Otto

maggio 2002

 

Mi è successa una cosa strana.

La mia memoria, che è stata a lungo offuscata e a tratti del tutto vuota, negli ultimi tempi è divenuta perfettamente lucida. Non riguardo a ciò che è appena successo; vago ancora a caccia dei miei occhiali e controllo sul menu del giorno che cosa mangeremo a pranzo, benché l’abbia letto tre minuti prima. No, la lucidità si limita a un periodo molto lontano nel tempo: l’estate in cui avevo tredici anni e a Göteborg c’era la Grande Esposizione del tricentenario.

Einstein dice che il tempo è qualcosa di diverso da quello che crediamo. Non è nulla di assoluto. È un’illusione, un trucco di magia per il nostro sguardo ingenuo.

In realtà io l’ho sempre saputo. Anche Bella lo sapeva. Tutti gli animali lo sanno. Loro non sono prigionieri del tempo come noi esseri umani.

Nemmeno l’oblio è quello che crediamo: una sostanza corrosiva che scioglie e distrugge. È solamente buio. Tutto quel che è accaduto è ancora lì, dentro quel buio, ma invisibile, come i mobili in una stanza di notte.

Adesso mi succede che questa oscurità si sia dissolta, e una piccola parte della mia vita sia stata messa in piena luce. Chiamarli ricordi suona sbagliato, poiché fa pensare a una fotografia che ha perso colore. Quello che sto vivendo io è molto, molto di più. Non ha niente di piatto e solidificato. È un mondo vivo, con profondità e movimento, colori e ombre, voci e profumi.

Mi trovo nel bel mezzo della folla all’Esposizione, sento il fiato caldo di Bella e la musica. Posso abbassare lo sguardo e scoprire una buccia di banana sulla sabbia umida. Vedere le sue fibre che vanno scurendosi, i granelli di sabbia e i piedi della gente che mi passa accanto, stivaletti lucidati di fresco e décolleté col cinturino. Posso muovermi liberamente, e da nessuna parte c’è buio oppure vuoto. C’è proprio tutto. Ed è più nitido di quanto sia mai stato. Ricordo perfino situazioni in cui non ero fisicamente presente. E scopro come ogni cosa sia collegata.

Perché lo vedo solo ora? In fondo è sempre stato lì. Forse perché negli ultimi tempi la mia esistenza è diventata una macchia vuota. Il mio presente non ha niente da offrire.

Suppongo che il cervello non abbia la forza di reggere le impressioni del passato, poiché deve concentrarsi sul presente. Grandi parti della vita devono essere oscurate. È così che funziona il tempo, immagino. Il raggio di una torcia che si muove a illuminare solo ciò che si trova più vicino.

Sì, dev’essere proprio così. È tutta una questione di luce.

 

 

Furono in molti a domandarsi come mai io, un povero ragazzo di campagna, fossi potuto andare alla celebre Esposizione del tricentenario trascorrendovi ogni giorno da maggio a ottobre. Come fosse stato possibile che io, che avevo visto solo campi di patate e di rafano e mucchi di letame, avessi avuto l’occasione di vedere acrobati, ristoranti di lusso, funivie e macchine enormi, e incontrare il re e ascoltare il grande Albert Einstein parlare della curvatura dello spazio. Come si spiegava?

Cominciamo dal principio.

Sono nato nel 1910 in una tenuta agricola dell’Halland, di proprietà di un conte e della sua famiglia. Mia madre era nata in Germania ed era arrivata lì come bambinaia dei figli del conte. Si era formata alla scuola superiore di puericultura della signorina Leonie Hartmann a Francoforte, una rinomata istituzione dalla quale provenivano molte bambinaie approdate in famiglie svedesi facoltose perché i loro figli imparassero a parlare e capire la lingua tedesca fin dalla tenera età.

Ho una fotografia della mamma insieme ai quattro bambini del conte. La vidi per la prima volta negli anni Settanta su un giornale, in un articolo che parlava della grande proprietà rurale e della nobile famiglia. Telefonai alla redazione e dissi che quella nella foto era mia madre, e me ne fecero avere una copia.

