ATTO III

Scena I

Evocazione della dea Terra

Preludio agitato, dal ritmo galoppante, incupito dal peso massiccio dei bassi sul motivo di Wotan a cavallo, quando come una nuvola d’ira inseguiva Brünnhilde nel terzo atto della Walkiria. La tonalità è tutta in minore, salvo negli accordi di trombe e tromboni di Wotan Viandante: accordi sulla cui superficie sembra applicata una lamina d’oro, solidi e sacrali come le rune, simbolo del dio che viaggia e vede e ancora vuole sapere; proprio per questo, per conoscere, lo vediamo grandeggiare in questa scena: per quanto attiene al procedere della vicenda, una delle più importanti del Ring.

Ma, avanti tutto, è incredibile, ancora una volta, constatare la capacità di Wagner di resuscitare vecchi arnesi del teatro musicale dell’età pre-borghese: qui si tratta di una scena di evocazione ctonia, fra luci di tempesta e crepacci fumanti, di fronte a una caverna, luogo deputato a profezie e rivelazioni da una secolare tradizione. Arduo è l’impegno di Wotan: chiamare su dagli abissi notturni Wala, ovvero Erda, la Madre Terra, la coscienza delle cose, già comparsa di sua volontà alla fine dell’Oro del Reno, ma ora invocata da Wotan per aprire il segreto del futuro destino degli dei, e forse anche più per rivelare sé a se stesso. Il dio conosce le formule d’incantamento e il suo canto è irresistibile: «Onnisciente! Saggia primordiale del mondo! Erda! Donna eterna! O Wala! Svegliati!». Il ritmo rallenta, la caverna s’illumina di luce turchina, la dea emerge, coperti di brina i capelli e le vesti, al lento procedere di temi salienti, come quando il mondo si era formato dal Chaos. Erda appare ancora nei lacci del sonno, impigliata nei magici accordi lisztiani in cui si era addormentata Brünnhilde, e per tutta la scena resterà tramezzante fra il sonno e la veglia, valido schermo a eludere le domande del dio. «Chiama forte il canto. Chi a me scaccia il sopore?», chiede la dea, e nei divaricati intervalli della melodia c’è come l’eco del dolore fisico di essere strappata alla quiete del profondo.

Richieste deluse

Il dialogo che segue è pura mitologia: Wotan si presenta come un ulisside che viaggia instancabile per ottenere conoscenza, e ora ha di fronte la donna sapiente che nel suo sonno connette gli elementi del mondo, dagli abissi marini alle cime dei monti: «Sono io che chiamo e ti desto, per ottenere sapienza e consigli di arcana saggezza!». C’è nel dio, nella sua pretesa di sapere il futuro della schiatta divina, il vigore di una baldanza giovanile che contrasta con lo stato sonnambolico della dea; e dal contrasto fra il veemente richiedere dell’uno e il lento e nebbioso rispondere, o meglio evitare di rispondere dell’altra, s’innerva il mordente teatrale della scena, tutta percorsa dalle ieratiche sequenze del tema del divenire.

Erda, infatti, anzi che rispondere, spiega il meccanismo della macchina del mondo: il suo sonno è sogno, ma il suo sogno è pensiero, che le Norne, filando, traducono nella fune infinita degli accadimenti; e fa il primo tentativo di difendersi dal violatore girando la domanda – quale il destino dei luminosi – ad altri: «perché non interroghi le Norne?». Ma Wotan sa che queste non possono mutare nulla e accresce l’impeto della richiesta: solo un suo consiglio, di lei, la Madre primordiale, può mutare il corso delle eterne ruote. Erda, ancora fra i suoi vapori pitici, lascia cadere, e si avvolge negli accordi cromatici del sonno di Brünnnilde; ormai le azioni degli uomini annebbiano di crepuscolo il suo sapere, e per la seconda volta prova a passare il suo ruolo di sapiente ad altri: perché non interrogare la figlia che abbiamo generato insieme? Brünnhilde ardita e saggia, la cui figura viene esaltata dai solenni accordi del Walhalla.

