L’atto incomincia con una superba «scena di natura»: Siegfried ne esce come ringiovanito, tornato salubre e lieto come nel secondo atto dell’opera a lui intitolata. Il preludio, già impregnato dello scenario naturale, non dimentica di richiamare alla memoria la caccia promessa nell’atto precedente: il tema di Siegfried, spiccato con la freschezza del mattino, è intonato da quattro corni all’unisono (come farà Mahler al principio della sua Terza sinfonia), cui si oppongono tre tromboni all’ottava per il corno di toro di Hagen. La caccia è già in atto, e tutto il preludio formicola di effetti spaziali: da una parte, «lontano», appelli di un corno «solo», Siegfried senza dubbio; sempre lontano, ma da un’altra parte, i richiami del drappello di Hagen. Nel Tristano e Isotta la caccia di re Marke che si allontana; ma già nel Tannhäuser i corni squillanti dei cavalieri e il piffero del pastorello: Wagner è infallibile quando visività e spazialità entrano nella sua musica.
Dai flutti del Reno, che scorre in fondo a una valle selvaggia, affiorano le tre figlie, Woglinde, Wellgunde e Flosshilde, che nuotano e giocano come in una danza a tondo; giocano sempre le «pazzerelle ridenti», e il loro riso si riflette nel luccicore di acque abbaglianti; ma nelle increspature melodiche che degradano cromatiche è innestato un sapore amarognolo: nei loro ridenti capricci, le tre ragazze piangono l’oro, rimpiangono l’età del quieto possesso, e alle armonie fluttuanti dell’Oro del Reno si viene accompagnando una densità e una languidezza prima sconosciute; è come se la privazione dell’oro le avesse migliorate, arricchite di risonanze interiori, come avviene talvolta a causa dell’assenza dell’oggetto amato nei sentimenti d’amore. Ma tutto questo quadro di natura, nella sua autunnale opulenza, ha poi una sua sensuale stanchezza: natura non più esperita sul nascere, come in Weber o Mendelssohn, ma sentimentalmente rivissuta e rappresentata in un anelito nostalgico.
L’incantevole duttilità del terzetto (ripreso da Strauss nelle tre ninfe di Ariadne auf Naxos), con quelle tre voci che s’intrecciano e si slacciano, si assesta nel ritmo comunissimo di barcarola in 9 o 12/8; ma sempre di più il Wagner maturo si diverte alle spalle dei luoghi comuni più consunti: come quando da una figura ricorrente delle viole (tonica di Fa con sesta aggiunta) estrae uno di quegli accompagnamenti pianistici già saturi di melodia, come fa Chopin nella Barcarola in Fa diesis maggiore. Sempre nuotando, le tre figlie inneggiano al Sole, che col suo disco riflesso sull’acqua rievoca per loro il fulgore dell’oro: è l’immagine che tanto piacerà a Paul Valéry, già ricordata a proposito dell’Oro del Reno («Quand sur l’abîme un soleil se repose… Œil qui gardes en toi»). In un delirio decorativo di «Weialala leia», le ondine chiedono al Sole di condurre da loro l’eroe che possiede l’anello: se lo rendesse, non invidierebbero più l’occhio lucente del sole, perché l’oro raggerebbe per loro dal profondo come una stella.
Sentendo dal suono del corno che Siegfried si sta avvicinando, le ondine spariscono a consiglio. Dominante continua a essere la grande sinfonia di natura, il fluire del 9/8, l’acqua che scorre, simile alla vita che tutto porta via e si richiude alle spalle; ma al suo interno, con l’arrivo dell’eroe, si aprono parentesi discorsive, di Siegfried fra sé o con le figlie, dove le idee musicali si accorciano, la fluenza orchestrale si riduce ad accordi connettivi, il ritmo, anche solo per poche battute, diventa binario, più adatto ai brevi scambi di battute; esauriti i quali, l’andamento ondoso riprende con il suo flutto trascinante, trionfale di spume.
Quando Siegfried compare sull’alto della sponda, sta ancora maledicendo fra sé un elfo che gli ha fatto perdere le tracce di un orso che aveva stanato. Riaffiorano le figlie che sempre nuotando in cerchio lo chiamano dal basso: «Siegfried!», e il nome è preceduto da una battuta vuota, un silenzio che dopo tutti quei trilli gocciolanti dà all’appello qualcosa di fatale; e di fatalità e frivolezza sarà tutto intessuto il dialogo di Siegfried con le tre ondine.
Le quali, sempre maliziose e fintamente confidenti, gli chiedono che cosa è disposto a dare per ritrovare la preda; ma Siegfried sa di non avere nulla, nemmeno un trofeo di caccia, quindi dicano loro cosa pretendono. Allora Wellgunde: «Un aureo anello brilla al tuo dito», e tutte e tre assieme: «Tu dallo a noi!». Ma Siegfried, che per averlo ha ucciso un drago, non lo baratta certo per le zampe d’un orso. Riprende leziosa la presa in giro: gli danno dell’avaro, del cacciatore spilorcio che non sa come si tratta con le signore, e la cedevole varietà dei mulinelli acquatici si adatta tanto bene al ridere e alla celia. Siegfried mette avanti la sua donna, che la prenderebbe male se lui facesse spendi e spandi: una preoccupazione piccolo borghese che le pazzerelle irridono, ficcando il naso in famiglia: «È tanto cattiva?». «Forse ti picchia?»; e poi ancora: «Così bello, così forte, così desiderabile» (un aggettivo a testa, sembrano le tre dame nella Introduzione del Flauto magico), e alla fine, assieme: «peccato che sia avaro!», e di nuovo scompaiono, mentre Siegfried ne ascolta ancora le risa in mezzo allo sciabordio delle onde.
