisciante ai contrabbassi soli sul lungo pedale tenuto da viole e violoncelli; la tuba contrabbasso con i suoi lenti spostamenti semitonali è come il volgersi della bestia gigantesca dentro il suo covo. Nell’ostilità di questa tetra natura s’insinua a un certo punto anche il tema raccapricciante della «cura», il tema dell’angoscia che Alberich aveva predetto a Wotan con parola pestifera nella scena più drammatica dell’Oro del Reno; tema che si era annidato, come un tarlo al lavoro, nel profondo dell’animo di Wotan, uscendo allo scoperto nel suo «monologo» della Walkiria.
Infatti, quando si alza la tela, una cosa sola con l’angoscia e con la notte, in scena c’è Alberich: finché l’oro, strappato dal fondo del Reno, gira per il mondo cambiando possessori, il nibelungo ne sarà la guardia insonne e implacabile; ma quell’angoscia cui aveva condannato gli dei luminosi ora rode anche lui, che sta appollaiato come un corvo ai margini della grotta dov’è custodito il tesoro. Grande scena, tappezzata di macchie nere come il peccato, dove torna in primo piano la lotta per il potere, e con essa l’analisi spietata della miseria morale dell’uomo, della sordidezza della sua avidità, come pure della fatua difesa delle apparenze, cioè dell’ipocrisia; spariscono fiaba e mitologia e viene fuori il lato dostoevskiano di Wagner, con l’aspro realismo di tratti in recitativo schietto che mettono in prima linea la parola recitata e quindi la bravura dell’attore-cantante.
Alberich attende l’alba. Vigila nella selva e nella notte, origlia, osserva, attende gli eventi, sa che il giorno porterà in quel luogo l’uccisore del drago e vuol essere il primo ad allungare le mani: naturalmente, continua a considerarsi il vero proprietario dell’anello. Quando, invece del giovane, preceduto da lampi azzurrini e ritmi galoppanti, si vede di fronte Wotan in persona sbigottisce, ma si riprende tosto dalla sorpresa e gonfio d’ira investe l’arrivato con una serqua d’insulti dalla furia plebea: «Proprio tu ti fai vedere qui? Ladro, svergognato, vattene, via dalla mia strada!»; ai morsi di Alberich, Wotan si difende dietro lo schermo del suo ruolo: «Cosa faccio qui? Ma io sono il Viandante, vengo a vedere, non ad agire». La calma degli accordi perfetti in cui si avvolge esaspera ancora di più lo sdegno fremente di Alberich che lo smaschera alla radice: «Viandante o no, anche tu sei venuto a spiare perché vuoi riprenderti l’anello», e gli ricorda la buscheratura che Wotan gli aveva dato assieme a Loge nell’Oro del Reno, quando lo avevano legato e depredato; ma ora «solo l’idea che l’anello torni nelle mie mani ti rode e ti consuma», perché, a differenza degli stupidi giganti, il nero Alberich saprà adoperare tutta la forza dell’anello per far crollare il Walhalla.
Ineffabile è il contrasto fra l’incalzare a testa bassa di Alberich e l’aria distratta di Wotan, che parla oscuro, come intento ad altri pensieri; mentre Alberich, sempre più stringente, lo accusa di confidare nel discendente dei welsunghi, che conquisti per lui quello che a lui è proibito. Ancora una volta Wotan non raccoglie e cambia argomento: «prenditela piuttosto con tuo fratello Mime», che sta conducendo qui un ragazzo per uccidere il drago e conquistarsi l’anello; e per far credere quanto lui, Viandante osservatore, sia sopra la mischia, propone addirittura di svegliare subito Fafner e avvisarlo del pericolo: capitasse che quello, in cambio dell’avvertimento, si decidesse a mollare l’anello. E si mette lui stesso a chiamare il verme colossale dalla bocca della caverna, come in una scena evocativa di opera barocca: «Fafner! Fafner! Svegliati!».
Il drago, smosso dal suo torpore, risponde con voce resa ancora più disumana da un megafono, risuonando dal suo antro: «Chi turba il mio sonno?». Wotan lo avverte che un forte è in arrivo per sfidarlo a duello, una notizia che può essere compensata con il tesoro che custodisce: il pericolo non è da sottovalutare, il ragazzo è ardito, affilata la spada; e lo stesso Alberich interviene mercanteggiando: basta l’anello per compenso, si tenga pure il resto. Ma Fafner non sembra nemmeno aver sentito: «Giaccio e possiedo», sbadiglia orrendamente e ripiomba nel suo gelido letargo. La mossa è fallita, Wotan lascia il passo al nibelungo, gli dà il consiglio peloso di accordarsi con Mime e scompare nella foresta; inseguito da un’ultima invettiva di Alberich contro gli dei luminosi, impregnata di un’invidia di classe verso i celesti che cavalcano nel vento, mentre lui resta in affanno e scherno; e pure segnata dagli accenti sinistri di un moralismo quacchero che profetizza calamità a quella genia ridente e avida di piaceri.