L’allusione alla vergine Brünnhilde irrita a non dirsi Wotan e lo spinge a riassumere quanto già sappiamo; ma il pericolo della piattezza è evitato per lo sbalzo con cui la vecchia rogna, lo smacco della disubbidienza perpetrata dalla figlia adorata, si rimette a bruciare nel cuore del padre offeso; il quale, nel suo risentimento, si dilunga a raccontare a Erda, madre di Brünnhilde, tutto quello che era capitato; e la psicologia infallibile di Wagner fa in modo che il dio, mentre racconta, ostenti i propri epiteti, lui il «domatore di tempeste», il «guidatore di battaglie», il «padre della pugna», come per riacciuffare la sicurezza perduta con la disubbidienza della figlia.

La dea è sempre più confusa, non intende la reazione di Wotan e gli presenta lo specchio della sua scissione interiore, delle sue contraddizioni, la sua vera tragedia: come? chi ha insegnato la tracotanza punisce la ribelle? chi ha infiammato all’azione si adira dell’azione? Tutto si confonde, e Wala vorrebbe ridiscendere nell’abisso. Ma Wotan non la molla, non gli basta una diagnosi, vuole una terapia: lei gli ha iniettato l’apprensione della Fine annunciando il crepuscolo degli dei (scena IV dell’Oro del Reno), ha impacciato di angoscia il suo coraggio: ora deve tirarlo fuori, deve dirgli come vincere l’ansia che lo divora, rispondere infine alla domanda per cui l’ha svegliata dal suo sonno primordiale. Ma la Grande Madre ancora arretra, evita l’affondo e quasi gli si rivolta contro: «a che sei venuto, ostinato selvaggio, a turbare il sonno della Wala?».

Affondato il vecchio sapere

E qui, davanti a questa sordità, avviene la svolta capitale nell’animo di Wotan, che la significa alla dea con gesto da grande protagonista: «sai tu cosa voglio?», facendo seguire alla domanda il vuoto di una lunga pausa; e poi, dopo uno di quei ribaltamenti di piani armonici che sconvolgono l’ordine costituito (come nel secondo atto della Walkiria), si risponde da sé: «il tuo sapere, fonte di affanno, non mi serve più, la fine degli dei non più mi tormenta, perché sono io che la voglio». Wotan è arrivato a desiderare quella fine cui era predestinato, la sottrae al destino ineluttabile e se ne impossessa con un atto di orgogliosa volontà; non cerca più di allontanare il destino nemico, lo abbraccia in un impeto di amor fati, in una sorta di letizia per la catastrofe. Wotan rinuncia a preservare con ogni mezzo la schiatta degli dei celesti: basta con gli dei, la mia eredità la destino al giovane, un welsungo, che ha conquistato l’anello, libero da invidia e ignaro della paura, e che unito a Brünnhilde redimerà il mondo.

Così Wotan inabissa Erda e il suo contorno di affanni nel sonno eterno, sperando ancora una volta che il «giovanile eterno» possa aver ragione della maledizione dell’anello: utopia che coagula in una musica trionfale, con qualcosa dei Maestri cantori (ormai già composti), simbolo dell’eredità del mondo riservata a Siegfried e Brünnhilde risvegliata. È curioso vedere come Wotan, che era venuto per ricevere profezie sul suo destino, alla fine lui stesso profetizzi! In realtà, Wotan, nonostante la scenografia mitologica con cui ha voluto chiamare Erda a testimone, ha fatto domande a se stesso, meditato da solo, come già avvenuto nel secondo atto della Walkiria; ma questa volta, rivelatosi nel confronto con la Grande Madre, ha preso atto con una sorta di ebbrezza dello stato lacerato del suo Io: che agisce contro il suo ruolo, vuole cose impossibili da ottenere, fa cose che sono giuste in se stesse, ma ingiuste nell’ordine universale.