Siegfried è sceso fino al pelo dell’acqua. Inconsapevole e incostante, o forse risentito dell’accusa di avarizia, tanto tipica dei vecchi, dice fra sé che se di nuovo le ondine tornassero a chiederlo, quell’anello che ha al dito potrebbe pure darglielo in regalo. E chiama forte: «Ehi! Ehi voi! gaie ondine amorose! Venite presto! Vi regalo l’anello!», e se lo toglie dal dito e lo tiene sollevato bene in vista.
Le tre affiorano di nuovo, ma questa volta non ridono più: sono diventate serie e solenni come messaggere di oracoli. Incomincia Flosshilde, la più anziana, seguita dalle due sorelle, ad ammonire l’eroe sulla maledizione racchiusa nell’anello foggiato dall’oro rubato. La tromba bassa suona la fanfara dell’oro, un tempo stemmata nella chiara tonalità di Sol maggiore; ma qui col Re diesis diventa triade eccedente, e quindi instabile, tarlata e appannata; e ancora più profonda è la trasformazione in minore della fanfara dell’oro del Reno («Rhein-gold», trasferito nel bisillabo «Sieg-fried!»): ripetuto tre volte, secondo la tradizione dei vaticini, da saluto di festa è divenuto lamento presago di sventure. Ignaro, ma curioso di profezie, Siegfried si rimette l’anello al dito e invita le tre ammonitrici a raccontare, a dire di più sui poteri magici dell’anello.
Anche le tre figlie, secondo il procedere a cerchi concentrici tipico del Crepuscolo, hanno così il loro racconto da dipanare, in realtà un succinto compendio: chi ha rapito l’oro e forgiato l’anello, dopo averlo perduto, lo ha maledetto, mutato in un talismano che genera morte a chi lo possiede; come Siegfried ha abbattuto il drago, così toccherà a lui, oggi stesso addirittura; solo tornando a giacere nelle acque del Reno si estinguerà la maledizione del gioiello. A Siegfried le tre «astute donne» paiono anche troppo astute e non accetta minacce, anche se quelle, da pedanti come sono, aggiungono che pure le Norne hanno intrecciato nella loro fune primordiale quella maledizione; ma Siegfried non sa nulla di funi che la sua spada non possa tagliare, e con l’ottusità di chi insiste a rievocare imprese passate, ricorda che un drago già glielo aveva detto di codesta maledizione; un drago che però non era stato capace d’insegnargli la paura: pura vanteria, al momento affatto inopportuna, che serve solo a far rizzare in orchestra per un attimo l’ombra del drago in persona.
Nella diatriba con le figlie, il pensiero di Siegfried è elementare: il suo anello, servisse pure ad acquistare tutto il mondo, «a voi ondine lo do, se voi mi date amore»; ma se mi minacciate di morte, valesse anche un soldo bucato, «da me non lo caverete mai!»: perché della sua vita gl’importa come di un pugno di terra, e presa una zolla la alza sopra la testa e se la butta dietro alle spalle.
Inorridite, le figlie si tuffano nell’acqua e stanno per abbandonare l’eroe; ma per concludere la pagina musicale, come il movimento di una grande sinfonia, Wagner ha ancora bisogno di parole da gettare nel flutto inarrestabile, e allora le fa parlare e ammaestrare, peraltro contente quelle di continuare a sdottorare e profetare; e specialmente a moraleggiare sull’indole dell’eroe, che ignaro butta via giuramenti, sapere, un bene come Brünnhilde, la vita stessa: tutto sperpera, il folle; solo vuole tenersi stretto l’anello che l’ucciderà. Ultima profezia, a voci compatte in accordi: una superba donna oggi stesso erediterà l’anello da lui, una «donna che saprà darci ascolto»; e al triplice grido di «zu ihr!» («da lei!») si rituffano in acqua.
Alle tre che vocalizzano le loro calligrafie su «Weialala leia», Siegfried aggiunge la sua voce per riesumare elementi della trita polemica letteraria contro le donne: ha imparato a conoscerle, meglio non fidarsene; e non manca alla fine un tocco burlesco da farsa borghese: «Però, se a Gutrune io non fossi fedele, una di queste belle, lesto l’avrei domata!», dove l’eroe dall’inconsapevolezza cade nella banalità erotica del conquistatore, del cacciatore in utroque. Mentre le guarda allontanarsi, in un ultimo, liquido mormorio dei violini con lo staccato dei legni, Siegfried trasale al suono dei corni di caccia, come risvegliandosi da un incantato torpore.
L’aria rimbomba di richiami, «Hoi-ho! Hoi-ho! Hoi-he!», e di squilli di corno, mentre la scena si affolla di cacciatori che dalla boscaglia scendono in riva al fiume da diverse direzioni; i gruppi si ritrovano e si salutano mentre ammassano mucchi di selvaggina, con Hagen caporione che ordina di preparare la cena e di portare gli otri con le bevande. L’animazione cameratesca è sospinta in avanti dal richiamo del corno di Siegfried, ingrandito a tutta orchestra, con plateali scoppi di fortissimo.
È anche il momento in cui Hagen deve tirare le fila del suo piano: tutto dunque deve funzionare a puntino, e infatti lo vediamo premuroso a fondere i gruppi come un bravo padrone di casa: chissà quanta selvaggina ha preso Siegfried, il fortissimo! sentiamo un po’ dalla sua bocca; mentre in orchestra riprendono i ritmi puntati, simbolo della vita di corte. Ma l’eroe è a mani vuote, e c’è mancato poco, a quanto racconta, che prendesse tre uccelli acquatici, qui sul Reno, dal cui canto ha appreso che oggi stesso sarebbe stato ucciso (frase che fa tremare Gunther, sempre più invaso da scrupoli e timori). Hagen aggancia il sostantivo di «uccello acquatico» per condurre Siegfried a parlare di altri uccelli parlanti e riportarlo via via alla coscienza.
