Come un fiato rovente, il preludio del secondo atto investe l’ascoltatore con la presa sincopata degli archi e la massa dei tromboni nella cupa tonalità di Si bemolle minore. Il clima è da grotta di Fafner, ma la terribilità è tutta interiore, non illustrativa: nei registri alti, flauti e oboi lanciano il loro lamento di semitono discendente, figura dolorosa sempre più presente mano a mano che il «crepuscolo» avanza; violoncelli, clarinetto basso e fagotti spalancano una melodia nobilmente malinconica, che per la sua desolazione ricorda quella simile, pure ai violoncelli, nella prima pagina del secondo atto della Norma di Bellini, una delle poche opere italiane che abbiano contato qualcosa per Wagner; naturalmente meno espansa, anzi rappresa già alla terza battuta a ripetere l’intervallo di settima discendente. L’onda nera dei bassi si ritrae lasciando a secco tumescenze e rottami: è la tristezza nibelungica nella sua rappresentazione quasi tattile di oppressione fisica.
Siamo sulla riva del Reno davanti al palazzo dei ghibicunghi, s’intravedono altari consacrati agli dei, Fricka, Wotan, Donner. È notte, Hagen siede con lancia e scudo, icona del guardiano della reggia: una statua, come il vecchio cavaliere impietrito della poesia di Eichendorff musicata da Schumann nel ciclo di Lieder op. 39 di Schumann, in agguato da secoli nel silente romitaggio. Rannicchiata nell’ombra davanti a Hagen che sembra dormire, si scorge la figura di Alberich, come un incubo che gli parla in sogno, a ribattere l’eterno chiodo dell’anello che dà il dominio del mondo; scena quindi pleonastica, se vogliamo, dove l’azione ristagna, ma di presa incancellabile per l’immensa potenza rappresentativa della musica. Wagner è nel suo centro, il suo côté Dostoevskij si solleva di fronte alle forze del male che dalla loro tana sognano la riconquista del mondo: come già Telramund e Ortrud nel secondo atto di Lohengrin, ma qui, in questa mormorazione fra le tenebre, con intensità e verità infinitamente più efficaci.
Hagen dorme, ma è desto allo stesso tempo; gli occhi sono aperti, indipendenti dal resto del corpo, delegati a vegliare come un maligno Linceo; Alberich ha perduto il sonno e non dormirà più fino alla fine del mondo: qui è come un fantasma che parla al figlio in sogno e ogni tanto ripete: «Dormi, Hagen, figlio mio?» («Schläfst du, Hagen, mein Sohn?»), impennandosi con enfasi grottesca sul pronome personale, du. In tale corroso disfacimento onirico, torna a circolare il tema della vendetta di Alberich, poi dell’angoscia della fine; «ti ascolto, elfo maligno», dice nel dormiveglia il figlio al padre, e l’epiteto apre subito il quadro su una trista famiglia, di rapporti guasti; Hagen è nato da una madre che Alberich ha sedotto e comprato con denaro, e ora non la benedice certo di averlo messo al mondo: figlio della notte, vecchio anzi tempo, esangue, livido, ignaro di ogni gioia, odiatore dei gioiosi.
È per tenere accesa la fiamma di questo odio che il padre gli è apparso in sogno: odiare i gioiosi, i figli della luce, ruinarli con l’odio; e rimesta nel passato: bruciano ancora l’umiliazione ricevuta dalle ondine lascive, il furto dell’anello da parte di Wotan e Loge, ma i ricordi, e i temi relativi, sono come compressi dall’incalzare del recitativo di Alberich, la cui avidità è tutta nei toni rapidi, nei rancori furenti. Il momento è propizio, incalza Alberich: già Wotan, «rabbioso ladro che un giorno mi rapì l’anello», è stato umiliato da un welsungo, e con tutti gli dei attende angoscioso la fine; ma ora occorre riprendere subito l’anello a Siegfried, che ne ignora il valore, evitando che una donna saggia che lo ama possa indurlo a rendere il gioiello alle figlie del Reno e riportarlo là dove nessuna astuzia potrebbe più riscattarlo. Hagen giura che avrà l’anello, l’eroe inconsapevole è già entrato da sé nella rete; all’avvicinarsi dell’alba, Alberich si ritira, ripetendo «sii fedele» con voce sempre più fievole fino a scomparire nel nulla.