Wotan aveva già scoperto l’azione purificatrice della «fine» nel secondo atto della Walkiria; la simiglianza dei due passi in opere diverse e ormai lontane avvalora l’idea della relativa autonomia, se non indipendenza di ogni giornata all’interno della totalità del Ring; ma in se stesso questo confronto di Wotan con Erda resta avvincente per come Wagner vi esprime, anche sotto specie mitologica, la sua concezione tragica del mondo.

Scena II

Incontro

Appoggiato a una parete di roccia, Wotan osserva Siegfried che avanza a lesto passo seguendo il volo dell’Uccello del bosco. C’è una benefica leggerezza di tocco in questo avvicinarsi; le angosce della scena precedente, le caverne, le cosmogonie, i sonni confusi sono spazzati via dalla freschezza mattinale di una musica scintillante come la rugiada: sopra lo staccato e pianissimo di violini e viole, spiccano le note ribattute e leggere del corno, riprese come un allegro picchiettio del clarinetto: tutto è derivato dalla musica dell’uccellino e cesellato in uno stile di scherzo musicale.

Alla presenza dei corvi di Wotan, l’Uccello del bosco rapprende il volo, si cerca uno scampo e scompare dalla vista; ma non dal quadro sonoro, dove continua a occhieggiare di sfuggita e a introdurre nel dialogo che segue pause di campestre dolcezza. Siegfried, sorpreso nei suoi pensieri («L’uccelletto mi è volato via! Poco male, mi troverò da me la strada verso il monte»), si sente apostrofato da una voce: «Dove, ragazzo, ti spinge la tua strada?»; è Wotan Viandante, cui Siegfried, come sempre ignaro di cautele, subito spiattella tutto, magari sperando in un buon consiglio sulla via da percorrere: «cerco una rupe, è avvolta di fiamme guizzanti: là dorme una donna, che io voglio destare»; e altrettanto scoperto è nel rivelare la fonte di notizie così strabilianti: «ho saputo tutto dal canto di un uccellino del bosco», e un frullo di trilli sale dai violini incoronato dal flauto, come a mostrare l’allegra fierezza di essere entrato a far parte di tali segreti. «Tante ciarle, si sa, fa un uccellino; ma nessun uomo le comprende», fa notare il dio Viandante al suono di una musica nuova rispetto a quanto sentito finora, una musica prosastica che ricorda da vicino il tono di sicurezza un poco ottusa di Kurwenal, lo scudiero di Tristan; e continua a interrogare («Come hai potuto trarre il senso di quel canto?») il giovane, pronto a rispondere con le cose che sappiamo: il sangue del drago, le gocce sulla lingua, la comprensione del linguaggio degli uccelli; e il ricordo dei portenti ancora commuove la musica che li rievoca.

Padri e figli

Il senso di tutta la scena è nel confronto di due generazioni, matura vecchiezza e animosa gioventù. I due prendono a narrare note vicende, Siegfried con la freschezza che la musica dell’Uccello del bosco porta sempre con sé, il Viandante con lo staccato di accordi duri e inquisitivi: ci ritornano davanti Mime, il nano istigante, la ricerca della paura, la spada temprata, il duello mortale con il drago; non mancano battute da commedia, di mezzo carattere: «Ma i frammenti della spada da dove venivano?». «E che ne so? So soltanto che non me ne facevo nulla se non li saldavo da me». Al che Wotan scoppia a ridere di gusto, osservando il giovane con la compiacente quanto vana fierezza dei genitori. La risata non piace al ragazzo che alle corte chiede o l’indicazione della strada o il passo libero. Wotan rallenta i tempi, vuole pazienza e si appella alla riverenza dovuta ai vecchi; ma il ragazzo di vecchi ne ha avuto abbastanza con Mime, e ripete l’intimazione a sloggiare; poi, con la tipica villania dei giovani, si mette a dileggiare l’aspetto fisico dell’importuno, la foggia dell’abito, il cappellaccio, l’unico occhio, «l’altro te l’ha certo cavato qualcuno che hai tediato con le tue domande». Wotan cerca di parare i colpi con il tema del Viandante, con quello glorioso del Walhalla, s’imbroglia in una circonvoluta spiegazione dell’occhio perduto, e parlando di sé si risente e si gonfia di autorità.