Siegfried ha sete, e Hagen, offrendogli una coppa, gli chiede (la confidenza è lecita fra cacciatori al rezzo) se è vera la fama che lui sappia intendere il linguaggio degli uccelli; la risposta, come un tepido raggio di sole, viene in orchestra dal clarinetto, ma Siegfried, toccato da una domanda che bussa al passato, anziché rispondere, dimentica la sua rusticità e incomincia a parlare di sé. Da tempo, dice, non si cura più del loro cinguettare, e, dopo una pausa di mezza battuta che gli serve per cambiare argomento, beve un sorso, e su un cavalleresco invito dei corni passa il boccale a Gunther perché beva anche lui: «Su Gunther, bevi! il fratello brinda alla tua salute!».
Ma Gunther guarda «con orrore» nella coppa, dove ci vede solo il sangue pallido e smorto di Siegfried, evidente prefigurazione di una morte che gli pesa sul cuore; con gesto franco e scattante, Siegfried salta su e dalla coppa di Gunther versa nella propria facendola traboccare, e bevono assieme il tribale miscuglio mentre corni e legni suonano una sorta di marcia che cerca di essere lieta senza riuscirci. Gunther però resta rannuvolato, tanto che Siegfried con sollecitudine famigliare chiede a Hagen se Brünnhilde in qualche cosa lo fa penare; astuta la risposta, «se tanto la capisse, quanto tu il canto degli uccelli!», che rimette in tavola l’argomento degli uccelli parlanti.
Da quando ha udito cantare le donne, pensando alle figlie del Reno, Siegfried confessa di essersi del tutto scordato degli uccelletti, smentito tuttavia da una smaccata uscita del flauto sul più schietto ricordo dell’Uccello del bosco. «Ma un tempo li comprendevi?», insiste Hagen con l’accortezza dell’analista. Ma a Siegfried, invece di rispondere, salta in testa un’idea più divertente, nello spirito vitale e immediato che gli è venuto da questo nuovo bagno nella vita di natura: l’idea di raccontare a Gunther musone il suo passato per rallegrarlo, per farlo pensare ad altro, e gli chiede se gli va di ascoltare qualche «storia dei miei giorni di un tempo»; sembra il titolo di un romanzo, se vicino non ci fosse Hagen, sinistro, a spiare l’occasione letale.
Dopo la premessa in stile dialogante, può incominciare il «racconto» di Siegfried, il più importante dei racconti, si può dire la confluenza di tutti i racconti dell’Anello del Nibelungo; e non sarà inutile notare con quanta avvedutezza teatrale il racconto è stato realisticamente inserito in una scena di caccia, in una pausa dell’attività venatoria dove il raccontare a vicenda, e magari spararle grosse, è cosa abituale e consentita.
Siegfried ha appena cantato le parole «miei giorni di un tempo» che in orchestra frulla un clarinetto, immagine vivente dell’uccellino del bosco; tutti si siedono attorno: «dunque, eroe, canta!», incoraggia Hagen, più interessato di tutti. E il passato riemerge poco alla volta nella mente di Siegfried, sale come una bolla d’aria entro il liquido trasparente dell’orchestra; la voce del narratore assume un’intonazione pacata, dove i fatti, in origine agiti con asprezza, ora, nella rievocazione, hanno perso le punte. Appaiono nozioni e vocaboli musicali delle giornate precedenti, Wagner rimodella in modo diverso le sue parole, pesca nel fondale del già detto, per rimontare il conosciuto in cerca dell’ignoto; e la sua orchestra procede con una tale sottigliezza da far percepire anche il dislivello fra il «qui adesso» e il tempo passato. Come in un romanzo ciclico, vediamo ripassare in rapidi scorci Mime, ma senza più astio per le sue piroette, le faville della fucina, la spada temprata, il tesoro, l’uccisione del drago, ma senza più la paura, o il desiderio di far paura.
A questo punto la distanza del narratore dalle cose narrate arriva addirittura alla pausa di commento: «Ma ben attenti ora state al racconto: ché devo svelarvi un prodigio»; la musica dilata di colpo le sue forme, e il prodigio si svela con la melodia che sale dal clarinetto basso al corno inglese fino su al flauto, mentre si gonfia l’arpeggiare degli archi; è il passo cruciale del sangue del drago, che, schizzato in una goccia sulla lingua di Siegfried narratore, gli apre con magica prestezza la comprensione del linguaggio degli uccelli.
Riappare come in un sogno la musica del bosco del secondo atto del Sigfrido: il soffio arboreo, il continuum mormorato dagli archi riporta in vita l’uccello sapiente, che ora trasmetterà per bocca del narratore i tre messaggi fatidici: come allora preceduti da quell’«Hei!», segnale argentino che con rituale fissità annuncia le azioni da compiere: ma qui già compiute, e solo rivissute dalla memoria come davanti a uno specchio fatato.
Identica la serie delle rivelazioni, mentre prosegue l’ipnotico mormorio degli archi: la prima comprende il tesoro nella caverna, l’utilità dell’elmo magico, l’immenso potere garantito dall’anello: facile impossessarsene. Con somma perizia teatrale, Wagner allunga le attese degli eventi con realistici interventi interrogativi, qui di Hagen e di uno dei suoi scherani («hai udito ancora l’uccellino?»), vogliosi di farlo parlare ancora. Nel ricordo cambiano i rapporti e l’uccellino miracoloso diventa, alla buona, «il caro chiacchierone», puntuale sulla cima di un ramo a cantare; dalla realtà si ripassa nella sfera del sogno, e l’aria torna a purificarsi con il secondo messaggio: non fidarsi di Mime! Consiglio seguito a puntino con l’aiuto di Notung, che toglie di mezzo per sempre l’elfo maligno; rozza ironia di Hagen, «quel che non aveva forgiato, Mime ha potuto gustare», e sgraziate risate.