Prime luci del giorno, appaiono dal fondo Mime e Siegfried: si entra nella scena capitale dell’opera, a cui tutto tendeva e da cui tutto dipende, articolata in scenette minori tutte correlate fra loro. Dopo le tenebre della prima scena, chiarità crescente fino al sole zenitale, tutto avverrà in piena luce; il negativo morale si ritira da parte e lascia il campo a sensi più nobili, esperienze positive di conoscenza, evoluzione e moventi primi. È l’aurora della coscienza umana di Siegfried, e tutto questo nel fermento della Natura vivente, terra d’elezione dell’arte musicale: era dalla Pastorale di Beethoven che la musica non respirava più così all’aria aperta, in una compiuta felicità e verità di sensazioni; anche Berlioz partecipa all’autorità del quadro con il secondo movimento della Sinfonia fantastica e i suoni isolati che si rispondono delineando uno spazio. Ma Wagner evita la pennellata continua, con i trabocchetti di ripetizioni e ristagni, facendo intervenire la vita della natura secondo momenti separati, a frammenti sempre più pregnanti, che traspaiono fra le realistiche pause di dialoghi e riflessioni.
Dopo una notte di cammino, arrivato sul luogo voluto assieme a Mime, Siegfried si mette a sedere sotto un tiglio, albero romanticamente deputato a rivelazioni e trasalimenti, e si guarda attorno: «è qui che devo imparare la paura?»; ma per prima cosa è impaziente di liberarsi di Mime, che ora, giunto alla grotta, come guida non gli serve più. Il nano però non si scolla, anzi incalza con una serie di avvertimenti: «se la paura non l’impari qui, in nessun altro luogo mai l’apprenderai», e gli mostra la grotta e si mette a rappresentargli, fra tremoli cromatici e rimbombi del timpano, la figura terrifica del drago che ci abita, le fauci, la bava avvelenata, la coda micidiale, le vittime già deglutite, chiedendo se già principia qualche brivido di paura. «Ti basterà vederlo e udirlo – insiste Mime –, e i sensi ti mancheranno», mentre a mezzogiorno, quando il sole è più alto, esce dalla sua tana per andare a bere. Ma a Siegfried interessa solo sapere se il drago ha un cuore dove piantargli Notung, e disgustato dalle smancerie di Mime, dalle sue goffe proteste d’amore o di bevande ristoratrici, riesce finalmente a toglierselo dai piedi.
Ma intanto qualcosa di nuovo e di molto importante sta succedendo: Mime continua a borbottare consigli e Siegfried a maledirlo, quando in orchestra dagli archi si è alzato un lieve ondeggiamento, come un tiepido venticello, primo rintocco della foresta al risveglio. È importante fare attenzione all’intuizione schiettamente moderna di questa contemporaneità di sensazioni diverse e sovrapposte: situazione, parole e musica non scorrono più parallele, Siegfried sta ancora parlando tra sé di Mime mentre la musica dell’orchestra parla già del momento successivo, il mormorio, la vita segreta della foresta; la musica del bosco entra in scena all’insaputa dei personaggi, come quando una nuova sensazione si sovrappone a qualcosa che stiamo facendo senza pensarci.
Restare solo, suprema esigenza. Siegfried si stende sotto il tiglio, mentre ricomincia l’impercettibile fremito; s’interrompe, riprende più fitto, generando un’inquietudine benigna e inesplicabile. Il giovane pensa al padre che non ha conosciuto, al suo aspetto che non ha visto, con assorti recitativi alternati a frammenti estranei (il ricordo di Mime), al fluire delle sensazioni che vengono dall’estasi della natura; sempre trascorrendo dalla realtà al sogno, ora è la madre che occupa la fantasia del ragazzo: quale sarà stato il suo aspetto? E s’immagina gli occhi lucenti, come quelli delle cerbiatte incontrate nel bosco; ma altri interrogativi s’inseguono: perché mai, «dopo che in ansia mi partorì, perché è morta in quell’attimo? Muoiono tutte le madri umane per i loro figli?». E l’anelito a vedere quel volto si confonde con l’intimità di una musica struggente, con la sonorità velata dalla sordina dei violoncelli divisi, dai quali sale il bocciolo verde del violino solo con la melodia di Freia, incantevole epifania della dea della giovinezza e della bellezza; sempre di più l’opera si rivela il poema della famiglia, dei suoi vincoli e delle sue radici riflesse nei meandri della natura.