Il dio tenta ancora di trattenere l’azione con i tempi della riflessione, accigliato nel fremito con cui comincia il tema del corruccio: «Se tu mi conoscessi, virgulto ardito», e del passato misterioso tocca anche la corda patetica, parlando all’ignaro ragazzo dell’amore nutrito per la sua stirpe welsunga. I vecchi infatti sono sentimentali, coltivano ideali, raccontano storie, rinvangano il passato, al contrario dei giovani che hanno fretta, sono pratici, conoscono solo il presente; e al ritmo incalzante dell’Uccello del bosco Siegfried insiste, nulla intende dei racconti, vuole la strada libera. Wotan passa allora al divieto: la rupe è inaccessibile, chi la supera mi toglierebbe il potere (sembra dimenticare che vi ha appena rinunciato, ma è come entrato nel ruolo dell’estrema difesa), e arriva all’ultima battuta: se non temi il fuoco, temi la runica lancia, che una volta ha già spezzato la spada che tieni in pugno. Fulminea agnizione! Siegfried capisce a metà, ma tanto gli basta: «Il nemico di mio padre! Ti trovo qui? Una magnifica occasione di vendetta m’è venuta incontro!!», e con un fendente gli manda la lancia in pezzi e si avvia dentro la nube di fuoco che dall’alto è scesa a invadere la scena. A Wotan non resta che raccattare i cocci e ritirarsi; il grande personaggio, eroe tragico e protagonista occulto della tetralogia, esce così dall’opera e come dramatis persona anche dall’intero ciclo del Ring.

Questa scena del terzo atto, come già accennato, è un po’ appesantita da tratti prosaici e prolissi: il pleonastico drammatico è tutto nel fatto che nella scena precedente Wotan aveva già rinunciato al potere a vantaggio di una nuova generazione: a che dunque farla tanto lunga sbarrando la strada a Siegfried? Forse, fra le insicurezze della sua natura contraddittoria, voleva la prova evidente, la lancia spezzata, conferma tangibile della perdita di potere. Comunque sia, Wagner ne approfitta per fare teatro con l’idea dello scontro fra padri e figli: il teatro rappresentato passa in seconda linea rispetto al tema morale.

Scena III

La scoperta della paura

Si apre un intermezzo sinfonico di transizione, composto alla maniera di un pot pourri operistico, ricapitolando i temi di Siegfried balzante fra le rupi, del fuoco, del sonno magico: pagina ammirevole non meno per la concisione che per il clangore e la fusione del tessuto; ma la meraviglia maggiore è poi il suo ritirarsi, la transizione fra strati diversi di condensazione dell’aria, il passaggio dalla densità sinfonica all’abbagliante acutezza dei violini soli, al senso di vuoto e solitudine del luogo eminente in cui il ragazzo si ritrova come d’incanto. Wagner insiste nel precisare che la scena che poco alla volta si delinea nella nuvolaglia è la medesima che concludeva l’ultimo atto della Walkiria: come là, Brünnhilde giace al suolo sotto l’abete, immersa nel sonno, protetta da elmo, scudo e corazza. L’evento spettacolare attesissimo è naturalmente il risveglio della vergine guerriera; ma l’opera non dimentica il tema della ricerca della paura, che infine il giovane ardito conoscerà fra poco per la prima volta di fronte alla natura femminile di Brünnhilde. A propiziare la nascita di nuovi sentimenti, Wagner estrae dai suoi inventari una melodia dolcissima proveniente dall’Oro del Reno, tema del vincolo d’amore, del tepore del focolare, che nel frattempo si è arricchita degli aromi del Tristano e Isotta. La delicatezza, la peritanza della situazione vedono l’orchestra, già sfoltita, ridursi al filo sonoro di un violino solo; il senso cuspidale della solitudine si riflette anche nell’orchestrazione.

