Introduzione

1. Nell’occhio del ciclone.

Per Sainte-Beuve il 1848 era stato un «anno folle e fatale», nel quale l’idea stessa di civiltà culturale era stata compromessa in modo irreparabile; rispetto a quel ribaltamento, senza rimpiangere un regime politico o una dinastia particolari, il grande critico e scrittore guardava ai settant’anni compresi fra la morte di Luigi XIV e la presa della Bastiglia nel 1789 come a un’epoca felice, un «lusso dello spirito»: quando gli autori potevano nascere alla fama, lavorare, svilupparsi e morire «senza essere a ogni momento interrotti, gettati nell’incertezza, molestati da crisi sociali e politiche». Montesquieu «aveva potuto compiere tutte le fasi del suo genio, passare dalle Lettere persiane alle Considerazioni sui Romani ed elevarsi gradualmente allo Spirito delle leggi in virtù della sua sola evoluzione interiore»; una certa tranquillità, una pace non stagnante è necessaria nelle cose del pensiero e dell’arte; senza le quali non è possibile che monumenti letterari, opere di lunga lena, «grands et longs ouvrages», possano venire alla luce (Sainte-Beuve 1861, pp. 47-9).

Tutta diversa la situazione morale di Wagner a Dresda, dove proprio le condizioni tumultuarie della rivoluzione sembrano favorire la nascita di uno dei maggiori «monumenti» artistici del secolo, L’anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen) «spettacolo scenico in tre giornate e un prologo», che occuperà l’autore per un quarto di secolo.

Nella primavera del 1848 i fermenti rivoluzionari partiti dalla Francia e diffusi in Europa si stavano già affacciando sulla capitale della Sassonia; ultimata la partitura del Lohengrin nell’aprile 1848, Wagner si getta nell’attività politica, tiene discorsi all’Associazione patriottica, scrive articoli rivoluzionari sul giornale della città; non compone più nulla, ma dilagano i progetti artistici, come quando un vulcano si risveglia in un punto del mondo e da tutt’altra parte zampillano dalla terra getti e soffi ad alta temperatura. Nella mente di Wagner trentacinquenne passano come ombre di una lanterna magica i nomi e le figure di Federico Barbarossa, Sigfrido, Achille, Gesù di Nazareth, Wieland il fabbro; alle dense letture di miti germanici e di storia e teatro greco, si aggiungono i primi classici della cultura socialista, Feuerbach e Proudhon. Ma ai primi di ottobre del 1848 tutti questi fermenti coagulano in un progetto unico con la stesura in prosa di un abbozzo, La saga dei nibelunghi. Mito, e una prima versione poetica del dramma Morte di Sigfrido: fin dal principio vanno insieme singole personalità di eroi e sfondi di narrazioni mitiche, persone prime e saghe smisurate, un doppio regime d’invenzioni che scorrerà parallelo in tutto L’anello del Nibelungo.

2. Fuga in Svizzera.

Il 1° aprile 1849 Wagner dirige a Dresda il suo ultimo concerto come Kapellmeister: la Nona sinfonia di Beethoven, con grande soddisfazione del rivoluzionario Bakunin che si aggirava in frac per le strade della città già in ebollizione. A metà aprile il governo provvisorio si scioglie, ai primi di maggio scoppia l’insurrezione, si alzano le barricate, primi morti nelle strade: Wagner è all’avanguardia e partecipa a convulse riunioni al Municipio; ricercato, riesce a sfuggire fortunosamente alla fucilazione, e il 13 maggio approda esule a Weimar dove Liszt lo aiuta a prendere la via dell’esilio, consigliandogli di scrivere un’opera per Parigi; ma nella capitale francese Wagner non si riconosce più, vuole solo dedicarsi ai progetti che fanno ressa dentro di lui, e dopo un mese riparte rifugiandosi in ultimo a Zurigo. Quando vi si stabilisce nel luglio 1849, in una situazione di quasi totale incertezza economica, aveva in mano il suo più importante scritto teorico, Opera e dramma, e i due abbozzi dell’ottobre 1848, con la trama dell’intero mito nibelungico già delineata «in tutta la sua grandiosa complessità», come scrive a Theodor Uhlig il 12 novembre 1851 (Dahlhaus 1984, p. 101). Il temperamento di Wagner, è chiaro, era di quelli che creano meglio sotto la pressione degli eventi esterni, se non degli affanni: e se l’ideazione prima di un progetto si può anche avere in mezzo a tumulti e inquietudini, quasi rifugio dalle miserie materiali, salvaguardia dell’io travolto dai flutti, che Wagner abbia avuto la costanza di completare il monumento dopo ventotto anni, fra ostacoli di ogni sorta, malattie, dubbi, crisi dell’anima, inimicizie, problemi organizzativi, tracolli finanziari, è un fatto quasi unico nella storia della creazione artistica, uno spettacolo di forza e determinazione che ancora lascia meravigliati.

