ATTO I

Scena I

Matrimoni combinati e tresca frodolenta

Era dal Lohengrin che Wagner non rappresentava più una corte terrena: l’ingrediente più adatto è anche il più convenzionale, il ritmo puntato di tradizione francese e barocca; ma non si può non accorgersi che gli stessi ritmi muovevano a festa i raduni cittadini nei Maestri cantori di Norimberga. Siamo alla corte dei ghibicunghi, discendenti di Ghibic, dove è re Gunther; accanto stanno la sorella Gutrune, e, in secondo piano, il fratellastro Hagen, nato dalla madre Grimhilde sforzata dal nibelungo Alberich con moneta sonante: tre figure spente, senza legami affettivi né fra loro né col mondo esterno.

Gli argomenti discussi dai due uomini sono nel più schietto genere della fiaba (tipo: «son io la più bella del reame?»); Gunther infatti chiede a Hagen se lui, Gunther il re, siede sul trono come immagine di felicità e gloria per il mondo; da complimenti e ruffianerie varie, si capisce che Gunther è discendente e re legittimo, mentre Hagen, di sangue impuro, ha ereditato in compenso la saggezza, virtù che in regime di decadenza si confonde con la furfanteria. Sotto la funzione di custode delle tradizioni feudali, Hagen è in sostanza l’eminenza grigia della corte, e a Gunther, per soddisfare le sue ambizioni, dice che gli manca una donna, una sposa, come uno sposo manca a Gutrune: la prosapia dei ghibicunghi è priva di eredi e rischia l’estinzione. La soluzione di Hagen è senza alternative e punta al traguardo massimo: la donna e l’uomo più gloriosi del mondo, Brünnhilde e Siegfried; ecco con chi dovranno unirsi gli eredi dei ghibicunghi.

La musica esce dai metri del recitativo e dopo quello delle Norne prepara un nuovo racconto: è Hagen l’oggettivo narratore, mentre i fratelli Gunther e Gutrune ascoltano a bocca aperta le storie leggendarie di Brünnhilde, che è su una rupe circondata dal fuoco, e di Siegfried, l’unico che avrebbe il coraggio di arrivarci; e quasi spiace che questi fatti, e anche intime verità del sentimento, come l’amore puro di Siegmund e Sieglinde, vadano per la bocca empia di Hagen; ma Wagner ci risarcisce con l’inaudita potenza definitoria dei suoi temi, rigenerati a nuove situazioni drammatiche: è ormai fuori luogo parlare di «citazioni» quando un tema ritorna, laddove si tratta ormai di spunti, materiali da elaborare per invenzioni di musica pura.

Per impossessarsi dell’anello, unica cosa che lo interessa, Hagen ha congegnato un piano che prevede un Siegfried, soggiogato dall’amore per Gutrune, condurre Brünnhilde sposa a Gunther. Gutrune, mite figura dallo sguardo velato di malinconia e di tedio, è incredula, non si sente all’altezza: Siegfried avrà avuto ai suoi piedi donne di ben altro fascino; e inconfessate, ignote gioie per un attimo sembrano attraversare la sua fantasia di piccola borghese. Ma Hagen ha già la soluzione: un filtro, preparato dalla sua sapienza chimica, farà scordare all’eroe ogni altra donna mai conosciuta. L’allusione al filtro, e poi alle metamorfosi prodotte dall’elmo magico, intorbida la musica, la conduce in una sfera fantomatica, onirica, di lenticolare sottigliezza: prima vibrazione del tema dello straniamento, della perdita d’identità, centrale per il seguito del Crepuscolo. I due fratelli, deboli e vanitosi, sono subito conquistati dall’idea di sposarsi a livelli principeschi; non resta che rintracciare Siegfried, ma qui la sorte amica ai malvagi aiuta: il corno, con il richiamo di caccia, segnala che l’eroe in persona sta arrivando puntuale alla corte del figlio di Ghibic.