Due cacciatori, uno dopo l’altro, fanno la stessa domanda: «che altro t’insegnò l’uccellino?»; ma Hagen si mette in mezzo, e abile e veloce distilla un nuovo farmaco per Siegfried, l’antidoto al primo filtro: è l’interruzione più lunga, per trattenere la terza e più importante rivelazione. «Prima, eroe, bevi dal mio corno – dice Hagen –, perché nulla di remoto ti sfugga»; il mormorio del bosco è sospeso, sostituito dai maschi ritmi puntati della corte e dagli accordi magici dell’elmo, allontanati nel suono dei corni con sordina.
Raccontare l’ultimo messaggio dà a Siegfried il privilegio non consentito a nessuno, salvo patti col diavolo, di ringiovanire, di rivivere nel sogno la gioia più bella tenendola dentro al suo essere più profondo. Prima di bere, Siegfried guarda pensieroso il liquido nella coppa: accordi ricchi di aromi velenosi rintoccano come lamenti, confusi con armonie smaterializzate in trilli, da cui con arte suprema trapela già una dolcissima presenza di Brünnhilde. Infine Siegfried beve lentamente, così come lenta nella sua coscienza si produce la liberazione dalla droga e l’affiorare sempre più chiaro del passato.
Per l’ultima volta, nella struttura imbricata fra sogno e realtà, riprende il mormorio degli archi, anticipo di superiori rivelazioni; Siegfried scivola di nuovo all’indietro, e riprende a narrare: l’uccellino, ancora sul ramo, cantava ora di una donna mirabile, addormentata su un’alta rocca e protetta da un cerchio di fuoco: se Siegfried supererà le fiamme, e la sposa sveglierà, allora Brünnhilde sarà sua.
Il reminiscente è già in trappola, ma Hagen cerca l’ultima ammissione: «E al consiglio dell’uccellino hai dato ascolto?». Senza esitare Siegfried l’ha seguito, avanzando svelto su per la rupe, mentre in orchestra sta per rinnovarsi l’incantesimo del fuoco. Poi l’agitazione si placa, il racconto trattiene il respiro di fronte alla sublime visione della dormiente; fra pause estatiche riaffiora la musica di Brünnhilde addormentata dal padre, e assieme le armi lucenti, l’elmo slacciato con la chioma disciolta, il bacio ardito del risveglio, l’ardore dell’abbraccio: un crescendo di immagini che la musica, all’opposto, chiarifica in un diminuendo fino al pianissimo dei violini soli, sommesso come nella devozione di un culto.
Tutto si svolge con fulminea rapidità: si levano due corvi da un cespuglio, Siegfried si alza in piedi a guardarli voltando la schiena a Hagen, che con funesta ironia gli chiede se capisce anche il gracchiare dei corvi, che a lui comunque hanno consigliato «Vendetta!», e lo trafigge di lancia nel punto preciso indicato da Brünnhilde.
«Hagen, che fai?», chiedono quattro uomini che avevano cercato di trattenerlo, e la domanda rimbalza alle voci esterrefatte di altri due guerrieri e dello stesso Gunther; ma Hagen, cui interessa solo l’anello, per ora ancora al dito di Siegfried, continua a coprirsi di dignità feudale («Ho vendicato lo spergiuro») e si ritira fra le rocce e le nebbie che stanno salendo.
La luce della consapevolezza ha accecato Siegfried nello schianto nella morte: due accordi in fortissimo, come colpi di taglio su un giovane fusto, e un nero avvolgimento cromatico di violoncelli e contrabbassi sono le due idee che daranno sostanza connettiva al corteo funebre. Ma che un eroe colpito a morte canti ancora prima di morire è legge del teatro d’opera che Wagner si guarda bene dal trasgredire: sostenuto da due guerrieri, Siegfried si solleva sul busto e completa così il suo racconto con quanto ancora mancava, il risveglio di Brünnhilde. Dall’ultimo atto del Sigfrido l’episodio è ripreso tale e quale, altra consuetudine del teatro d’opera che riutilizza una sezione precedente quando l’azione raggiunge la sua catastrofe.
Per tre volte risuona la triade perfetta (tre corni, tre oboi, tre clarinetti) che aveva destato Brünnhilde dal sonno; già il preludio dell’opera l’aveva citata al suo principio, a significarne l’importanza. La perfezione armonica della triade, prima saluto alla vita, ora suona più che mai come stemma sepolcrale: idea già realizzata da Schumann nell’ultimo Lied del ciclo op. 42, Vita e amore di donna, dove il rintocco della triade al pianoforte basta a fissare inesorabile il sonno della morte. Il delirio consente a Siegfried di rivivere tutta la scena: «Brünnhilde! Sacra mia sposa! Dèstati! Apri i tuoi occhi!»; frasi come formule sacre, pausate dagli accordi dei fiati e dal suono dell’arpa che si ferma estatica a trattenere come in un balbettio le sue frange armoniose. La visione della donna oscilla come dietro a un velo, il moribondo cerca di riscattarsi, annuncia l’arrivo del «risvegliatore», mentre quattro corni intonano il tema eroico di Siegfried; sopraggiungono, in una contemporaneità mentale allucinativa, altri motivi tratti dai ricordi felici; ma le tonalità si elidono a vicenda, i frammenti si sommano, la materia sonora si disfa e la coscienza svanisce.
Sotto le ultime parole, «Brünnhilde – mi dà il suo saluto!», gli accordi enigmatici del destino e il ritmato rullo dei timpani ricordano la mortifera apparizione della walkiria a Siegmund: collegamento che agisce come attenuazione classica, allontanando il pathos immediato della morte dell’eroe; una morte sommessa, fra l’immobile cordoglio dei presenti, tanto che torna in mente un’osservazione di Giorgio Vigolo: «nessuno si commuove alla morte di Sigfrido, più di quanto si commuova alla caduta del sole nel solstizio d’inverno» (Vigolo 1991, p. 173).