Siegfried scorge per prima cosa il cavallo, ma più forte lo attrae il bagliore di un’armatura d’acciaio, alla quale si avvicina mentre dall’orchestra sale l’umanissima tristezza dell’addio di Wotan, l’antica ferita per la separazione dalla figlia adorata e punita che ora giace lì in attesa di tornare alla vita. Ma Siegfried nulla sa, crede di aver trovato un guerriero in armi e ne comincia la svestizione, con la stessa ritualità usata dalla cavalleria errante: via lo scudo, via gli schinieri, via l’elmo; ma da qui trabocca una chioma lucente, come quella di Clorinda nel passo famoso della Gerusalemme liberata; turbato, il giovane si china sulla figura bellissima, ne osserva il petto che respira a fatica, vuole liberarlo dalla corazza, ma l’emozione gli imbroglia le dita e, presa la spada, ne taglia i fermagli sollevando il ferro con delicatezza, fino a che vede Brünnhilde giacere davanti a lui in un leggero abito femminile. Letteralmente terrorizzato, il massacratore di draghi e di nani ritorna lo sciocco della fiaba, più che mai goffamente emotivo: «Non è un uomo! Incanto ardente mi palpita nel cuore». Subbuglio in orchestra, musica del fuoco e della vertigine, e a difendersi dall’incendio, cioè dalla paura schietta, Siegfried chiama in soccorso per due volte la mamma: è il passo per cui Thomas Mann ha parlato di «complesso materno, affiorante dal subcosciente, misto di sessualità e di angoscia» (Mann 1956, p. 449).

Ritorno alla vita

Spalancata la porta della paura, Siegfried non si accontenta dell’immobile bellezza di un idolo, vuole che viva e apra gli occhi. Ma all’idea dello sguardo è preso da una curiosa paura. Curiosa perché qui il giovane rozzo si mostra edotto del topos di una squisita tradizione poetica: quello dell’amante che non è abbastanza forte, come il cantore di Laura, «ad aspectar la luce» dell’occhio dell’amata, che teme il «chiaro lampo che strugge»; e quindi dubita e trema fra impulsi, effeminazioni e intenerimenti: «O madre! Madre! L’ardito tuo figlio! Nel sonno riposa una donna! E lei gli ha insegnato la paura!», mentre dolcissimo dai violini scende planando il tema di Brünnhilde addormentata. Siegfried intuisce che per riprendersi, per ritrovare la sua identità confusa dalla scoperta dell’ignoto, deve svegliare la donna; poiché i richiami, anche veementi, sono inutili, l’istinto, o forse l’esperienza appresa nella vita del bosco, gli dice altra via: trarre vita come un’ape dal fiore, baciandola sulle labbra; e con una decisione che sottende il panico («dovessi anche perdermi e morire!») si china al trepido bacio, fino a quando lei apre gli occhi e si leva lentamente a sedere.

Lenta è l’azione del magico risveglio, annunciato da iniziatici accordi di legni e ottoni e dagli avvolgimenti delle arpe che gocciolando si arrampicano sul registro più acuto; separati da lunghe pause, gli accordi severi si ripetono tre volte, come in ogni cerimonia rituale, e triplice è pure il saluto al giorno della walkiria rediviva. Uscendo dal sonno chiede chi è l’eroe che l’ha destata: il ragazzo fa il proprio nome, e precipitoso come avviene nella timidezza enumera le azioni compiute. Ma l’interesse della donna non va subito al giovane, che per ora è soltanto un oggetto del mondo esterno che lei saluta; quando lo percepisce come «il risvegliatore», la musica sbocca in un episodio di duetto gioioso da opera italiana, spinto fino ai luoghi obbligati di trilli e cadenze e allo scambio dei pronomi come nei più tradizionali libretti, per Wagner una eccezione assoluta; lui: «Saluto la madre che mi creò»; lei: «Saluto la madre che ti creò», e simili. Questa momentanea deroga al rigore del dramma musicale viene di solito spiegata col fatto che il testo poetico del Sigfrido, come quello del Crepuscolo degli dei, risale a un’epoca lontana, in cui i tratti del dramma musicale non erano ancora del tutto maturi; tuttavia Wagner ha poi musicato il duetto senza «modernizzarlo», come fosse una scelta che ormai poteva concedersi, non senza un tratto di parodica ironia.