Svanito il sogno, Hagen resta immobile con gli occhi rivolti al Reno le cui acque rosseggiano alle prime luci dell’alba; un’alba dal tono particolare, senza quel senso propizio alla vita, arioso e leggero che la tradizione associa al fenomeno: disegnata da clarinetto basso, otto corni, fagotti e viole, questa breve pagina che introduce alla seconda scena ci rappresenta un’alba pesante, afosa, oppressa da spessi vapori che salgono dalla terra umida.
Improvviso, dalla sponda salta su Siegfried, che in un misto di fanciullaggine e magia si vanta della sua bella impresa; veloce come il lampo, l’elmo magico l’ha ricondotto a casa, impaziente di sposarsi con Gutrune, mentre Gunther e Brünnhilde seguono in barca sul Reno. Hagen chiama fuori Gutrune a sentire anche lei come sono andate le cose, riassunte in brevi frasi, musica di cronaca che Wagner tratta con lestezza e distacco; salvo in un punto delicato, quello che più preme sapere a Gutrune, singolarmente insistente: «Dunque Brünnhilde ti ha creduto Gunther?». «Ero tale e quale, merito dell’elmo». «Ma tu hai domato la donna intrepida?». «Ha ceduto alla forza di Gunther». «E si è congiunta a te?». «No, divisi come l’est e l’ovest dal nord», indicando la spada, simbolo della castità mantenuta fra uomo e donna. «E poi?». «Ai piedi del monte l’ho consegnata a Gunther e, senza che lei se ne accorgesse, ho ripreso il mio aspetto ed eccomi qua».
Non si sa se del tutto rinfrancata nel suo pruriginoso interrogare, in questa paginetta Gutrune ha forse il suo unico momento di vitalità, di fragilità «graziosa»: «Siegfried! formidabile uomo! La paura mi afferra dinnanzi a te!», una paura concretata nella musica dell’elmo magico che annulla l’identità delle persone. Intanto l’occhiuto Hagen ha già avvistato la vela del canotto nuziale, per cui Gutrune lo invita subito ad allestire i preparativi per la festa di nozze: Hagen chiamerà a schiera i guerrieri, mentre lei provvederà a radunare le donne; quindi porge la mano a Siegfried e con lui rientra nella reggia.
La frammentazione e le graziette della scena precedente vengono direttamente fagocitate dall’impeto unitario di questa scena di vita primitiva, unica grande scena corale della tetralogia, rozza e tumultuosa esaltazione del Settentrione arcaico. Hagen monta su un’altura e dà fiato al suo corno di toro (Stierhorn), dal suono inarticolato, cartilaginoso: fermo su un Do persistente che innerva tutto il quadro assieme al semitono discendente Re bemolle-Do, il semitono del grido di richiamo di Hagen, «Hoi-ho!»: non tema, ma gesto bruto, mera carica negativa. Dal palco rispondono guerrieri e vassalli con altri corni vichinghi che si urtano in spaventose dissonanze: Re bemolle e Re naturale contro il Do tenuto di Hagen, un frastuono inaudito, a dare il senso di vigorose civiltà barbariche.
Poteva Hagen, che odia i gioiosi, annunciare gioia chiamando a raccolta per celebrare le doppie nozze? No certo, e Wagner infatti escogita il geniale espediente di farne un banditore di guerra, chiamando le genti ad armarsi per un pericolo incombente: «Guai! Guai! Armi robuste per la battaglia! Pericolo! Hoi-ho, Hoihohoho»; in realtà un falso allarme, uno scherzo di volgarità militaresca, da corpo di guardia.