A un cenno di Gunther, il corpo di Siegfried è posto dai guerrieri su una lettiga, e mentre ormai è scesa la notte il corteo funebre si mette in cammino illuminato a tratti dalla luna.
Incomincia così (feierlich, solenne), con lo schianto in fortissimo degli accordi ribattuti che avevano marcato il colpo a tradimento, la cosiddetta «marcia funebre di Siegfried», l’ultimo pezzo dell’Anello che la fama ha estrapolato dal corpo dell’opera: dove ha la funzione di accompagnare, come intermezzo, il cambio di scena. Chiarissima in proposito l’opinione di Wagner stesso, riportata nei Diari di Cosima (Tagebücher, 29 settembre 1871): «Ho composto un coro greco, ma un coro che allo stesso tempo è cantato dall’orchestra; dopo la morte di Siegfried, mentre cambia la scena, si sentirà il tema di Siegmund, come se il coro dicesse che era suo padre, poi il motivo della spada, infine il suo proprio tema, allora si alza il sipario, Gutrune entra, crede di aver sentito il suo corno»; come farebbero mai le parole, seguita Wagner nella citazione di Cosima, ad agguagliare l’impressione suscitata da «questi gravi temi nuovamente formati?» (C. Wagner 1982): espressione (corsivo nostro) che compendia quel generale ripensamento motivico che è la specifica condizione inventiva del Crepuscolo degli dei.
Più che una marcia vera e propria, è tendenza comune pensare la pagina come un poema sinfonico che con mirabile concisione illumina le gesta principali compiute da Siegfried; con tutto ciò, in qualche sottofondo del processo creativo, sembra agire un ricordo della «Marcia funebre» dell’Eroica di Beethoven, opera su cui Wagner si era chinato con tanta sollecitudine; e non è impossibile che proprio quella ammirata stringatezza sia in parte dovuta all’influenza sintetizzatrice dello spirito sonatistico con cui il «poema» wagneriano è tracciato. Lo squadro ritmico del Do minore beethoveniano conferisce autorità di primo tema al motivo dei welsunghi, nella tetra sonorità delle tube; una zona di «secondo tema», dolce espressivo, dall’entrata delle tre trombe in pianissimo, riporta in superficie La Walkiria, unico momento in cui tace il soprassalto degli accordi ribattuti; al loro posto, i legni ridisegnano la delicata silhouette di Sieglinde che scivola soccorrevole; quindi risenti l’amore nascente dei due gemelli e la passione che raggiunge il suo acme nell’entrata raggiante della prima tromba a celebrare Notung, la spada invincibile. Anche qui, come in Beethoven, segue un «Maggiore», nel tripudio di un fortissimo con aggiunta di grancassa, piatti, triangolo, sei arpe; nubi sonore da cui affiorano i temi eroici di Siegfried, mentre violoncelli e contrabbassi cadenzano al basso con suono polveroso e confuso, vere stimmate della «Marcia funebre» beethoveniana. Da questi culmini fonici comincia il diminuendo, mentre il palcoscenico è avvolto da nebbie; quando queste si sollevano poco alla volta appare la reggia dei ghibicunghi come nel primo atto.
Tutta la scena è naturalmente polarizzata sull’ultimo monologo di Brünnhilde e sull’incendio e crollo del Walhalla; prima, la vicenda deve sbrigare qualche tratto connettivo, qualche morte secondaria, in brevi episodi tutti immersi in una tinta grigiastra, di depressiva decadenza.
La prima figura che si avanza nella squallida corte ghibicungica è Gutrune: è già in piedi, ha dormito male, agitata da tristi sogni, e ora vaga per le stanze vuote; il suono degli archi con sordina mette i brividi, i cromatismi ogni tanto cadenzano su livide triadi perfette, affiora come un lamento il semitono discendente, e insieme squilli di caccia, galoppi lontani; ma tutto è deformato e confuso dalla contiguità con cui i singoli frammenti sono accostati e sovrapposti in una stralunata polifonia. Le sue parole sono immerse in un’orchestra imbevuta di angoscia: mai, come in queste allucinazioni di Gutrune, Wagner è stato tanto vicino all’espressionismo novecentesco, alle inquietudini di certi momenti di Elektra di Strauss o del monodramma Erwartung di Schönberg (1909).
L’incertezza di Gutrune è lacerata dall’irruzione brutale, bestiale di Hagen che precede il convoglio funebre; si ripete la musica barbarica che distingueva la battuta di caccia, unita al volgare sarcasmo: «Su, Gutrune, saluta Siegfried! Il forte eroe torna a casa», ma non soffia più nel corno, né corre a caccia e a duelli, «né amabili donne corteggia»; e non manca un trillo irridente dei violini a sottolineare l’allusione galante. Sempre più frastornata, Gutrune chiede cosa succede e chi portano i guerrieri in mezzo alla sala, nella confusione di fiaccole, dove ogni cosa o movimento prende un’apparenza spettrale. Alla risposta di Hagen, «La preda d’un cinghiale feroce: Siegfried, il tuo sposo morto», Gutrune lancia un grido al naturale, come la Kundry del Parsifal, e cade svenuta sul cadavere.