Riprende allo zenit della sua pienezza la musica della foresta, e sulla nuova pagina Wagner scrive Waldweben, vita del bosco tessuta (weben) sul grande telaio della Natura: oboe, flauto e clarinetto, i tre compagni della «scena al ruscello» nella Pastorale, sono all’erta a chiamarsi e rispondersi in un cerchio di acutezze e agilità sul costante scorrere degli archi. Siegfried, sempre al riparo del tiglio, presta attenzione agli uccelli, a uno in particolare che gli pare più estroverso degli altri, e fantastica che in un qualche linguaggio, che si duole di non comprendere, quello lassù gli stia dicendo qualcosa intorno alla madre (mentre ne pronuncia il nome, «Mutter», esce allo scoperto il corno, voce spianata che scalda il cuore). Il tema di quell’uccello loquace, incarnato la prima volta dall’oboe (partitura, p. 216), è fraterno, per ritmo, base armonica e articolazione melodica, al canto delle figlie del Reno nella prima scena dell’Oro: le figure della natura vivente infatti cantano allo stesso modo, senza darsi la pena di distinguersi in temi particolari.
12. Ferdinand Leeke, Il giovane Siegfried nel bosco, 1885 ca.
Tra le fole raccontategli dal padre putativo, a Siegfried ne torna in mente una, secondo cui l’uomo potrebbe arrivare a comprendere il cinguettio degli uccelli; e allora, su, proviamoci, «con una canna suonerò simile a lui!». Ne nasce una scenetta che pare la satira di una comunicazione scientifica sulle «origini del linguaggio»: staccato un calamo palustre dalla fonte vicina, Siegfried prova a soffiarci dentro imitando il gioco di note dell’uccello (in orchestra uno «stridulo» corno inglese gli presta voce), ma si arresta subito, per intagliare e affinare il rozzo strumento; prova di nuovo, ride fra sé dell’esperimento, riprova ancora, si corregge, stona, stecca malamente e stizzito rinuncia: «credo, uccellino, di restare un ottuso: imparare da te non è facile».
Riappare il volatile nella piana assolata, planando sulla più ariosa delle musiche verso il ragazzo, umiliato nella sua palese inferiorità; gettata via la cannula, Siegfried afferra il suo corno d’argento per attaccare una di quelle «canzoni di bosco» che sono il suo forte, fatte di suoni altrimenti prestanti, che nelle sue scorribande per la foresta gli avevano procacciato orsi e lupi come occasionali ascoltatori: vediamo ora chi sbuca fuori! E soffia il più gagliardo dei temi di caccia per due o tre volte, fermandosi a prendere fiato e seguendo con l’occhio l’uccellino per vedere l’effetto. Con la gaiezza del monello si mette a suonare sempre più forte e più veloce, riempiendo di squilli la valletta, tanto che dal fondo, districandosi dagli anfratti del terreno, emerge la mole gigantesca del drago Fafner, che del resto, essendo mezzodì, sarebbe uscito proprio a quell’ora dal suo covo per dissetarsi. Quando Siegfried se lo vede di fronte lo apostrofa con la confidenza insolente di un compagno di giochi: «qui c’è qualcuno che non conosce la paura: può impararla da te? Ma se non sei capace, bada, te la farò pagar cara». Scambio di smargiassate fra i due, che portano al duello mortale, concluso da Notung piantata al cuore del drago.
Assai più del duello, tributo pagato al teatro naturalistico, quello che interessa a questo punto è la morte di Fafner, uno di quegli episodi secondari, deroganti dall’asse narrativo, in cui specialmente si afferma l’unicità del teatro wagneriano. Nei suoi ultimi momenti Fafner riprende voce e forme originarie, come avviene nelle fiabe quando si rompe un incantesimo; il gigante ha capito che il giovane ardito è stato spinto da qualcuno più sapiente a scovarlo e ucciderlo, da sé non poteva arrivarci: «O ragazzo dai limpidi occhi, che ignori te stesso: chi hai ucciso ora saprai da me».