Armigeri e soldati, tirati fuori dai loro quartieri, si spingono e si urtano fra le domande e il tempestare dei timpani: «Qual è il pericolo? È qui un nemico? Chi ci fa guerra?». «Gunther dovete accogliere; una donna ha per sposa», e quelli credono allora che occorra difenderlo, magari dai congiunti ostili della sposa; quando vengono a sapere che Gunther è protetto da Siegfried, chiedono naturalmente il motivo della chiamata, rivelato da Hagen senza altri infingimenti: le armi affilate servono per un macello di bestie sacrificali, pingui tori a Wotan, cinghiali a Froh, capri a Donner, pecore a Fricka; un vistoso trionfo pagano propiziato proprio da colui che gli dei mira a distruggere. Cresce l’allegria, si promettono bevute colossali, esplodono risate fragorose; ma in questa seconda parte diminuisce il senso del primitivo, la rozzezza lascia il posto a un festoso Do maggiore in forte analogia con le grandi scene corali dei Maestri cantori. Anche Hagen non soffia più nel suo corno e invita tutti ad accogliere la coppia che si avvicina, a essere devoti alla sovrana, pronti alla vendetta se mai la cogliesse offesa; i due scendono a riva e con il tema del grido di nozze e altri di salve e di benvenuto siamo già nella scena successiva.
Scena piena di avvenimenti, che deve fronteggiare fatti cruciali per la vicenda, ma allo stesso tempo dei più involuti e meno teatralmente evidenti in tutta l’opera: in tanto testo da smaltire domina il recitativo-declamato, sostenuto da denotazioni tematiche sottilissime, frammenti quasi irriconoscibili; in generale, due regimi musicali si alternano, la calma coperta della corte (manovrata da Hagen in falsità e inganno) e lo stile invettivale, di un canto vicino all’urlo, di Brünnhilde che vi si trova precipitata. Incomincia di qui l’inquinamento dell’amore di Siegfried e Brünnhilde e la sua corruzione in una forza devastante vogliosa di morte.
Gunther guida per mano Brünnhilde, che tiene ancora gli occhi a terra, in una leggiadra marcia nuziale, scandita da una cadenza del timpano come nel Fidelio all’arrivo del governatore: musica costumata, in un Si bemolle di classica lievità, che il giovane Mahler di Das klagende Lied saprà come riutilizzare. Gli uomini in coro, pur cozzando gli scudi per fare festa, non sembrano più quelli di prima, ripuliti e rassettati; come del resto la frase di Gunther, «Brünnhilde, vergine eletta, qui sul Reno a voi reco», di cerimoniosa eleganza, con tanto di mondano gruppetto melodico.
Dalla corte, incontro ai nuovi arrivati, vengono fuori Siegfried con Gutrune e séguito di donne; con finta innocenza (ma qui tutto è finto) Gunther saluta l’eroe e la sorella, e stolidamente giulivo aggiunge: «due fortunate coppie vedo brillare qui: Brünnhilde e Gunther, Gutrune e Siegfried!». A sentire il nome di Siegfried, Brünnilde alza finalmente lo sguardo e se lo vede di fronte, fissandolo come paralizzata, mentre incomincia a tremare fra i cupi rintocchi del timpano, come se il sangue le battesse alle tempie. L’incredulità si trasforma in furia selvaggia quando al dito di Siegfried vede l’anello che il misterioso cavaliere le aveva sfilato: è il coperchio che il diavolo aveva dimenticato di fare nella losca azione di pirateria intrapresa da Siegfried con l’aspetto di Gunther; si accende un episodio di alterchi, amplificato dagli interventi del coro ignaro e sbigottito, di accuse reciproche di menzogna e di tradimento, con Hagen pubblico ministero pronto a registrare ogni dichiarazione a futura memoria.
Stiamo assistendo, come ha osservato Elisabetta Fava, al rovesciamento infernale di una tipica situazione di commedia borghese, se non addirittura di vaudeville: nel bel mezzo di un duplice matrimonio, la simmetria salta perché una sposa accusa di tradimento lo sposo dell’altra coppia (Fava 2015, pp. 209-10). Un sottofondo di teatro borghese appare in evidenza anche in espressioni colloquiali: «Gunther, la tua donna sta male» (detto da Siegfried), oppure: «moglie, cerca di moderarti!» di Gunther a Brünnhilde in preda alle furie; incredibile è la capacità di Wagner di trasformare l’eccesso di dialoghi in un continuo verminare di pulsioni, dove, fra le vecchie conoscenze tematiche, il tema della «cura» insinua la sua traccia ripugnante quando maggiore è il vacillare dei sensi e la violazione delle coscienze.