Quanto segue è la soluzione a rapidi passi di fatti prevedibili, in episodi di serrata prosa dialogica: Gunther vorrebbe consolare la sorella, ma lei lo respinge e lo chiama assassino del suo sposo; Gunther indica in Hagen il vero assassino, il mostruoso cinghiale, il quale si legittima come uccisore, vendicatore di uno spergiuro, e anzi ora vuole il saldo dell’operazione e pretende l’anello; i due uomini si litigano, vengono a male parole («svergognato figlio di gnomo!»), poi alle mani e alle spade, e, come era avvenuto con i vecchi giganti Fafner e Fasolt, Hagen colpisce a morte il rivale più debole; quindi si avvicina al cadavere di Siegfried per sfilargli l’anello; ma, miracolo, si alza il braccio ammonitore dell’eroe assieme al tema della spada: Hagen arretra terrorizzato e come tutti gli astanti resta immobile, come folgorato; a questo punto appare Brünnhilde.
Accompagnata dai motivi salienti dell’elemento primordiale, Wagner la fa entrare in scena come la dea Erda, cinta di cosmica grandezza; ma lei si presenta come donna, e donna di Siegfried, che tradita da tutti è venuta a vendetta; e avanza lenta come una sacerdotessa che si appresta a consumare un rito.
Il tono sprezzante e le prime parole ci dicono che è già entrata nel ruolo di Grande Vedova: finora ha sentito frignare fanciulli, come poppanti che chiedono il latte alla mamma, non ancora un compianto degno del suo sposo, l’eroe più glorioso di tutti; e dall’orchestra sale la grande musica della messaggera di morte nel secondo atto della Walkiria. Ma Gutrune l’assale con uno scatto d’ira, come avviene ai timidi o deboli, quale portatrice d’invidia, malvagità, sciagure; la replica è fredda e un po’ classista (io sposa legittima, tu seduttrice), prima di distendersi su una frase tolta all’età felice dell’amore sbocciato: «a me eterna fede giurò, prima che Siegfried ti avesse mai veduta!». Gutrune di colpo si svuota, capisce che Brünnhilde, vera moglie, era stata dimenticata con l’inganno del filtro ordito dal maledetto Hagen; si scosta dal catafalco e si dedica al corpo di Gunther; la didascalia dice che resta così, immobile, ricurva sul corpo del fratello fino alla fine.
Da qui in poi Brünnhilde ha libero campo in una scena che sarà tutta per lei, anche se attorno si vedono uomini e donne usciti dalla reggia per ricevere il corteo funebre: a costoro Brünnhilde si rivolge con autorità e comanda di ammassare a catasta tronchi robusti sulla riva del Reno. Ma assieme a Brünnhilde c’è un altro personaggio incombente, anche se fisicamente invisibile: Wotan. I ritmi puntati che accompagnano gli ordini di Brünnhilde sono materia di Wotan, appartengono al tema del violato frassino del mondo; sono gli stessi ritmi con cui il dio aveva cercato di sbarrare il passo a Siegfried avviato alla rupe; è la stessa musica del racconto di Waltraute nella celebre scena, con Wotan al centro della rappresentazione; musica adatta al fare imperativo di Brünnhilde, cui si aggiunge la fanfara militaresca delle terzine di oboi, clarinetti, corni e fagotti: forse è questa, nella fanfara dei fiati, la vera marcia funebre per la salma di Siegfried, o così almeno la intende Brünnhilde, mentre dispone che venga condotto il cavallo, il fedele Grane, sul quale lei stessa salterà nelle fiamme del rogo destinato a consumare il corpo dell’eroe sublime.
La donna fissa ancora una volta il viso di Siegfried, mentre l’indicazione di scena dice che i suoi lineamenti si trasfigurano in modo sempre più soave: prescrizione che cade nel vuoto dei grandi teatri, ma è realizzata in concreto dalla musica, con il tuffo al cuore provocato dall’entrata dell’arpa e il rifluire dei ricordi dal tempo felice del terzo atto del Sigfrido.
Ma dal passato brucia ancora la ferita delle contraddizioni in cui era incappato Siegfried sotto l’effetto del filtro, mutato nell’animo e nel volto: «era il più puro colui che mi tradì»; e Brünnhilde dà la soluzione, veridica quanto tardiva, di quel fatto di cronaca rimasto oscuro, coperto da scrupoli e prurigini: nella seconda spedizione alla montagna infuocata, quella stregata, in aspetto di Gunther, lei e colui non erano giaciuti assieme nella grotta, non c’è stato coniugium; la spada aveva diviso Siegfried dalla donna conquistata per conto dell’amico. Nessuno più leale di lui, nessuno più onesto e puro; e tuttavia, come nessuno, ha infranto giuramenti e seminato distruzione: «sapete voi come accadde?», interrogativo incapsulato nell’enigmatico tema del destino, senza possibilità di risposta; un granello si mette di traverso, e le più temprate virtù si arruffano fra le dita delle Norne, e ne sortiscono angoscia e morte.
Dopo Siegfried, la perorazione di Brünnhilde, «guardando verso l’alto», va agli dei, eterni custodi dei patti, affrontati da pari a pari; l’accusa è forte, l’umanità tradita dagli dei, ma nell’intonazione non c’è veemenza, l’invettiva è interiore, offrendo solo lo spettacolo del proprio dolore; gli accordi severi del Walhalla, tema della maestà degli dei per eccellenza, risuonano segnati da impreveduti tocchi di tonalità minore: c’è come uno scantonare del tema del Walhalla dalle sue responsabilità. Quindi Brünnhilde si rivolge a un dio in particolare, al più grande di tutti, Wotan; non serve nominarlo, la sua ombra si agita inquieta nei bassi, con una figura che deriva dal suo duetto con Brünnhilde alla fine della Walkiria; i due idealmente si ritrovano di fronte, la figlia prediletta e il padre, resi distanti dal tempo trascorso, e la donna può formulare l’accusa radicale di tutto L’anello: la megalomania fallita della «grande idea», con la quale Wotan ha pilotato Siegfried a compiere l’impresa più ardua per soddisfare le sue brame, scaricando su di lui la maledizione cui il dio era votato.