L’affanno sommesso delle sincopi ritma il racconto dei fatti compiuti dagli ultimi campioni della razza dei giganti, i fratelli Fasolt e Fafner, il fratricidio per il possesso dell’oro, la metamorfosi in drago per custodirlo: quel drago, che ora un ragazzo dalle guance rosee ha ucciso, era Fafner, l’ultimo dei giganti; sul quale sembra scendere, con un velo di pietà, il pathos delle cose ultime, le razze leggendarie, i bruti, i portenti, spazzati via dall’efficientismo moderno di un ragazzo. Prima di morire il bruto consapevole, con ancora la luce del Chaos negli occhi, trasmette a sua volta il fatale avvertimento: «bada a te, chi te cieco ha spinto ad agire, al tuo vigore trama adesso la morte», e in orchestra riappare il perpetuo rodio dell’angoscia, motore segreto di ogni procedere dell’azione verso il disfacimento. A Siegfried l’avvertimento non dice nulla, e ancora meno la malinconia delle schiatte in estinzione; piuttosto interroga Fafner sull’unica cosa che gli preme sapere fin dal principio dell’opera: «da dove vengo, qual è la mia origine?»; ma il vecchio gigante non fa più in tempo a sciogliere l’enigma.
Rimasto senza risposta, Siegfried estrae la spada dal petto del drago e uno spruzzo di sangue gli macchia la mano; d’istinto se la porta alle labbra, perché quel sangue brucia come il fuoco, e si succhia le dita, compiendo senza saperlo un gesto rituale: nella Nekyia dell’Odissea bere il sangue delle vittime sacrificate scioglie la lingua dei morti; nel Libro dei Re di Firdusi, Rusten stilla il sangue di un gigante negli occhi di re Kavus che tosto riacquista la vista; qui, nel regno della Natura, il sangue apre la comprensione al linguaggio degli uccelli, ai misteri della vita stessa. Siegfried ne ha come il presentimento quando l’uccellino si ripresenta, e poi la certezza quando le stesse note della melodia, prima cinguettata da oboi e clarinetti, ora si traducono in parole nel canto di una voce bianca: l’uccello della foresta è diventato l’uccello profeta delle fiabe, e il giovane ascolta la prima profezia, enunciata come negli oracoli in terza persona: «Siegfried è ora padrone del tesoro dei nibelunghi»; se lo trovasse nella caverna, e si conquistasse elmo e anello, diverrebbe padrone del mondo; rivelazioni oscure per il giovane, ma chiara è l’azione da compiere mentre si addentra nella caverna.
13. Franz Stassen, Siegfried e il drago Fafner, 1914.
Il primo episodio dell’ultima scena dell’atto è messo lì come un intermezzo: all’espansività della musica di natura, prima di tornare alla musica delle profezie, Wagner ha voluto contrapporre la bassezza di un sinistro «grottesco», con il nero terzetto di clarinetto, clarinetto basso e fagotto che incespicano su quei disegni di note sfuggite, due a due, come nella pianistica Ridda di gnomi di Liszt: mentre Siegfried è nella caverna a fare l’inventario del tesoro, ruzzano in scena Mime e Alberich, sinistri coboldi che si azzannano come cani in un quadro di triste odio fraterno: «Fratello maledetto, furfante, spilorcio, cane rognoso»; parole smozzicate, intonazione approssimativa per tono e rapidità, mentre si rinfacciano a vicenda di non essere riusciti a trattenere l’oro. A un certo punto Mime ritorna al suo melodizzare ciondolante, quando ha l’idea di offrire al fratello l’anello, tenendo per sé l’elmo magico; miserevole astuzia rigettata da Alberich: «spartire con te? Neppure un chiodo ti devi prendere». Mime replica inviperito di volersi allora tener tutto e in più consegnare il fratello alla spada di Siegfried: all’apparire del quale s’intana nella foresta, mentre Alberich sparisce in un crepaccio.
Dopo quella musica tutta spasmi e perfidie, Siegfried esce dalla caverna mentre il suono raggiante di sei corni purifica l’atmosfera con i suoi periodi spianati che celebrano l’oro, così come splendeva quando ancora era blocco sicuro in fondo al Reno. Il giovane medita sugli eventi come trasognato e attonito: del tesoro si è preso solo l’elmo e l’anello, perché così gli è stato consigliato; ma a che gli servano non sa ancora; li terrà come ricordo del combattimento e di Fafner, anche se nemmeno costui gli ha insegnato la paura; e s’infila l’anello al dito. Riemerge il mormorio della foresta, come una sostanza che si era depositata al fondo di un bicchiere e torna a galleggiare dopo una scossa; dal fantasticare lo risveglia lo squillo di un nuovo «Hei!», il segnale argentino che prelude a un nuovo messaggio dell’Uccello del bosco: «spettano a Siegfried ora l’elmo e l’anello! Oh, ma non si fidi di Mime il bugiardo»; il sapore del sangue del drago lo farà capace d’intendere le vere intenzioni di Mime sotto le false parole.