Scena II

Eroe in trappola

Le manovre e l’approdo del vascello di Siegfried sono descritte da Hagen che osserva da un’altura; zelante e ligio alle forme, dà il benvenuto all’ospite con ripetuti «Salve (Heil) Siegfried, eroe diletto», ma l’orchestra, gravida di tragedia, su un formidabile rullo di timpani e con i tromboni unisoni, «a tre», sul tema della maledizione, dice a tutte lettere che l’eroe è caduto nella pania, ha messo il piede nella palude più pestifera.

Convenevoli, saluti e offerta di doni secondo gli usi della cavalleria vengono sbrigati alla meglio (ma in mezzo al recitativo restano prese cose curiose: Hagen, ad esempio, canta «Ich biet’ ihm Rast», «Al cavallo bado io», sullo stesso arpeggio di «Io sono un re» nella Passione secondo Giovanni di Bach). Mentre Gunther gli mette a disposizione tutti i suoi beni, Siegfried dichiara di non avere nulla con cui ricambiare; ma Hagen s’intromette: la voce di un tesoro conquistato da Siegfried è corsa fin lì lungo il Reno e il tema martellato dei nibelunghi al lavoro si adatta perfettamente al minuzioso interrogare. Il tesoro? «Quasi me ne scordavo», risponde Siegfried, che dice di averne tolto solo una reticella d’acciaio, di cui peraltro ignora l’uso, e un anello, lasciato in pegno di fedeltà alla più meravigliosa delle donne. È quello che Hagen voleva sapere; ma, prima, con quale voluttà il fabbricatore d’inganni illustra le virtù dell’elmo magico, aggirandosi fra il mistero di quegli accordi calmi e sinistri. Dalle mani di Gutrune, l’eroe affatturato prende la coppa con dentro il filtro della dimenticanza e beve pensando fra sé a Brünnhilde, «il primo sorso per l’amore vero, a te, Brünnhilde, dedico!»: è l’ultimo atto cosciente di Siegfried, con i temi del duetto finale della giornata precedente che si intimizzano, fra voce e clarinetto, con meravigliosa capacità di far riaffiorare il passato; è anche il suo addio a Brünnhilde, ormai smarrita per la sua coscienza annebbiata.

Bevuta una lenta sorsata, l’effetto si vede subito; Wagner, il «maestro della minima transizione», qui in poche battute ci consegna un Siegfried acceso da amore fulmineo per Gutrune. Ma l’artificio del filtro, come osserva Dahlhaus, lungi dall’essere un banale espediente teatrale è solo il simbolo di qualcosa che si è già verificato: e cioè il totale appartenere di Siegfried al presente, all’istinto, condizione necessaria per tagliare i nodi inestricabili dei patti (Dahlhaus 1984, p. 107).

Doppio matrimonio con scambio di sembiante

Alle spicce Siegfried chiede a Gunther se ha una sua donna: l’unica che vorrebbe è irraggiungibile; risposta che fa scattare l’impazienza dell’eroe, al coraggio del quale tutto è possibile. E qui si schiude un frammento straordinario fra il leggero crepitare della musica del fuoco, con Gunther che descrive lo stato insuperabile della donna e le condizioni per raggiungerla – su un’alta rupe, la sala circondata dalle fiamme, solo chi passa quel fuoco l’avrà – e Siegfried che, magato dal filtro, per tre volte ne ripete alla lettera le parole come in trance, nella nebbia di un ricordo che preme alle pareti della coscienza senza riuscire ad aprirsi una strada per arrivarci. Quando si riscuote, Siegfried propone il patto del doppio matrimonio, seguendo senza saperlo il disegno di Hagen; io, dice Siegfried, tuo vassallo, metto la mia spada al tuo servizio e conquisto per te la donna sulla rupe: in compenso avrò in sposa Gutrune. E perché la donna lassù sappia bene chi sarà suo marito, Siegfried prenderà l’aspetto di Gunther servendosi dell’elmo magico: scambio di sembiante in puro stile fiabesco, come Odette-Odile nel Lago dei cigni di Čajkovskij.