Sempre più in veste di personaggio oracolare, Brünnhilde parla col padre in absentia: «Tutto (Alles, per tre volte come nei vaticini), tutto, tutto so». Lo sente vicino nel fremere dei due corvi, le bestie che Wotan mandava in giro per avere notizie dell’anello; e li rimanda al mittente con il messaggio tanto atteso: «Ruhe, ruhe, du Gott!», sugli accordi dei corni non più soffocati dalla sordina, «Pace, pace, o dio!».
Il passo, fra i più alti di tutta l’opera, è avvolto di voluta ambiguità poetica, come osserva Franco Serpa in una nota alla sua traduzione, potendosi intendere la parola ruhe, allo stesso tempo, come verbo o sostantivo (nota 46 in Wagner 2013, p. 276). Come verbo: «stai calmo, o dio», è stato fatto tutto quello che c’era da fare; divenuta sapiente, so che tutto è compiuto. Come sostantivo: «pace, pace o dio»: pace a te, vecchio padre, tiranno egoista; l’ansia, la paura della fine che tanto ti consumava, è sparita, anche tu ora puoi riposare. La tenerezza del duetto d’addio alla fine della Walkiria ritorna in poche battute di una musica dolcissima, ninna nanna di morte, nella più schietta tradizione della musica tedesca, da Bach a Schubert a Brahms. Ma non è solo rapimento momentaneo; in Wagner coesiste, ed è uno dei tratti più tipici del suo genio, la dimensione intellettuale di raccordo e connessione: quella musica, infatti, è la controfigura di Wotan, perché è la stessa già apparsa sulla bocca della sorella Waltraute, quando raccontava di Wotan che, con lo sguardo velato, come in un sogno, sussurrava che «se l’anello alle figlie ritornasse» sarebbero salvi e lui e il mondo.
A chiusura dello spiraglio, la tromba bassa conclude la frase con un salto ascendente di sesta maggiore, enfatico segno di potere che accompagna Wotan fin dall’Oro del Reno: considerato come sua proprietà lessicale, si potrebbe dire che Brünnhilde, come spesso succede nei momenti di commozione, si sente rinascere nei tratti del padre.
A un cenno di Brünnhilde, mentre riprende il ritmo di marcia funebre, gli uomini sollevano il corpo di Siegfried e lo portano verso il rogo; l’anello, sfilato dal dito di Siegfried, è ora in mano a Brünnhilde che lo contempla con una gravità che pesa sul cuore: «Funesto cerchio! Spaventoso anello!».
Eredità legittima, non resterà in quella mano: «stringo il tuo oro, che dono ad altri», e subito, a sorpresa, un vento tiepido soffia dolcissimo dal quartetto dei corni, accarezzato dai tre clarinetti: è la voce della Natura, il respiro maestoso del Reno, destinatario del dono per il tramite delle sue figlie, anch’esse presenti in carne e ossa in quest’ultima visione euforica, corroborante di salubrità naturale, fra le tante presenti nel Ring. Brünnhilde saluta le tre sorelle – «Ciò che attendete, io ve lo offro: dalla mia cenere fatelo vostro!» – e l’immagine dell’oro tornato nell’urna cristallina del fiume s’incornicia ancora fra capricci cromatici e sinuose bellurie delle nuotanti.
Rivolta verso il rogo, Brünnhilde strappa dalla mano di un uomo un ramo ardente e lo agita verso i due corvi di Wotan: «volatevene a casa, e sussurrate all’orecchio del vostro signore ciò che oggi, qui sul Reno, avete visto e udito: come gli uomini soffrano, tradiscano, sperino, e muoiano». Fermenta in orchestra la vitalità del fuoco incantatore; Loge ancora presidia la rupe del magico risveglio, dove ormai non c’è più nulla da proteggere, più nessuno da terrorizzare: un mondo è finito, lo dicano i corvi al dio del fuoco, che si affretti anche lui a venire, poiché della fine degli dei è suonata l’ora, «e sono io che lancio l’incendio nella superba rocca del Walhalla».
Mentre il fuoco divampa, due guerrieri conducono Grane, il cavallo delle battaglie; Brünnhilde è tornata walkiria e scintilla il suo tema di giovane amazzone, ma accanto si fa strada un altro tema, apparentemente nuovo, di assoluto prestigio melodico: l’avevano cantato Sieglinde e Brünnhilde nel terzo atto della Walkiria a benedizione della nuova creatura, Siegfried stesso, ancora nascosto nel ventre materno; è il tema che sigilla tutto L’anello, rubricato come «redenzione d’amore», ma in questo momento suona come musica di nozze nuovamente celebrate nella fusione del fuoco.
Brünnhilde si è lanciata in groppa al cavallo: «Guarda, Siegfried! beata ti saluta la tua donna!», e con un balzo entra nelle fiamme del rogo.
La scenografia della catastrofe finale è descritta da minuziose didascalie che è necessità riassumere: le fiamme crescono sotto lo sguardo di uomini e donne atterriti; il Reno deborda, appaiono le tre figlie del Reno; Hagen, deposta la maschera d’impassibilità, si getta in acqua come un forsennato al grido di «a me l’anello!», ma le ondine, come tre Erinni vendicative, lo afferrano e lo trascinano nel profondo. Flosshilde, una di loro, riemerge tenendo alto l’anello; poco alla volta le acque si calmano, il Reno rientra nel suo letto dove le tre figlie nuotano e giocano giubilando con l’anello. Uomini e donne assistono angosciati all’incendio del Walhalla; all’interno appare il quadro descritto da Waltraute nel primo atto, con gli dei seduti immobili ai loro scanni; quando le fiamme hanno avvolto tutta la scena, cala il sipario.
