Preludio e scena delle Norne

Nel preludio (lento e misurato) il legame con la giornata precedente, secondo l’abitudine di Wagner, è annodato alla coppia di accordi magici, forte-piano, che avevano segnato il risveglio di Brünnhilde nell’ultima scena del Sigfrido; anche qui gli accordi si presentano tre volte: ma sotto la figura identica, le tinte sono patinate dalla sonorità delle tube, abbassate di mezzo tono, da Do a Do bemolle, e nel suono tagliente di quelle triadi c’è qualcosa di stridente, come un lamento lontano; rispetto alla scena del risveglio, mancano l’arpa e il flauto, e non c’è il raggio di luce del trillo sovracuto dei violini. A collegare fra loro gli accordi, invece delle arpe, provvedono i violoncelli con il tema del divenire, come nel preludio dell’Oro del Reno, con l’origine del mondo e l’onda immemoriale del riflusso; la terza enunciazione della triade è prescritta in fortissimo, come il bruciore di una lacerazione, dopo la quale i ricordi del Sigfrido si ritirano e la musica va nell’indistinto, nel farsi e disfarsi di figure che negli archi con sordina velano la compattezza armonica di minute sottigliezze: come in molti «Pezzi per piano» del Brahms degli ultimi anni, anch’essi immersi in una luce di crepuscolo senza dei. Il valore della pagina, come pezzo musicale assoluto, è del resto confermato da Wagner quando in un concerto a Vienna del 1875 la fece eseguire per sola orchestra senza voci.

15. Franz Stassen, Le Norne, 1914.

15. Franz Stassen, Le Norne, 1914.

La «scena delle Norne» è come una prefazione, un saggio introduttivo all’opera, «saggio» nel senso che Wagner vi allude ad argomenti noti al lettore, li commenta, li riordina anche con quel tanto di erudizione che si mette in un saggio, con richiami e note marginali. Il sipario si alza sulla stessa scena della fine di Sigfrido; ma la scenografia ha poca importanza, perché qui siamo in argomenti di pura mitologia, per definizione disponibile a tutto. S’intravedono i resti del fuoco che proteggeva Brünnhilde; le fiamme formidabili sono diventate un focherello, forse fatuo; la più sottile delle variazioni ha trasformato il saltellare del tema del fuoco in un calmo palpebrare cromatico dei quattro clarinetti, nastro indifferente di accordi come in Nuages di Debussy, dove il vitalismo del fuoco è diventato incertezza, crepuscolo. In scena le tre Norne, le filatrici nordiche del destino, come severi angeli neri a vigilare la stanza nuziale di Siegfried e Brünnhilde; la tinta fa pensare alle quattro donne grigie alla fine del Faust II, visione da quadro espressionista, tipo le «Parche inquietanti», che avrà anche una derivazione italiana nella Fiaccola sotto il moggio (1905) di D’Annunzio: quando nella casa dei Sangro, dove «tutto è vetusto, […] corroso, […] condannato a perire», Donna Aldegrina, Benedetta e Annabella torcono il fuso, attente che non si rompa il filo.

Le Norne filano gli avvenimenti sognati dalla Madre Terra, ma talvolta le dita divine sono meno leste del vorticare dei fili, dell’incalzare degli eventi, e allora il canto diventa oscuro: è la materia di questa scena introduttiva alla Götterdämmerung, dove il genio di Wagner trasforma la monotonia mitologica in attualità teatrale insinuando nel cuore delle sorelle un’angoscia affatto umana, appena intenerita dal ritornello di una strana ninna nanna («canta sorella, a te getto la fune»); le tre dee dipanano sul fuso accadimenti sconosciuti del passato, o ripetizioni destinate a suggerire nuove verità, oppure fatti ancora da succedere, sempre con lo stesso tono, perché i tempi vanno in varie direzioni, indeterminati, confusi: un rifluire dal passato al presente e da questo a quello, dimensione costantemente in atto nell’ultima giornata dell’Anello del Nibelungo, precorrendo aspetti fra i più nuovi della narrativa del Novecento.

Inquieto compendio

Le tre Norne ripetono la distribuzione delle tre figlie del Reno (due soprani, un contralto), la voce più bassa staziona fra le note più scure, la terza Norna, la più giovane, è un soprano acuto e si slancia su ardite altezze (fino a Si bemolle). «Perché non filiamo cantando?», dice una di loro con una solennità sacerdotale: ma non sapendo dove annodare il filo, la più anziana si adatta a legare la fune a un ramo dell’abete e incomincia a rievocare il tempo felice, quando tessevano vicino a una fonte, collegate al frassino del mondo, e cantavano il celeste sapere in un paesaggio da innocenza primordiale. Un giorno, un dio intrepido, Wotan, viene alla fontana per dissetarsi, dona uno dei suoi occhi in tributo di saggezza, spezza un ramo dal frassino, asse dell’universo, e se ne fa una lancia, simbolo e strumento di potere assoluto: e le cadenze finali tese su ampi intervalli, seste maggiori, ottave, atteggiano Wotan come inebriato della sua potenza. Ma il distacco di un particolare, come il furto dell’oro dal fondo del Reno, è colpa immedicabile, infrazione all’unità innocente, e il bosco incomincia a inaridire e il frassino amputato a morire.