Conclusa la breve combustione in un trionfo di Do maggiore, Wagner rientra nel suo ambiente, quello del tempo passato, della memoria; anche se qui il passato dà luogo a equivoci quanto mai oscuri per Siegfried: «Te tenero nutrii, prima che tu esistessi; prima che tu nascessi, ti difese il mio scudo». «Mia madre non è morta? La dolce dormiva soltanto?», è la chimerica conclusione del giovane. «Bimbo gentile, a te più non torna tua madre. Il tuo tu sono io, beata se tu mi ami». In tale promiscuità pronominale si completa l’epos famigliare che percorre l’opera, con l’immagine della moglie-madre; l’equivoco è dissipato, ma una dolcezza materna resta in sospensione, la dolcezza del sentimento amoroso nel suo sbocciare. Limpido è il canto, ma oscuro il senso nella mente del ragazzo che resta imbambolato e confuso nelle nebbie dell’antefatto; attribuisce il suo non capire al turbamento dell’incontro e chiede alla donna di rendergli quel coraggio che gli ha sottratto, per dare sfogo a quell’ignoto struggimento che l’esperienza della paura gli ha procurato.

14. Charles Ernest Butler, Siegfried e Brünnhilde (particolare), 1909.

14. Charles Ernest Butler, Siegfried e Brünnhilde (particolare), 1909.

Resipiscenze, timori

Wagner sente avvicinarsi un lieto fine, del tutto alieno a lui, e prende le sue misure per differirlo, o almeno chiaroscurarlo con un dissidio, un punto da sciogliere, laddove un altro operista si sarebbe affrettato ad abbassare il sipario. E il punto è questo: Brünnhilde si sente riprendere, scivolando all’indietro, in una uranica malinconia, mentre dà uno sguardo al suo cavallo, alla corazza tagliata, all’inutile elmo; si era addormentata sognando di essere svegliata da un eroe, ma ora, di fronte all’eroe presente in carne e ossa (che poi, se ci pensiamo, non ha merito di essere senza paura, non avendola mai conosciuta), di fronte all’uomo cui deve piegarsi nella soggezione matrimoniale, è presa da un moto di ripugnanza.

A questo punto dell’opera, la resipiscenza di Brünnhilde che rimpiange il vecchio status di vergine guerriera non ha più molto mordente; ma a dargliene uno soccorre Wagner musicista puro, con la sua incredibile capacità di dare esistenza sonora anche a oggetti inanimati, come le armi commiserate, di sbalzare in plastici frammenti il passato eroico di chi sedeva a mensa nel Walhalla e gli eroi reverenti s’inchinavano a lei. Ora Brünnhilde paventa la perdita di identità, oppressa da Schmach («onta») e Angst («angoscia»); e forse, ancor più, la perdita della sua castità verginale, come la dea arciera della mitologia classica inseguita dal dio. Ma c’è qualcosa di più segreto ancora che fa resistenza: è come se i due vivessero in due tempi differenti che non possono accordarsi fra loro; la donna (è lecito immaginarla più agée del giovane che ha varcato le fiamme) ha vissuto un passato, e il ricordo di questo passato ora si ripresenta gettando ombre sul futuro; e poi, oltre ad avergli insegnato la paura, gli ha pure risolto, almeno per sommi capi, l’altro assillo, l’enigma di chi l’abbia generato. Lui al contrario è puro presente, e tutte le sue esaltazioni non hanno altra estensione che quella del tempo presente; dovrà dunque fare in modo che il suo tempo possa ingranarsi in quello di Brünnhilde.