3. Fatti e antefatti.

Siegfried e il mito nibelungico non erano materia nuova negli anni della prima scoperta wagneriana; l’impulso a dare forma drammatica alle antiche saghe germaniche si era già acceso sotto la spinta del nuovo spirito nazionale e della ricerca romantica delle fonti e delle origini. Fra i prodromi dell’opera wagneriana si ricorda la ricostruzione della saga di Siegfried e Brünnhilde nella trilogia L’eroe del Nord (1808-10) di Friedrich de La Motte Fouqué, fra i primi apostoli del romanticismo berlinese; nel 1834 Ernst Raupach scrive la tragedia in cinque atti Il tesoro dei nibelunghi; è anche probabile che Wagner, quando incominciò a pensare alla Morte di Sigfrido, avesse nozione di un saggio del 1844 di Friedrich Theodor Vischer, Proposta per un’opera, che raccomandava «la saga nibelungica come testo per una grande opera eroica» (Dahlhaus 1984, p. 97).

Comunque sia, ciò che alla fine distingue Wagner da queste esplorazioni nelle terre del mito non è tanto il suo risalire ai carmi originali dell’Edda, la sua cospicua attrezzatura culturale insomma, quanto l’aspetto attuale della rilettura, la componente moderna che pone al centro della vicenda la potenza del denaro e la lotta per il potere come antitesi alla libera volontà dell’uomo, alle leggi del cuore, secondo la visione professata da Wagner nei suoi scritti rivoluzionari.

Quando a fine luglio 1849 il compositore incomincia la realizzazione musicale del prologo della Morte di Sigfrido, dopo un paio di tentativi s’interrompe e non riesce a procedere; il musicista, una cosa sola con l’uomo di teatro, si rende conto che l’argomento sotto mano, la morte dell’eroe, non è qualcosa di indipendente, di compiuto in sé, ma richiede un antefatto: allo stesso tempo, forte della sua esperienza teatrale, comprende che un antefatto, per essere efficace come teatro e come musica, non basta che qualcuno lo racconti, bisogna vederlo e ascoltarlo nella sua rappresentazione sensibile. Incomincia così una lievitazione della materia a ritroso: nel giugno 1851 la Morte di Sigfrido viene integrata con un nuovo dramma, Il giovane Sigfrido, e nel novembre il «doppio dramma» si amplia a «tetralogia» con la stesura nel 1852 del testo poetico dell’Oro del Reno e della Walkiria. Il processo è descritto con esattezza in una lettera a Uhlig dello stesso novembre (Dahlhaus 1984, p. 101), scritta con l’entusiasmo aurorale dell’impresa al suo inizio e totalmente incurante del fatto che nessun teatro al mondo avrebbe mai potuto allestire quattro opere in una, soltanto perché il soggetto ne risultasse pienamente comprensibile.