Secondo i rituali tratti dai poemi dell’Edda, i due uomini sigillano l’accordo con una fratellanza di sangue; il tema dei patti di Wotan va bene anche per questo patto d’inganni, e il duetto di giuramento segue i moduli più corrivi della simmetria operistica: unico segnale di malvagità, l’intervallo di quinta diminuita (diabulus in musica) che rimbomba, oscura minaccia, alle tube. Siegfried espone e precisa ancora una ritualità cavalleresca un po’ stravagante, ma d’importanza capitale per la vicenda: solo Siegfried salirà alla rupe, Gunther attenderà la notte nel vascello; la mattina dopo, quando Siegfried gli avrà portato Brünnhilde, lui potrà prenderla con sé come sposa.

Canto di guardia

Hagen, tenutosi in disparte con il pretesto che il suo sangue impuro avrebbe contaminato il giuramento, è incaricato da Gunther di vigilare sulla corte in sua assenza; il suo «canto di guardia» è una celebrazione di energie infernali, un capolavoro di «arte dell’anima brutta», come direbbe Nietzsche (Umano, troppo umano, aforisma 152), dominato da tre idee musicali amalgamate: il ritmo sincopato (archi con sordina), ansimo di inquietudine malgrado la spaventevole fissità della figura, con lancia e scudo sulla soglia della reggia; il salto di quinta diminuita delle tube, brutale come un fendente, seguito dal tema di caccia di Siegfried, ma ormai straniato nelle armonie come il suo titolare; infine, ai legni (flauti, oboi, corno inglese e fagotto), pungente come una trafittura, smarrito come un lamento, l’accordo-appoggiatura di ottava diminuita (Fa bemolle acuto contro il Mi bemolle dei bassi), un tempo tema del gioioso saluto delle tre ninfe all’oro del Reno. Il canto di Hagen, mentre guarda i due che si allontanano veleggiando, potrebbe sembrare un augurio, un «soave sia il vento» mozartiano ironizzato al negativo; e dove si addolcisce può addirittura far pensare a un moto di invidia per una felicità a lui negata; in realtà, oltre a perseguire la volontà del padre Alberich – tornare in possesso dell’anello – in Hagen è la gioia per i mali altrui, la rovina di chi è felice, osservata con lucida chiaroveggenza: Siegfried «sul Reno porta a Gunther la propria sposa, ma a me porta l’anello!».

Quando Hagen svanisce, il lamento dell’accordo-appoggiatura e i tonfi al basso di quinta diminuita continuano a colmare la durata di un secondo intermezzo mentre scende un velo per cambiare la scena; con suprema arte di transizione sinfonica, la musica di intrighi e macchinazioni poco alla volta è attirata nella sfera di Brünnhilde e si spiana in una successione di dolci memorie.

Scena III

Visita inattesa

Di nuovo il luogo dell’incantesimo del fuoco, dell’unione di Siegfried e Brünnhilde, luogo di una scena umana, di passioni dirette che esplodono immediate, dopo le mascherature e i sotterfugi degli episodi precedenti. Brünnhilde, seduta fuori dall’antro roccioso, dà segno di essere immersa in pensieri felici, in serene rimembranze, mentre contempla e bacia l’anello, simbolo, ricordo e pegno dell’amore del suo Siegfried, ora in terra lontana per le sue imprese. Un rombo la distrae dalla contemplazione interiore, tende l’orecchio, scruta, un sibilo confuso le ricorda qualcosa di conosciuto: un cavallo si avvicina ad ali tese nel vento di tempesta, un grido lontano, «Brünnhilde! Sorella!», la fa balzare in piedi.

È la voce di Waltraute, una delle walkirie; non si dice la gioia di Brünnhilde, chiamata fuori dalla sua solitudine, che assilla la sorella di domande senza accorgersi del suo turbamento: realistico è il suo desiderio di raccontare di sé, la punizione, il sonno, il fuoco per tenere lontani i codardi, e poi l’ansia di avere notizie del suo vecchio mondo: «per me hai osato disubbidire al padre? O il padre è mutato? Ma sì, già lo so che è cambiato, altrimenti non mi avrebbe fatto svegliare dal più fulgido degli eroi; sei venuta a dividere la mia gioia? o che altro, ma su! parla!», senza rendersi conto che è lei con la sua foga a tapparle la bocca. Quando Waltraute può finalmente parlare, «Ben altro mi ha mosso in angoscia a infrangere il divieto di Wotan», ancora qualche sussulto, qualche ipotesi avanzata da Brünnhilde, che poi ammutolisce davanti a Waltraute e all’avvertimento consueto di ogni racconto operistico: «ascolta attenta quanto ti narro»; ancora una volta Wagner resuscita a una nuova vita psicologica un luogo teatrale della tradizione più classica, il «racconto della messaggera».

