Nils

25 giugno 1923

 

Il lunedì, prima di cominciare il turno, Nils fece di nuovo una rapida visita al Grand Hotel Haglund.

La hall era deserta, a parte una donna delle pulizie in grembiule celeste che passava il pavimento con segatura umida.

Il portiere era lo stesso del giorno prima. Adesso sembrava più disponibile. Annuì mostrando di riconoscerlo quando Nils si avvicinò al bancone.

«Il signor Müller non è tornato in albergo, questa notte» disse prima ancora che Nils avesse avuto il tempo di chiedere; poi continuò in tono sommesso piegandosi in avanti: «L’addetto al servizio in camera è salito con la colazione. Il signor Müller aveva prenotato la stanza per una settimana e chiesto che la colazione gli fosse servita tutte le mattine alle sette. Ma nessuno ha aperto, nonostante l’addetto abbia bussato diverse volte. Quando la cameriera del piano è entrata nella stanza un po’ più tardi, l’ha trovata vuota. Anche il bagaglio era sparito. Chiaramente se n’è andato senza pagare. Be’, in ogni caso non può essere tornato a Berlino».

Il portiere sventolò trionfante il passaporto di Müller.

«Temo che quel passaporto sia falso» disse Nils. «Ma è fatto bene.»

Il portiere parve avvilito.

«Naturalmente vorrà sporgere denuncia» disse Nils servizievole.

Gli serviva una denuncia per poter cercare Weyland durante l’orario di lavoro.

Il portiere agitò la mano in un gesto dissuasivo. «Questo è compito del direttore. Sarà qui fra circa mezz’ora.»

«Nel frattempo potrei parlare con la cameriera che è entrata nella stanza?»

Un fattorino lo scortò all’ascensore e poi su, fino a un corridoio con passatoie di un rosso scuro così spesse che Nils non sentiva i propri passi.

Trovarono la cameriera in una suite, intenta a pulire la vasca da bagno. Nils tossicchiò, e la donna mollò la spazzola dura con gran fracasso, spaventata dalla sua comparsa silenziosa.

Sì, era esatto, nella stanza del signor Müller quel mattino non c’era nessuno, nonostante l’avesse prenotata per una settimana.

«Ha vuotato il cestino della carta?»

«Certo» rispose la cameriera, raddrizzando la schiena con una smorfia. «Fa parte dei miei compiti.»

«Dove?»

«Nel bidone della spazzatura, ovviamente. Tranne i giornali. Quelli li lasciamo sempre in cucina, dove vengono utilizzati dal personale in vari modi: per accendere le stufe, per avvolgere gli scarti e cose del genere.»

«C’erano dunque dei giornali nella stanza di Müller?»

«Sì, ce n’erano.»

Nils si rivolse al fattorino che aspettava sulla soglia impettito come un soldatino di piombo.

«Vuole accompagnarmi in cucina?» chiese.

Scesero con un altro ascensore, assai più modesto, riservato al personale. Nils lesse le piccole targhe accanto ai numeri dei piani e notò che l’ascensore arrivava anche al cortile sul retro e alla cantina.

In cucina i cuochi stavano iniziando a preparare il pranzo. Il profumo del brodo che sobbolliva si mescolava a un meno allettante odore di pesce crudo.

«C’è merluzzo oggi sul menu?» disse Nils a un aiutante di cucina, che stava avvolgendo gli scarti del pesce in un foglio di giornale.

Nils sbirciò sopra la sua spalla. Da quanto poteva distinguere fra la massa di interiora, lische e pinne, si trattava di un giornale tedesco.

«Viene dalla stanza del signor Müller?» chiese.

L’aiutante lo guardò confuso.

«Il merluzzo?»

«Il giornale. Arriva da una stanza dell’hotel?»

«Non lo so. L’ho preso in cima a quel mucchio laggiù» rispose il ragazzo. «Ho fatto male?»

Nils si avvicinò alla cassa con i giornali. Sopra la pila di quotidiani c’era un periodico più piccolo, anche quello in una lingua straniera. Inglese, indovinò Nils prendendolo, una lingua che non padroneggiava; ma il nome «Einstein» vi ricorreva di continuo.

Lo prese e insieme al fattorino tornò di sopra.

«Questo era nel cestino della carta del signor Müller?» domandò, mostrando il periodico alla cameriera del piano.

Era ancora occupata nella suite, adesso a pulire lo specchio del bagno, e preparata al suo arrivo. Lo guardò dallo specchio senza interrompere il lavoro.

«Non mi ricordo di certo quello che c’era nel cestino» rispose la donna con una risata, ma si ricredette subito. «Sì, in effetti» aggiunse; poi si voltò per osservare meglio il periodico. «Ha ragione. Questo piccolo giornale curiosamente me lo ricordo, è un po’ diverso dai soliti quotidiani. Nel cestino ce n’erano uno grande e uno piccolo. Tutti e due stranieri.»

«Grazie. Lei ha un ottimo spirito di osservazione» disse Nils.

Uscito dal bagno, si fermò per guardarsi intorno nella suite: i mobili in noce lucido, i ricchi tendaggi color verde mandorla e i vasi con grandi gigli bianchi. In vita sua non era mai stato in una stanza come quella.