«Sai come andrà?», chiede la Norna lanciando la fune alla sorella, e la domanda («weißt du, wie das wird?») riporta in primo piano la funerea melodia di Brünnhilde messaggera di morte a Siegmund in una scena capitale della Walkiria; legato alla meglio il filo a uno spuntone di roccia, la seconda Norna canta i segni runici incisi sulla lancia dal dio, garanzia di patti e regole sociali; ma un eroe fuori da ogni legge ha spezzato la lancia, e allora Wotan, incarnatosi nella volontà della Fine, ha chiamato gli eroi del Walhalla a proseguire la distruzione della pianta primordiale, facendone cataste di legna da ardere. Di nuovo, come una formula magica, riappare l’ambasceria di morte apparsa a Siegmund («Sai tu come andrà?»). Ora il canto della terza Norna non rievoca più, ma vede ormai nel futuro e descrive gli dei immobili in assemblea: «ecco, la fine degli eterni albeggia», gli accordi compatti del Walhalla si sgretolano e si rifugiano in pianissimo nell’interrogativo del tema del destino, con la lugubre sonorità delle tube. La Norna rilancia la fune alla sorella, ma la narrazione si fa inquieta, i fili si arruffano; come un incubo ritornano nella successione dei fatti l’oro rubato e l’anello maledetto, ormai saturo di segreti e di influssi; troppo tesa d’interrogazioni, la fune, intaccata dall’attrito delle selci taglienti, si spezza nelle mani della sorella più giovane mentre irrompe il corno di Siegfried cacciatore, lo sfregiatore delle rune, il sovvertitore dei patti. Prese dal terrore, le tre sorelle annunciano la «fine dell’eterno sapere» cantando all’unisono come negli oracoli; quindi si legano fra loro con i resti della fune e s’inabissano giù, a ricongiungersi con la grande Madre Terra.

Addio al cavaliere errante

Scomparse le Norne, è una frase dei violoncelli, incerta nei suoi meandri, a delineare l’orizzonte da cui sta per nascere l’alba; dai densi accordi di tre corni spunta il tema eroico di Siegfried: la tonalità è maggiore, eppure il risultato timbrico è opaco, come gravato da un destino minaccioso, secondo una tipica situazione espressiva del Crepuscolo, dove il vecchio, nel momento in cui resuscita, suona con significati nuovi e diversi. Dopo la fanfara dei corni, mentre avanza la luce del giorno, dolcissimo, un clarinetto dipinge la maturità amorosa di Brünnhilde: sarà fino alla fine la sua cifra smagliante, un gruppetto slanciato all’acuto, epitome melodica del fervore lirico.

Dopo i loro temi, Siegfried e Brünnhilde escono in carne e ossa dalla stanza scavata nella roccia; nella luce del pieno giorno la musica trabocca trionfale, come nel finale dell’opera precedente, ma con qualcosa di più massiccio nella corazza degli ottoni; anzi, è sensazione comune che all’apparire i due sposi, esercitati nel godimento del loro amore nuziale, sembrino un poco ingrassati rispetto ai tempi del Sigfrido. L’argomento del duetto è un addio: Siegfried non può stare senza muoversi, viaggiare e compiere imprese, come un eroe della cavalleria errante; è una figura letteraria, non un personaggio, così come Brünnhilde che dice di amarlo troppo per non lasciarlo partire; si rammarica soltanto di non avergli insegnato abbastanza, alludendo a un sapere mitologico di rune, mentre Siegfried assicura, con enfatiche ricadute melodiche, di aver imparato la cosa più importante, «ricordare Brünnhilde!», la memoria di lei come viatico sul punto di andare via: ma c’è una punta di malignità nel fargli dire così, perché proprio la dimenticanza di Brünnhilde sarà la molla dell’asse tragico della storia.

Nell’addio i ricordi si esaltano, mentre il «gruppetto lirico» di Brünnhilde, suo alter ego sonoro, si schiude ogni volta promettente in tonalità sempre nuove; la coppia si racconta il proprio passato felice, e in pegno di fedeltà, ignaro della maledizione che porta, Siegfried si toglie l’anello e lo consegna a Brünnhilde che come in estasi se lo infila al dito; lei ricambia il dono con Grane, non più fulmine nei venti, ma sempre un buon cavallo che lo condurrà a compiere buone azioni nel mondo per conto di lei, sua Dulcinea, secondo i principi della cavalleria girondolona. Al lirico fervore, la musica aggiunge la nota eroica, con i vari temi di Siegfried alternati alla «Cavalcata delle walkirie», e nell’ultima pagina, tripudio di tonalità maggiori, soprano e tenore fanno combaciare le loro voci come in un duetto d’opera all’italiana, con simmetrie, cadenze e acuto finale: tutto in pochi tratti, come l’impiego distaccato di un utensile teatrale di sicuro effetto. Dopo gli ultimi replicati «Heil!», lui scompare mentre lei lo segue con lo sguardo giù nella valle.

Sul calare del sipario s’innesta impetuoso un intermezzo sinfonico, famoso anche come pezzo staccato da concerto, «Il viaggio di Siegfried sul Reno»: dove l’avventuroso viaggiare e l’amor di terra lontana della poesia romanza si fondono in una sintesi sinfonica che riempie il tempo del girovagare di Siegfried per boschi e luoghi d’acque fino a saldarsi con il primo atto. L’intermezzo è anche racconto: infatti si rispondono gli squilli del corno di Siegfried e il tema del maturo, vigile amore di Brünnhilde, mentre la mobilità del fuoco ci dice che Siegfried lo riattraversa scendendo dalla rupe; ma tutti questi spunti sono ripensati e variati in un passo ritmico spensierato e rallegrante, con la timbrica alleggerita dai pizzicati: che bello viaggiare all’aria libera! Andarsene per il mondo a belle imprese! E scoprire nella frescura l’incanto delle acque del Reno, con le ondine che ritornano a tuffarsi e giocare come al principio della tetralogia; non fosse, a segnarne le ferite trascorse, la malinconia instillata da brevi tocchi di tonalità minori, piccole macchie di dolore nella pienezza naturale del fluire.