Il padre Wotan

Il racconto di Waltraute è la rappresentazione della fine degli dei anticipata dall’angoscia; convivono assieme sfacelo ineluttabile e monumentalità, effigiati in un personaggio assente, Wotan, tuttavia mai stato così presente, oggetto della narrazione e delle apprensioni delle due sorelle. Alcune battute, come è naturale nei racconti, sono puro recitativo, ma ogni tanto si staccano primi piani pieni di pathos, immagini pregnanti, sintesi fulminee di azioni: tutto fuso in una continuità drammatica che ne fa uno dei più grandi «racconti» di tutto il teatro di Wagner. Si possono anche scorrere i temi musicali che vi circolano: corruccio di Wotan e Walhalla più di tutti, e poi, più di soppiatto, i pomi aurei, l’elmo magico, l’anello, walkirie al galoppo, canto delle figlie del Reno; ma è poi del tutto inutile indicarne la correlazione con il testo poetico, perché quelle figure tematiche vivono e proliferano liberamente come tasselli di una autonoma prosa musicale, appaiono e si annodano fra loro più per pure ragioni musicali che per riferimenti alle immagini verbali.

Da Waltraute apprendiamo cosa è successo a Wotan dopo aver addormentato Brünnhilde sotto gli abeti; il distacco dalla figlia gli è costato, gli ha fatto dare un giro alla ruota del tempo, lo ha invecchiato: non più battaglie, restano inoperosi walkirie ed eroi, lui stesso solo a cavallo a girare il mondo come Wanderer: con quattro battute di trotto appesantito, sembra la nera silhouette di quei cavalieri che galoppano nella tempesta in qualche angolo dei quadri di Böcklin.

Proprio ora è tornato nel Walhalla con la coda fra le gambe, cioè con in mano le schegge della lancia spezzata: i rintocchi del timpano tengono in sospeso la narrazione e realizzano stupendamente il mutismo, il vuoto di parola di Wotan. Con un cenno manda gli eroi ad abbattere l’imporrato frassino del mondo, a farne catasta da ardere (immagine già anticipata nella scena delle Norne, ma i racconti nel Crepuscolo si possono sovrapporre come cerchi nello specchio d’acqua), quindi convoca gli stati generali degli dei, lui sullo scanno più alto, sempre con in mano la lancia spezzata: mai il sommo concistoro è sembrato così augusto come nel momento in cui la sua esistenza s’incrina. Waltraute ora parla di sé e prepara la mozione degli affetti: «al suo petto mi strinsi piangendo», e in frasi interrotte dalla commozione riferisce che Wotan, con gli occhi velati, pensava a lei, Brünnhilde, sussurrando come in sogno fra le dolcissime armonie dei corni: «Se alle figlie del profondo Reno ella rendesse l’anello, dalla maledizione sarebbe sollevato il dio e il mondo». Al giro di boa, Waltraute passa all’azione: ecco perché è volata lì in uno slancio verticale e disperato della speranza: «Te, o sorella, ora imploro: quello che tu puoi fare, la tua forza lo compia; tronca il tormento degli eterni!».

Contrasto irriducibile

Brünnhilde incomincia la sua reazione in una calma sospesa (poco alla volta in tempo più tranquillo): le notizie appena avute le paiono cose tristi e confuse, come avvolte in una nebbia, troppo lontane per comprenderle; osservando la sorella, la vede tesa, pallida, con gli occhi arrossati, intuisce e chiede: «da me che vuoi, smaniosa?».