Mia madre e i bambini sono schierati sul vialetto del giardino. Il più piccolo è nella carrozzina. La mamma indossa una camicetta con jabot sotto la divisa da bambinaia, è slanciata e molto graziosa. Sorride sicura di sé, come se fosse la padrona di quelle terre anziché una dei suoi servitori.

È l’unica foto di lei che possiedo. È insieme ai bambini del conte. Non ho nessuna foto di lei con me.

Dopo nemmeno due anni rimase incinta e fu costretta a rinunciare al suo ruolo di bambinaia. Però si presero cura di lei e le fu concesso di rimanere. Al posto della stanza accanto a quella dei bambini le fu assegnata una casetta all’interno della tenuta, per lei e per il suo bambino. (Che poi ero io.) Tuttavia non poté più mettere piede nei bei saloni e fu degradata ad aiutante di cucina, con compiti ben più duri di quelli che aveva prima. Durante le sue lunghe giornate di lavoro si occupavano di me due donne più anziane, ex domestiche che non avevano più la forza per svolgere le pesanti mansioni in cucina e nella stalla, e che abitavano insieme in una piccola casa.

Povera mamma. Aveva una formazione specialistica in puericultura. Sapeva come i delicati lattanti dovessero essere sollevati e tenuti in braccio, quale temperatura dovesse avere l’acqua del bagnetto, come si dovessero annodare le fasce per non escoriare la pelle e come disporre i cuscini intorno a un bambino che imparava a stare seduto. Ma il suo, di bambino, era costretta a lasciarlo a due vecchie sporche e rimbambite. La sera mi portava a casa, mi lavava e mi metteva a dormire sussurrandomi parole affettuose e canticchiando canzoncine nella sua lingua. Una volta cresciuto mi leggeva storie da un’edizione illustrata delle fiabe dei fratelli Grimm e da altri libri tedeschi per bambini. Nei limiti in cui poteva e aveva il tempo di farlo, cercò di darmi una buona educazione. Con me parlava esclusivamente tedesco, lo svedese non lo imparò mai bene.

Non ho mai saputo chi fosse mio padre. Non è escluso che fosse il conte. Il suo matrimonio con la contessa non era felice e in seguito divorziarono. L’espressione di mia madre in quella foto – il mento sollevato a evidenziare l’eleganza del collo, il sorriso e lo sguardo fiero che punta con audacia diritto all’obiettivo – rivela che si sentiva bella e apprezzata. C’era il conte in persona, dietro la macchina fotografica?

La mamma morì di spagnola l’anno in cui compii nove anni. Un martedì le venne la febbre e il lunedì successivo era morta. Fu tutto così veloce che non feci nemmeno in tempo a capire. Credevo che presto si sarebbe alzata dal letto, di nuovo in salute. Ma quando il lunedì tornai da scuola, la porta della sua stanza era chiusa e la vicina di casa era in cucina con il dottore. Disse che dovevo andare da lei. Suo figlio fu insolitamente gentile con me e mi prestò il suo giocattolo, un piccolo cavallo che tirava un carro, guardandomi con aria compassionevole. Io trascinavo cavallo e carro sul pavimento imitando il verso dei cavalli veri, e udii la vicina bisbigliare a un’altra donna che era lì: «Povero piccolo, adesso è solo».

Mi fu concesso di restare con i vicini. Il marito faceva lo stalliere e io lo seguivo volentieri. In realtà alle scuderie non mi volevano, ma io mi ci infilavo di nascosto. Gli eleganti cavalli di razza mi affascinavano e al tempo stesso mi lasciavano perplesso. Come potevano quelle creature forti e imponenti sottomettersi agli esseri umani, tanto più deboli di loro? Perché non li disarcionavano schiacciandoli sotto gli zoccoli, per galoppare verso la libertà? Non avvertivano la propria forza? Al confronto, gli umili asini mi sembravano molto più saggi.