Arrotolò il periodico, lo infilò in tasca e insieme al fattorino tornò nella hall per incontrare il direttore dell’hotel e raccogliere finalmente la denuncia.

Due ore dopo era all’Esposizione. Cercò la redazione del Kronan och lejonet, che sembrava essere ben nascosta in qualche angolo dell’edificio dell’amministrazione. Le indicazioni sui cartelli lo guidarono su per le scale e attraverso corridoi, dove diverse persone si muovevano frettolosamente avanti e indietro con fogli e raccoglitori. Dietro le lunghe file di porte si sentivano squillare telefoni e ticchettare macchine da scrivere e calcolatrici. Nils si rese conto di trovarsi nel quartier generale dell’Esposizione; lì c’erano quelli che reggevano le fila del grandioso spettacolo.

Poi trovò la porta che cercava. Quando bussò non successe nulla, per cui aprì ed entrò.

I locali erano angusti e impregnati di fumo. Chiese di Ellen Grönblad. Un uomo intento a battere sui tasti mormorò qualcosa di inintelligibile con la sigaretta che gli ballonzolava fra le labbra.

Nils si fece avanti nella redazione e scorse Ellen a una scrivania nell’angolo, con un abito a quadretti bianchi e neri dal colletto candido e piatto. Anche lei stava scrivendo a macchina. Una ciocca di capelli era sfuggita dalla sua morbida acconciatura.

Prima di farsi vedere, rimase immobile qualche istante a osservarla da lontano. Sembrava preoccupata, quasi incollerita, e picchiava forte sui tasti, come se la macchina da scrivere fosse un nemico da prendere a legnate. Nils si chiese se lui avrebbe mai imparato a battere a macchina con tanta velocità e determinazione.

«È qualcosa di noioso, signorina Grönblad?»

Ellen girò la testa, e la sua espressione irata si trasformò in un sorriso. «Agente Gunnarsson! Allora alla fine è riuscito a trovarmi?»

Con un gesto rapido rimise a posto la ciocca ribelle.

«Forse disturbo? Aveva detto che sarebbe stata felice di farmi da guida. Ma se è occupata, posso venire un’altra volta.»

«No, nessun problema. Devo solo finire di scrivere le previsioni del tempo.»

«Sarà brutto come al solito?»

«Purtroppo sì. Ma adesso comincia quasi a essere divertente. Pioggia, pioggia tutti i santi giorni. Sembra uno scherzo di cattivo gusto. Un paio di righe ancora e sono da lei.»

Poco dopo stavano camminando nell’area dell’Esposizione sotto gli ombrelli aperti. Le strade erano fangose, e dove il terreno era in pendenza si formavano piccoli rivoli. L’acqua sporca schizzava sui bei vestiti e sulle scarpe lustre dei visitatori.

«Chi dice che a Göteborg piove sempre riceverà acqua al suo mulino. Molta acqua» disse Nils, tentando di essere spiritoso.

Ellen rise, probabilmente per cortesia. Battute del genere le sentirà tutti i giorni, pensò Nils.

«Già. Secondo il redattore bisogna far attenzione se ci si siede sotto il tendone della terrazza al ristorante Centrale» disse lei. «Se si mette il bicchiere del grog sul bordo del tavolo, si rischia di ritrovarsi con un grog annacquato.»

Nils rise con riluttanza a quella battuta, molto più azzeccata della sua.

«Che cosa vorrebbe vedere?» gli domandò Ellen. «Il grande Padiglione della Meccanica, immagino, come tutti gli uomini?»

«Con piacere.»

Arrivati al ristorante Centrale svoltarono a sinistra e poi presero la strada pedonale sopra il viadotto, costeggiata da botteghe con vetrine. Era strano pensare che sotto di loro ci fosse la trafficata Korsvägen, come se avessero collocato un nuovo strato sopra la vecchia città.

Hostess in divisa blu vendevano spille del tricentenario e boccette ricordo con il profumo creato per l’occasione, e accanto alla sagoma di un nero con gli occhi elettrici che si muovevano, un venditore di banane gridava senza interruzione: «Banane della Giamaica, banane della Giamaica!»

«Ah, quelle banane» sospirò Ellen. «La gente mangia banane in continuazione e getta le bucce dappertutto, e ci si scivola sopra. Non so quante vittime di cadute da buccia di banana abbiano dovuto curare, all’infermeria dell’Esposizione.»

 

 

Il Padiglione della Meccanica era una cattedrale d’acciaio dedicata alle nuove potenze del tempo: acqua, vapore ed elettricità.

Nils ammirò il generatore trifasico di Asea, il telefono automatico di LM Ericsson, la locomotiva elettrica, le eliche per le navi, i torni per metalli e la più grande turbina idraulica del mondo.