16. Arthur Rackham, Waltraute si confronta con la sorella Brünnhilde, 1911.

16. Arthur Rackham, Waltraute si confronta con la sorella Brünnhilde, 1911.

Alla replica senza perifrasi di Waltraute – rendere per Wotan l’anello alle figlie del Reno – salta su come una furia: «sei fuori di senno? l’anello alle figlie? il pegno amoroso di Siegfried?», e la tratta da pazza, «vergine senza cuore», con poca delicatezza (lei, l’unica maritata del gruppo) per la sua inesperienza verginale; cozzano irriducibili un interesse personale e uno politico generale, ma Brünnhilde non è capace di altri pensieri diversi dalla fedeltà a Siegfried: un raggio di luce di quell’anello vale per lei più della gioia eterna di tutti gli dei; «va’, torna da loro, e sussurra a tutti che mai rinuncerò all’amore, andasse pure in rovina lo splendore del Walhalla». Ma questa veemente affermazione positiva, non diversamente da quando Siegmund nel primo atto della Walkiria estraeva la spada dal tronco, è cantata nel negativo Do minore del tema della rinuncia d’amore: piano e un poco allargando, a preannunciare l’esito funereo di quell’empito fiducioso.

Come un uccello ferito, riparte Waltraute con un triplice «Wehe!», «Guai, guai a te, sorella, guai agli dei del Walhalla», e sparisce in un vento di tempesta.

Apparizione stregata

Purtroppo le brutte notizie e i contrasti non risolti lasciano sempre un solco di affanno, anche in chi crede di essersi liberato da pezzi di vita precedente; Brünnhilde guarda con rancore la sorella che si dilegua, e nell’aria c’è un senso di inquieta aspettazione; si rasserena con lo sguardo alla valle e al brillio del fuoco attorno, ma la fiamma è anche troppo vivida e chiara, e cresce furiosa come lottasse contro qualcuno; Brünnhilde sente dal suono del corno Siegfried che avanza: è lui che torna, gli corre incontro col cuore in gola dalla felicità, ma è come percossa in pieno petto da un’atroce slogatura armonica (da Fa maggiore a La bemolle minore), congiunta all’apparizione («Verrath!», «tradimento!») di un essere diverso: sul bordo della roccia è apparso Siegfried, ma in figura di Gunther! Sul capo l’elmo magico, i cui accordi straniti paralizzano l’azione.

È forse un’astuzia teatrale che Wagner abbia collocato questo episodio finale dell’atto dopo il grande duetto delle sorelle; ancora impregnati dall’aura morale di quella scena, dal realismo delle sue passioni, si tende a considerare con attenzione meno pungente questo momento d’incantamenti surreali, del resto trattato da Wagner con lesta concisione, seppure fondamentale per gli sviluppi della vicenda.

«Chi sei tu, mostro? – chiede Brünnhilde tremante di ribrezzo –. Sei umano oppure ombra infernale?». «Un ghibicungo io sono, e Gunther ha nome l’eroe che tu, donna, devi seguire». L’estraneo parla con voce contraffatta, per frasi brevi e isolate, monotono come un automa, sostenuto dai tromboni oracolari e dai corni con sordina; dopo quanto le ha detto la sorella, Brünnhilde dà la colpa a Wotan, e con un grido impreca al dio che l’ha fatta svegliare da Siegfried solo per ricacciarla nell’ignominia, e protende l’anello a difesa: «rispetta questo segno! finché mi protegge l’anello, all’infamia non mi costringi». Ma lui l’assale, lei si difende, lottano finché l’uomo le afferra la mano e le strappa l’anello dal dito. Scende la notte e Siegfried-Gunther («Ora sei mia!») costringe con un gesto Brünnhilde a entrare nella stanza maritale; con suprema ambiguità le dice «accoglimi nel tuo antro!», ma sulla soglia estrae la sua spada, eletta a garante di fedeltà cavalleresca, che lo terrà separato da ogni contatto con la sposa di Gunther.

Salti di ottava rozzamente spiccati enfatizzano il gesto mentre cala il sipario.