Davanti alla confusione di Gunther, che nulla sa dell’anello, agli sprazzi di memoria di Siegfried, che dice di averlo conquistato abbattendo un forte drago, all’interrogare di Hagen su chi l’ha sottratto e a chi, Brünnhilde erompe in un triplice grido di «Frode! (Betrùg!), vergognosissima frode!»; si sente tradita anche dagli dei, dai celesti che nel consesso narratole da Waltraute certo avevano confabulato ai suoi danni; e allora, senza più freni, con un colpo di scena rivela il punto cruciale del groviglio: «Tutti sappiate dunque: non di lui (indicando Gunther), ma di quell’uomo là (Siegfried) son io la sposa», fra la sorpresa e lo scandalo degli astanti; e sfigurata dall’ira aggiunge: «da me a forza ottenne piacere e amore», insultandosi nel suo verginale risveglio, e concedendosi pure, su amore («Liebe»), trilli e sarcastici abbellimenti vocali.
Siegfried si difende ricordando la fratellanza di sangue con Gunther, e la spada che lo divise «da questa triste donna»; ma Brünnhilde (che ha in mente la prima, vera conquista: e quanto la musica nel ricordo s’intenerisce!) dichiara che quella spada pendeva alla parete mentre lei giaceva con l’eroe, sicché i cortigiani inveiscono a difesa dell’onore del loro re Gunther. Siegfried, secondo gli usi della cavalleria, invoca un giudizio di Dio: «c’è qualcuno che osa rischiarci la sua arma?». Puntuale Hagen, in terribile fissità, presenta la punta della sua lancia come garante, Siegfried ci mette su la sua mano («Arma sacra, soccorri al mio giuramento eterno») senza sapere di cadere in una trappola mortale; s’aggiunge Brünnhilde, tornata walkiria nella risolutezza, che strappa via la mano di Siegfried e afferrando con la sua la lancia la consacra alla vendetta.
Il finale della scena è tagliato alla grossa: Siegfried approfitta della confusione generale per filarsela con la disinvoltura di un eroe metastasiano; si lascino le donne con le loro battaglie di parole, non son cose da uomini, e poi, rancore di donna fa presto a placarsi; e facendo finta di niente, non senza tratti vocali di garrulo melodismo, prende Gutrune con sé e si avvia nell’interno della corte fra rimbombi del giubilo di nozze. In realtà, Wagner vuole sbarazzarsi dei personaggi superflui per lasciare soli in scena Brünnhilde, Hagen e Gunther a concertare la micidiale opera di vendetta.
Assieme a Gunther, seduto in disparte con le mani sul viso a coprire la vergogna, Hagen e Brünnhilde, i due grandi antagonisti, si ritrovano uniti dalla sorte a un’azione comune; Brünnhilde è come assente, mentre tortuose armonie dei fiati ne analizzano con lenta precisione lo smarrimento morale; nella calma innaturale sembra fiutare qualche incantesimo («Di quale demonio l’astuzia qui si nasconde?»), ma poi si riapre la ferita: «Ahi, pena, ahi guai!», esclamazioni esplicite nel ripetere il semitono discendente del dolore. Mentre nel sottofondo circolano ricordi del tempo felice, quello che brucia all’orgoglio della donna è aver profuso al suo uomo il suo sapere, averlo formato a sua immagine nella consuetudine di una vita comune, e vedere tutta questa ricchezza sperperata, gettata via nelle braccia di un estraneo; da qui l’onta e la furia vendicativa, le divaricazioni, le furiose sgroppate degli archi, tipo «collera d’Isotta», gli eccessi nevrotici che si spingono ad antivedere la Kundry del Parsifal o l’Elektra straussiana.
Come precipitata al centro della follia, Brünnhilde chiede da chi possa avere una spada per tagliare i lacci che l’opprimono, e la risposta è già anticipata in orchestra: seconda minore discendente nella massa d’urto dei quattro corni, e quinta diminuita ai contrabbassi, figure ormai consacrate a icona micidiale di Hagen: «In me abbi fede, donna ingannata!», e si candida a vendicatore del tradimento. L’offerta è accolta con scherno da Brünnhilde che, malgrado l’odio, vanta ancora il suo uomo insuperabile: Siegfried è imbattibile, lo spergiuro sulla lancia, il giudizio di Dio, nulla vale contro di lui; cose che anche Hagen conosce: per questo, in un sussurro che sa di Loge astuto consigliere, chiede a Brünnhilde se esiste un segreto, una magia, qualcosa di efficace per abbatterlo, a tutti ignoto ma non alla sua donna.