Gli ultimi versi cantati da Brünnhilde prima di lanciare la torcia accesa sono il risultato di varie elaborazioni, sotto l’impulso di profondi mutamenti intervenuti nelle convinzioni politiche e filosofiche di Wagner. Nel testo conclusivo del 1874, come abbiamo visto, Brünnhilde è tutta azione: ordina di raccogliere legna per la pira, pensa Siegfried come una luce splendente, accusa gli dei e chiama in causa Wotan, dona l’anello alle figlie del Reno, dice ai corvi di far venire Loge che c’è lavoro per lui, appicca l’incendio, monta a cavallo e salta nel rogo.
Nelle versioni precedenti, Brünnhilde, pur sempre incendiaria del Walhalla, ragionava e faceva della filosofia morale: nel finale del 1852, già delineato nell’abbozzo in prosa del 1848, il messaggio che lasciava al mondo era il rifiuto di ogni potere, legge o istituzione: «beato nel piacere e nel patire, fate che solo esista amore». Ma questa conclusione, in cui traspare l’odio per ogni ortodossia, mai spento in Wagner, a un certo punto non gli parve più adatta; nell’estate 1856, tra il completamento della partitura della Walkiria e i primi schizzi musicali del Sigfrido, gli ultimi versi furono rifatti nello spirito della lettura di Schopenhauer intervenuta due anni prima: «sapete voi, dov’io mi dirigo? Dalla dimora io parto della brama, e la dimora dell’illusione fuggo per sempre; del divenire eterno le aperte porte mi chiudo alle spalle» (sembra di sentire Wotan nel secondo atto della Walkiria: «Sparisci dunque, superbo sfarzo, vuota vergogna di divino orgoglio… voglio una cosa sola: la fine!»).
Nessuna delle due versioni fu musicata quando nel 1872 Wagner affrontò la composizione dell’ultimo atto del Crepuscolo; qui, infatti, l’amore di Brünnhilde per Siegfried, vittima inconsapevole delle malefatte sotto l’effetto del filtro, rinasce ardito in antitesi alla rinuncia di Wotan e ai suoi patti ingannevoli. Brünnhilde alla fine campeggia da sola, giovane donna che l’ebbrezza di amare sprona verso l’infinito; nelle sue parole non ci sono più pensieri cosmici o considerazioni morali, è messaggera unicamente di sé, del suo sacrificio per raggiungere Siegfried, desiderosa solo di consumarsi in una sorta di estasi tristanica e nirvanica.
Il fatto è che a un certo punto Wagner drammaturgo e musicista ha preso il sopravvento sul pensatore, mettendo in decisiva evidenza un tema musicale, «redenzione d’amore», che per il suo carattere specifico e per i contenuti poetici veicolati fosse adatto a costituire una conclusione soddisfacente, non solo per Il crepuscolo, ma per tutto il ciclo dell’Anello del Nibelungo. Il tema, già sappiamo, proviene dall’ultimo atto della Walkiria, dove suonava come un inno alla vita, ipotecando così il senso delle successive riapparizioni: ora, mentre in scena succedono tutte le cose descritte nelle didascalie, quel tema si accompagna, sovrastandoli nel continuum sinfonico, ai temi delle figlie del Reno e del Walhalla; infine, riemerge da solo nelle ultime sette battute della partitura, in Re bemolle maggiore, in posizione eloquente per convalidarne la centralità.
Osservato da vicino, è singolare quanto questo tema, così carico di responsabilità, sia poco «wagneriano». Specialmente non wagneriana è la separazione netta di canto e accompagnamento, con quel salto di settima discendente che nelle insistite ripetizioni produce una melodiosità sovrabbondante, lontana dalla tematica wagneriana, negli ultimi anni sempre più scabra ed essenziale. In altre parole, c’è qualcosa di troppo «semplice», comunque sia di diverso, di troppo vicino a un finale angelicato di opera lirica («ne congiunga il Nume in ciel»); ora, proprio questa diversità deve essere stata calcolata dal musicista per staccare quel tema dal resto, come un’insegna, un simbolo: «inno per l’eroina», lo dichiarava Wagner secondo Cosima (Tagebücher, 23 luglio 1872); e «glorificazione di Brunilde», sempre riferito da Cosima in una lettera inedita a Edmund von Lippmann del 6 settembre 1875 (Giani 2017, p. 215): quindi il fascio di luce va tutto all’eroina, alla donna, più che alla plenitudine di una promessa miracolosa per un mondo da redimere e rigenerare.
Ma la decisione di soppiantare le parole per lasciare parlare la musica, in linea con la mentalità del più specifico romanticismo tedesco, apre anche margini di libertà interpretativa alla sensibilità dell’ascoltatore: «inizio di qualche cosa di assolutamente nuovo e redento che potrà rinascere dalla fine di tutto», come sentiva Giorgio Vigolo (1991, p. 172); oppure, secondo Franco Serpa, «estatica celebrazione della pace e della morte»; redenzione sì, ma «nella beatitudine del nulla» (Serpa 1991, p. 141); oppure ancora, puntando su quel tema ultimativo proveniente dalle bocche di Sieglinde e di Brünnhilde, apoteosi in un faustiano «eterno femminino» (Orlando 2013, p. 193).
A non cercare con troppa avidità nei nostri sentimenti, nelle ultime battute della tetralogia resta qualcosa di sospeso, di grandiosamente aperto; ma comunque di pacificato, come se un raggio d’indulgenza, di pietas cosmica, venisse a penetrare quella materia aspra e forte; come uno sguardo all’indietro sullo spettacolo di tante passioni, angosce, fantasmagorie, incantesimi, esplorazioni d’ombra; ma forse in quello sguardo c’è sopra tutto il congedo di Wagner dalla sua opera, l’addio all’impresa smisurata che l’ha tenuto avvinto per tanti anni.