4. Uno sguardo all’Europa.

Anche l’opera italiana, intorno alla metà dell’Ottocento, era in movimento sotto le forme consuete: Rossini aveva concluso la sua parabola con il Guillaume Tell (Parigi, 1829), ma già erano alla ribalta, con alcuni dei loro capolavori, Bellini, Donizetti e il primo Verdi. Intorno agli anni quaranta-cinquanta del secolo la struttura generale dell’opera italiana era ancora articolata in «pezzi chiusi» – arie, duetti, concertati, cori ecc. – che tuttavia tendevano ormai a dilatarsi in scene più ampie; il divario fra i recitativi e i pezzi lirici, le arie, non era più netto come in passato, e tendeva ad avvicinarsi in ariosi e recitativi «accompagnati»; il «bel canto» esisteva ancora, anche se insidiato, specie nel giovane Verdi, da stress di espressività drammatica. L’influsso del romanticismo si faceva sentire nella fortuna della materia amorosa, derivata per lo più da drammi e romanzi della letteratura europea, ridotti a «libretto» da letterati pratici del mestiere che lo passavano più o meno pronto al compositore della musica; malgrado la crescente importanza dell’orchestra, il centro dell’opera italiana restava il canto: una vicenda, un teatro di voci.

In Francia, nonostante i sommovimenti politici e sociali, continua la fortuna dei generi prediletti, la tragédie lyrique come opera seria in grande stile, secondo la linea Gluck-Spontini, e l’opéra comique, con la sua componente realistica, accentuata dall’uso dei dialoghi parlati e da uno stile canoro più semplice di quello dell’«aria italiana», vicino ai modi quotidiani della romanza o della canzone a ritornelli; più che «comica», la materia prevalente è quella della commedia di mezzo carattere, pescando in fatti di cronaca, o in una novellistica tramata di equivoci e travestimenti. Sul versante serio invece, intorno alla metà del secolo si impone un tipo di teatro musicale, il cosiddetto grand opéra in cinque atti, votato ai soggetti storici con dispendio di grandiosi effetti scenici: complessi finali d’atto, centralità del balletto, largo impiego dei cori e delle masse sceniche, attenzione al colore locale, moderna scenotecnica ne erano i punti salienti. Dai primi esempi di Daniel Auber (La muette de Portici, 1828, che si conclude con l’eruzione del Vesuvio) e di Rossini (Guillaume Tell), il genere raggiunse il pieno sviluppo con la collaborazione fra Giacomo Meyerbeer e il fecondo, geniale librettista Eugène Scribe: Robert le diable (1831), Les Huguenots (1836), Le prophète (1849), le opere che più ebbero influenza europea come modelli di ambizione storico-teatrale: vi attinse anche Wagner per il suo Rienzi, l’ultimo dei tribuni (1837-40), la sua prima opera rappresentata con successo (Dresda, 1842); dello stesso genere le opere di Fromental Halévy, fra cui La Reine de Chypre (1841), che Wagner conosceva a fondo avendola «ridotta» per canto e pianoforte quando viveva a Parigi in cerca di fortuna. Il linguaggio armonico del grand opéra, spesso ricco di dottrina, si applica anche a ricostruire (o reinventare) stili musicali di epoche passate; l’orchestra, attenta alle innovazioni tecniche degli strumenti, dei fiati specialmente, è sempre trattata con accuratezza, individuazione psicologica, grandiosità di effetti.