La quale, mentre risponde che in campo aperto non c’è speranza di vittoria, va ripensando all’intimità delle arti magiche esercitate sulle sue membra per preservarle da ogni ferita; in orchestra (archi e clarinetto solo) si muove dolce reminiscenza d’amore, di cura assidua nello spargere unguenti sapienti su ogni parte del corpo: salvo che sulla schiena, misura superflua dato che mai Siegfried l’avrebbe rivolta al nemico. In orchestra lievi sussulti accompagnano la sventata rivelazione; la parola sfuggita, «schiena», è subito colta da Hagen: «E là la mia lancia lo prende!».
La morte di Siegfried, ormai idea fissa in tutti i personaggi, domina la fine dell’atto; lo spazio sonoro è tutto sbarrato dalla musica di Hagen: la nota polare Do, ricorrente come un’ossessione, la seconda minore, la tremenda diagonale del tritono ai bassi; temi e figure che ruotano senza requie, passando uguali sotto la voce di Hagen, Gunther o Brünnhilde, tanto la fiamma del Male, la brama della morte, li tiene avvinti tutti in un fascio.
Gunther, ancora insultato da Brünnhilde, è fuori di sé dalla vergogna e grida la sua passione di auto-annientamento: vorrebbe essere fatto a pezzi e chiede aiuto a Hagen, si appella alla loro madre comune; lucido al solito, Hagen offre la morte di Siegfried come unico rimedio per lavare la vergogna. Anche i tradimenti plurimi patiti da Brünnhilde possono essere riscattati solo da quella morte: alla sua invocazione, «Siegfried cada!», fa eco Hagen, sussurrando poi a Gunther della spaventosa potenza che gli verrà con l’acquisto di quell’anello ora al dito di Siegfried. Ma Gunther è preso da altri pensieri, come trasognato; che cosa Wagner non va a scovare! Evidentemente Siegfried era il suo idolo, ne traeva forza e decisione solo a saperlo esistente, e ora l’idea di quella morte gli taglia le gambe; e siccome la cattiva coscienza è sempre scrupolosa, si preoccupa di Gutrune, di come potranno ancora, lui e il fratello bastardo, comparirle davanti avendole massacrato lo sposo prescelto. Anche qui Hagen ha la soluzione: domani è giornata di caccia, verrà simulato un incidente, si darà la colpa a un selvaggio cinghiale, in modo che Gutrune si rassegni di fronte alla fatalità.
A sentire quel nome, Brünnhilde ha ancora tanta forza da inveire: «Gutrune ha nome il maleficio che ha incantato il mio sposo!», e sulla prima sillaba della parola Zauber, «maleficio», la voce s’impenna in un’esuberanza vocale che contiene in sé il potenziale espressivo di un’aria. Hagen tira le fila: la morte di Siegfried giova a tutti loro, che confluiscono in un terzetto di giuramento, situazione in sé fra le più melodrammatiche possibili: Gunther e Brünnhilde si appellano a Wotan, Hagen ad Alberich re dei nibelunghi, ma tutti e tre si rimandano parole simili, s’inseguono con le stesse frasi, alla fine rinforzandosi a vicenda in ottave o unisoni secondo le convenzioni. Come il «duetto» nel finale di Sigfrido, anche questo «terzetto» è stato spiegato facendone risalire il testo poetico a quando le linee formali del dramma musicale non si erano ancora del tutto solidificate; per nulla convenzionale, tuttavia, è la brevità e la violenza tremenda della pagina, in cui si scaricano le energie di odio e di frustrazione a lungo covate.
La conclusione del terzetto è sorpresa dall’apparizione del corteo nuziale che esce dalla reggia, trionfante nel Do maggiore del giubilo di nozze: Siegfried è portato su uno scudo, Gutrune su un seggio, fra ignari fanciulli, paggi e donzelle. Brünnhilde vorrebbe ritrarsi, ma Hagen la spinge a salvare le apparenze al fianco di Gunther; con tagliente ironia, le ultime quattro battute precipitano nella musica di Hagen mentre cala il sipario.