Nuovo risveglio

Siegfried incomincia così la sua opera di persuasione, e abbraccia la donna che salta via come una tigre e si straccia le vesti al triplice grido «Weh!» («Guai!»): «Nessun dio mi si è accostato mai! alla vergine s’inchinavano timidi gli eroi: ella pura abbandonò il Walhalla… mi ha ferita colui che mi ha destata!… Brünnhilde non sono più!».

Qui il duetto ruota sul suo perno espressivo: Siegfried lascia perdere la veemenza e intuisce che deve svegliare di nuovo Brünnhilde, e tale convinzione, nelle parole «ma per me sei ancora la vergine sognante», viene avvalorata, in un estatico abrégé, da un episodio gemello alla «notte d’amore» del Tristano. Brünnhilde sente allontanarsi la sua celeste sicurezza e quasi vorrebbe tornare nella notte del sonno; pur avendo deposto la collera, resiste ancora quando negli archi incomincia quella musica mansueta, divenuta celebre come «Idillio di Siegfried», al suono della quale il viso di Brünnhilde, si legge, dovrebbe tradire l’affacciarsi nell’animo di una immagine gentile, dopo la quale ella con dolcezza riporta su Siegfried il suo sguardo. La fama del pezzo sinfonico ha un po’ confuso il senso della pagina nel suo contesto, che non è tanto quello di un «idillio», ma di una preghiera; la preghiera appunto di Brünnhilde di essere preservata in quella «immagine gentile» testè apparsa, quella di una vita a due in una frigida Arcadia, dove lei continui a essere dea, o donna inaccessibile alla sua distruzione, cioè all’annullamento dei due in uno: l’abire in corpus corpore toto di Lucrezio, il caro una sanguis unus cristiano. E a difenderla da ogni profanazione è eletto proprio lui, Siegfried! Ma intanto questa preghiera, mentre supplica discrezione e distacco, produce a sua insaputa un intenerimento, nel cui intimo cerchio i tempi diversi dei due cominciano a «contemperarsi».

Cedendo infine all’abbraccio, Brünnhilde fa sentire ancora la sua natura di walkiria, e il focoso tema della cavalcata torna ad agitarsi davanti a Siegfried, che ormai avendo imparato la paura l’ha anche dimenticata; in buon punto, volante e leggera, riaffiora la musica dell’Uccello del bosco a dare l’ultima spinta per imboccare la conclusione. La chiarità del Do maggiore e lo spessore contrappuntistico non nascondono l’origine nei Maestri cantori, mentre un ultimo tema del corno (Vivo, ma energico senza affrettare) sembra una variante della «Canzone allegra del pastore» nel terzo atto di Tristano e Isotta: impronte immancabili delle esperienze intervenute dopo la lunga interruzione al secondo atto. Nella beatitudine canora i due non solo si rispondono a brevi frasi simmetriche, ma si sovrappongono, e in certi brevi passi, caso unico nel Ring, procedono paralleli per seste e per terze, a significare un solo e medesimo volere. A scongiurare il pericolo pompier, Wagner taglia corto, in una pagina molto più breve del percorso per raggiungerla; Brünnhilde si è svegliata due volte, la prima da un sonno mitologico, la seconda da un sonno psichico; e nei suoi versi finali evoca e celebra il «crepuscolo degli dei», la libertà dai vincoli delle vecchie leggi divine: «Scompari, mondo splendente del Walhalla! annienta in polvere la superba tua rocca!… Spezzate, Norne, il filo delle rune! Sorgi, tramonto degli dei! Annientamento espandi la tua notte! Me ormai rischiara l’astro di Siegfried!». Sotto la primavera d’amore, parole gravi, che inducono lo spettatore, non senza inquietudine, a distogliere il pensiero dall’immagine della coppia felice, mentre la musica procede indifferente verso il suo ultimo trionfo.