In Austria e Germania, mentre l’opera seria vive ancora molto d’importazione dall’Italia e dalla Francia, «il nuovo» va a inocularsi nel genere minore del Singspiel: termine che equivale all’opéra comique francese per l’impiego dei dialoghi parlati e l’uso prevalente del Lied come stile vocale nutrito di canto popolare. In questo genere, che aveva alle spalle sommi capolavori come Il flauto magico di Mozart e il Fidelio di Beethoven, nasce la prima «opera romantica» di lingua tedesca, Undine (1816), di E. T. A. Hoffmann, il grande scrittore, ma anche musicista tutt’altro che superficiale; qui lo specifico elemento romantico si afferma con la rappresentazione di una natura magica e favolosa, popolata di forze e spiriti elementari che penetrano nel mondo degli umani. Su questa linea nasce il primo capolavoro di Weber, Der Freischütz (Il franco cacciatore), rappresentato nel 1821, dove alla natura animica si unisce la contrapposizione tra fantasmagoria diabolica (scena della «gola del lupo») e spirito nazionale nei cori di cacciatori. Con gli altri capolavori di Weber, Euryanthe (1823) e Oberon (1826), e le opere di Heinrich Marschner come Der Vampyr (1828) e Hans Heiling (1833), raggiunge la massima fortuna (ma limitata ai paesi di lingua tedesca) il genere della Zauberoper (opera magica), cui si collega direttamente la prima opera di Wagner, Die Feen (Le fate, 1834-36).

5. L’anello del Nibelungo.

Nella poetica dell’opera fiabesca affondano le radici anche le tre «opere romantiche» che concludono la giovinezza di Wagner, Olandese volante, Tannhäuser e Lohengrin, opere in cui sono già presenti molte delle novità principali introdotte da Wagner nella tetralogia. Tuttavia, incominciando il 4 settembre 1853 la composizione musicale dell’Oro del Reno, Wagner entrava nella fase maggiore della sua creatività, quella che porta a compimento la sua concezione di «dramma musicale»: i cui caratteri generali, semplificando molto, si possono riassumere in alcuni punti.

Base del pensiero wagneriano è che il «concetto» espresso dalla poesia deve essere portato alla verità del «sentimento» dall’azione fecondatrice della musica. L’ampliamento dal brano singolo alla «scena», presente un po’ dappertutto nella musica del tempo, nel dramma musicale è sviluppato all’estremo; il testo poetico, concepito e steso prima della musica, è intonato in un discorso continuo che abolisce ogni forma chiusa; la forma è decisa da un seguito di episodi definiti in se stessi che dipendono dalle situazioni via via incontrate dal testo nel suo procedere. Negato per principio è il pezzo d’assieme (duetto, terzetto ecc.) che, intrecciando più voci secondo leggi puramente musicali, impedisce la comprensione delle parole e quindi lo svolgimento del dramma: l’individualità dei personaggi è irrinunciabile, perfino il coro è destinato a sparire (Wagner 2016, p. 255). In teoria, negata è pure l’interruzione del flusso continuo prodotta dal recitativo; anche se, in pratica, ne permangono a lungo i residui, quando la corrente dell’orchestra si spezza in accordi separati, o in tremoli sottostanti, lasciando sola la voce a esporre con la massima chiarezza fatti e concetti.

Orchestra: la sua importanza, abbiamo visto, cresce ovunque nell’opera europea del secondo Ottocento. Ma altro è potenziarne le funzioni di accompagnamento, altro derivare le ragioni della musica stessa da una tradizione imperniata sulla classicità viennese e specialmente sulle Sinfonie di Beethoven: più di qualunque opera, fosse pure il Fidelio, sono la Nona sinfonia, l’Eroica, la Quinta, la Settima che rivelano Wagner a se stesso, ne formano la grammatica e la sintassi dell’espressione; così per Wagner l’orchestra diventa un alter ego dell’io narrante, qualcuno che conosce fatti e sensazioni meglio dei personaggi, che tutto sa, anticipa e riassume. Al suo ruolo guida è connesso l’uso dei cosiddetti «temi conduttori» (Leitmotive), simboleggianti ciascuno un personaggio o sentimento o situazione o oggetto, perciò circolanti non secondo leggi autonome di costruzione musicale, ma secondo il succedersi dei fatti, o l’insorgere di un ricordo o di una ammonizione futura. La forza rappresentativa e caratterizzante dell’invenzione tematica, prodigiosa in Wagner, è pari al lavoro di trasformazione subito da quei temi man mano che si prosegue nel racconto.