L’asina Bella, esattamente come mia madre, era stata importata dalla Germania per fare compagnia ai figli del conte. Ma, a differenza della mamma, Bella non era interessata a diventare un condiscendente passatempo per la classe superiore. Si era fatta subito rispettare, mordendo.

Il conte aveva acquistato dei finimenti decorati con allegre nappine e un carretto per portare a spasso i bambini. Ma l’asina si rifiutò di farsi legare a qualsiasi traino. Al primo tentativo demolì a calci il carretto, i cui resti furono abbandonati nella rimessa delle carrozze. Il conte comprò allora un pony ben addestrato che diventò immediatamente il beniamino dei bambini, e Bella poté dunque vivere in pace. Se ne stava nel suo recinto a pascolare, sola e dimenticata, tranne nelle settimane più fredde dell’inverno, quando qualcuno si ricordava di lei, andava a liberarla dalla neve e le trovava ricovero in un box della stalla.

Mi era stato detto di tenermi alla larga dall’asina, poiché era considerata pericolosa, ma io avevo preso l’abitudine di intrufolarmi di nascosto nel suo recinto. Mi sedevo nell’erba e la osservavo brucare. Lei faceva una pausa e ricambiava il mio sguardo. Un giorno mi si avvicinò e si lasciò accarezzare. Era come avvolta in una nuvola di sporco, e il suo folto pelame era cosparso di grosse croste di fango secco. Andai a prendere una spazzola nella stalla e cominciai a strigliarla con estrema cautela. Bella se ne stava immobile, gli occhi chiusi.

Iniziai a spazzolarla ogni giorno, e dopo un paio di settimane il capo delle scuderie notò che l’asina era strigliata e chiese chi fosse il responsabile. Io mi feci avanti e confessai, ma lui non mi credette. Continuai a strigliare Bella in segreto, e quando l’uomo si rese conto che ero davvero io a tenerla pulita, mi diede il permesso di occuparmi di lei.

Mi presi sempre più cura di Bella. Cominciai a cavalcarla a pelo. Poi cercai i finimenti con le nappine, le misi con accortezza il morso e la sellai nel suo recinto. Quando il capo della scuderia se ne accorse, fece riparare il carretto. Io lo attaccai a Bella e presi a girare per i viottoli di campagna. L’asina trotterellava così docilmente che non v’era dubbio che fosse stata addestrata come aveva asserito il venditore tedesco, anche se tutti avevano creduto che fosse una menzogna. I figli del conte vennero con me alcune volte, ma nel frattempo avevano ricevuto un altro pony – in sella al quale il maggiore si allenava a saltare gli ostacoli – e non erano più interessati all’asina. Per cui di solito me ne andavo in giro da solo con l’allegro carretto variopinto.

A Natale andammo a Göteborg, dove Bella doveva comparire in una rappresentazione sul sagrato della cattedrale. Io avevo una parte da pastorello. Molti le si accalcavano intorno per accarezzarla, e lei li lasciava fare finché c’ero io vicino. Bella faceva qualsiasi cosa, purché io fossi presente. Altrimenti si rifiutava. E se qualcuno cercava di costringerla, allora mordeva, s’impennava ragliando furiosamente o scalciava con le zampe posteriori.

In seguito, un distinto signore che aveva visto me e Bella durante lo spettacolo di Natale prese contatto con il conte, pregandolo di poter noleggiare l’asina durante l’imminente Esposizione celebrativa. Ci sarebbe stato bisogno infatti di piccoli animali da tiro per il cosiddetto Paradiso dei Bambini, ed erano alla ricerca di pony, capre e asini.

Il conte considerò un onore che la sua asina partecipasse alla Grande Esposizione e l’avrebbe prestata volentieri a titolo gratuito, ma a condizione che il ragazzo che se ne occupava, cioè io, l’accompagnasse. Senza di me l’asina era ingestibile.