Il qui pro quo fra pensiero e parola pronunciata è l’oggetto dell’episodio successivo: tipico incantesimo fiabesco, già provato da Hoffmann con i prodigiosi microscopi di Maestro Pulce che, collocati nella pupilla dell’occhio sinistro, rivelano i più intimi pensieri altrui sotto la coperta delle più benevole (e false) parole. Così Mime, dopo essersi avvicinato a Siegfried con servili piroette, gli spiattella senza volerlo tutti i suoi propositi, in particolare che l’ha nutrito solo perché uccidesse il drago, e ora che l’impresa è compiuta lo vuole addormentare con una pozione e tagliargli la testa per prendersi l’oro. A ogni frase di Mime, Siegfried fa eco con una domanda pleonastica: davvero fino a tanto mi odiavi? davvero mi vuoi uccidere? E Mime salta su ogni volta più stizzito: «Ma chi l’ha detto? cosa capisci?». Il gioco fa presto a produrre prevedibili e fastidiose lungaggini, con cui Wagner rischia di rovinare uno dei suoi momenti più compiuti. Finalmente, quando Mime si fa avanti per offrire la sua bevanda, Siegfried lo abbatte con un colpo di spada e lo seppellisce nella caverna col tesoro; e a tapparne l’entrata ci mette, trascinandola con fatica, la gigantesca carcassa del drago.
Compiute le sue fatiche più atletiche, mentre il sole è al suo picco, Siegfried comincia a sentir caldo e cerca frescura all’ombra del tiglio; nella vastità lontana del meriggio riaffiora il mite fremito della foresta e il ragazzo si stende cercando con lo sguardo l’Uccello del bosco, così prezioso di consigli. Eccolo lì su un ramo; ma che invidia vederlo frullare e giocolare assieme a fratelli e sorelle; l’invidia, certo già provata altre volte nella foresta, per quella gioiosa concordia di famiglia, per quello strofinarsi a vicenda; mentre lui è solo: non fratelli, non madre e padre, nemmeno conosciuti, unico convivente il nano ciabattone. Nasce così la preghiera all’uccelletto cortese di avere per sé un vero compagno; ha tanto cercato senza mai trovare, ma ora dal prezioso consigliere potrebbe avere l’aiuto che cerca: «canta dunque, io ascolto», incantevole frammento melodico a fior di labbra (partitura, p. 269), lontanissimo da uno stile teatrale, e tanto più pieno di attesa.
Sempre sulla stessa melodia giunge il nuovo vaticinio: «Ora che Siegfried si è liberato del nano maligno, vorrei parlargli di una donna mirabile: su alta rupe ella dorme, circondano fiamme la sua reggia: se egli attraversa la vampa, se egli desta la sposa, Brünnhilde allora sarà sua». L’eroe è già in piedi, e nell’entusiasmo avverte anche un bruciore nuovo, mai sentito prima, un tormento che è allo stesso tempo delizia, e non sapendo nulla del nuovo stato con ingenuità chiede cos’è questo sentimento confuso: richiesta non facile, da psicologo; ma l’uccello sapiente è all’altezza della situazione e risponde dalla stanza più intima della psiche romantica: «Lieto nel pianto (Lustig im Leid) canto l’amore; dolce nel dolore intreccio la canzone: solo chi desidera ne intende il senso!»; dotta spiegazione e ancora un poco oscura, ma decifrabile per gli eletti che nell’intreccio inseparabile di gioia e dolore sentono l’incendio del desiderio. Collocato alla fine dell’atto, l’episodio è forse il cuore di tutta la scena del bosco, oltreché limpida delucidazione dell’essenza del Lied romantico; in questi versi, dopo tanti manierismi e barocchismi, anche il Wagner poeta è toccato dalla vera poesia, complice la grande tradizione lirica europea, sotto l’ala petrarchesca di Progne e Filomena.
Ancora insicuro dell’impresa da compiere, il ragazzo chiede una nuova conferma: traverserà quel fuoco sull’alta rupe, ma saprà risvegliare la donna? L’Uccello del bosco canta l’ultimo vaticinio: non a un vile è riservata la sposa, ma «solo a colui che non conosce la paura!». È l’agnizione definitiva; al colmo della gioia Siegfried si riconosce: «Lo stupido giovane che non sa la paura, uccellino, eccolo qua, son io! Ho cercato invano d’impararla dal drago, ora brucio dalla voglia d’impararla da Brünnhilde!». E via verso la rupe, seguendo il volo dell’uccello mentre cala il sipario.