La parte vocale, come già nelle tre «opere romantiche», ma ora in modo più accentuato, si basa sulle proprietà fonetiche e prosodiche della lingua tedesca (con il caratteristico accento sulle sillabe radicali), articolate in un declamato nutrito di fermenti melodici anche slanciati; senza però arrivare a circoscrivere melodie compiute, sostituite da brevi segmenti, frammenti melodici di note vicine o già comprese nell’impalcatura armonica dell’orchestra: alla quale la melodia, come dice Wagner, «è legata da una catena perpendicolare» (Wagner 2016, p. 249).

La materia narrativa, ancora mista di storia e leggenda nelle tre «opere romantiche», nel dramma musicale dell’Anello del Nibelungo diventa completamente mitologica. Ai nostri fini è importante osservare che il mito serve a Wagner non per ritirarsi nelle nebbie o nella torre d’avorio, ma per penetrare meglio il dramma interiore dell’uomo, il «puramente umano» (Wagner 1850, p. 14), l’uomo assoluto, affrancato dai condizionamenti e dai filtri della storia; Wagner va all’indietro, nel passato indefinito del mito, per avere le mani più libere e poter dare forma in un presente senza tempo alle situazioni scovate dal suo fiuto di analista dell’animo umano. Malgrado l’amplificazione retorica e le venature di pangermanesimo connesse al suo temperamento, Wagner non celebra l’antica mitologia germanica per se stessa, non restaura il mito, ma ne illustra la fine; non glorifica, smantella: fin dal principio c’è luce di crepuscolo, gli dei hanno fatto il loro tempo, L’anello del Nibelungo è la storia della loro fine.

È poi da ricordare che la lunghezza della gestazione (1848-1876, se consideriamo la prima rappresentazione) ha finito col produrre nello smisurato edificio della tetralogia alcune crepe, fratture, cose non rifinite; in confronto, il Tristano e Isotta, I maestri cantori di Norimberga, il Parsifal sono opere più compiute, più perfettamente «composte»; ma L’anello del Nibelungo, proprio a causa della lunghezza dei tempi creativi, è diventato un’opera della vita, un diario spirituale. Il percorso era partito con il vento ottimista nel 1848, con la morte di un Siegfried che Brünnhilde conduce nel Walhalla a sostegno del mondo degli dei: è la visione di Wagner «giovane tedesco», apostolo di libertà anarchica che spezza e supera ogni ostacolo. Ma poi nella Walkiria incontra Wotan, il dio scisso e incerto, che scopre nell’amore incestuoso di Siegmund e Sieglinde il sentimento di una forza sconosciuta che lo seduce a trasgredire i patti di cui tuttavia è custode; preso al laccio dal destino, deve sacrificare Siegmund e punire Brünnhilde che ha agito contro la sua volontà. Sulla lacerazione interiore di Wotan, parallela al momento in cui Wagner incontra la filosofia di Schopenhauer, ruota il nuovo significato della tetralogia: la monumentalità dell’opera è corrosa dalla psicologia, in antitesi con la corrente ideologica della potenza coltivata dalla Gründerzeit (l’età dei fondatori) nella Germania dopo il 1870; il mito nibelungico, con l’impronta di decadenza e sfacelo impressa da Wagner, non poteva che approdare a una concezione fortemente pessimistica dell’esistenza.

Infine, oltre i limiti del dramma musicale, si deve ancora osservare che in quell’andare a ritroso nella composizione dell’opera immensa, dal finale al prologo, Wagner a metà Ottocento ha avuto l’intuizione di una dimensione del tempo e della narrazione mai tentata prima: con lo scavo di temi musicali che tanto più significano quanto più riappaiono in proiezioni innumerevoli, ha inventato, in una trama svolta polifonicamente, un tempo narrativo che dal passato rifluisce nel presente e viceversa, esercitando un influsso incalcolabile sulla narrativa di fine secolo, di Proust, Thomas Mann o Musil, e ancora di Conrad, Joyce, Faulkner.