In fondo al padiglione, sopra tutte le macchine, troneggiava in cima a una colonna il cuscinetto a sfera di SKF. Le lucide sfere d’acciaio brillavano e scintillavano nella luce che scendeva dalle finestre sul soffitto. L’azienda si faceva ricordare anche con frecce di cartone che indicavano dove si nascondevano tutti i suoi prodotti, che sembravano essere presenti in quasi tutte le invenzioni esposte nel padiglione. Le piccole sfere instancabili giravano all’interno di vagoni ferroviari, automobili e macchinari industriali, perfino nell’imponente cannone Haubitz di Bofors.

Ellen, che era già stata diverse volte nel Padiglione della Meccanica, non ne era più così impressionata.

«Si deve veramente credere a quell’aggeggio?» disse in tono un po’ critico indicando una macchina che a Nils sembrava assomigliare all’attrezzo che sua madre usava per separare la panna dal latte, ma che a detta di chi la presentava era una macchina lavapiatti.

«Sì, cari signore e signori. Riempite con acqua bollente, mettete il coperchio e girate qualche volta la manovella. Se i piatti sono sporchi di residui secchi dovete calcolare un minuto, altrimenti ne basta mezzo. Magia, direte voi?» esclamò l’uomo, benché né Ellen né Nils né nessuno degli altri visitatori che osservavano l’apparecchio si fossero espressi. «No, amici miei. Il segreto si chiama forza centrifuga! Una forza straordinariamente efficace. Semplice fisica, tutto qui. Nessuna magia.»

Una donna fu incaricata di girare la manovella, cosa che fece con grande serietà. Quando l’uomo, che indossava un camice bianco come un medico, aprì il coperchio e lo sollevò con una presina, il piatto fumante era perfettamente pulito.

«Magari era già pulito» bisbigliò Ellen a Nils. «Io non ho visto se era sporco. Proseguiamo?»

«Posso chiederle una cosa?» disse Nils.

«Riguarda l’Esposizione?»

«No. Lei sa leggere l’inglese, signorina Grönblad?»

Dovevano avvicinare il più possibile le teste e quasi urlare per sovrastare il brusio delle voci e dei macchinari.

«Molto poco» gridò Ellen. «In realtà, quasi niente. Perché me lo chiede?»

Nils prese dalla tasca interna del soprabito un piccolo giornale ripiegato, che la pioggia aveva un po’ inumidito. Lo lisciò e lo mise su un fornello elettrico.

«Di che periodico si tratta?» chiese Ellen.

«Non lo so. Paul Weyland l’ha lasciato nella sua stanza d’albergo quando se n’è andato alla chetichella senza pagare il conto.»

«Ah. Dunque una traccia di quell’individuo ce l’avete.»

Ellen si piegò sul giornale e lo esaminò curiosa.

«Academy of Nations» lesse. «L’Accademia delle Nazioni. Non ne ho mai sentito parlare. Ma sa una cosa? Ture, mio fratello, è allo stand della SKF. È stato un anno in Inghilterra e parla inglese correntemente. Può tradurlo per noi.»

Avvicinandosi alla colonna del cuscinetto a sfera, Nils vide che era circondata da una bassa barriera: ricordava la balaustra di un altare, il che rafforzava l’impressione religiosa. E quando si trovarono davanti scoprì che la barriera non delimitava una superficie vuota, com’era sembrato da lontano, ma un’apertura circolare attraverso cui si poteva guardare giù, dove la colonna aveva la base. La Svenska Kullagerfabrik aveva la sua esposizione su entrambi i piani, dove tutto ruotava intorno alla sfera d’acciaio, la sfera perfetta. C’erano un’enorme ruota mossa da sfere da mezzo grammo che rotolavano fuori da un piccolo becco, e un grande globo terrestre d’acciaio rotante con incisi i continenti e segnate tutte le filiali della società.

Trovarono il fratello di Ellen al piano inferiore, a illustrare didatticamente il funzionamento di un piccolo scivolo con due vagoncini in competizione fra loro, uno dotato di cuscinetti a sfera e l’altro senza. Ture concludeva facendo passare fra il pubblico un piccolo cuscinetto a sfera. I visitatori tenevano l’oggetto luccicante sulle palme delle mani e ammiravano le sfere che, perfettamente tonde, erano contenute nel loro baccello circolare, pronte a fecondare il paese con il benessere.

Ellen si accaparrò Ture prima che iniziasse una nuova dimostrazione. Fece le presentazioni, quindi si spostarono in un angolo appartato, dove Ture fu invitato a sfogliare il periodico portato da Nils. Il ragazzo, poi, tradusse ad alta voce l’articolo in prima pagina. Il contenuto era grossomodo lo stesso del discorso di Weyland a casa della zia: Einstein era un bluff. La sua teoria della relatività era un plagio di teorie di altri scienziati. Era erronea e blasfema. (Il che doveva logicamente comportare che anche gli scienziati che Einstein aveva plagiato avevano sbagliato?, pensò Nils.)

«Grazie, è sufficiente» lo interruppe Ellen. «Ma chi pubblica questo giornale?»

«Mmm» fece Ture, sfogliando le pagine finché non trovò un piccolo riquadro in un angolo in basso a destra. «Academy of Nations. An International Organization for the Most Enlightened Men on Earth. Oh-la-la. Le persone più illuminate del mondo. Niente male.»

Aprì un’altra pagina e iniziò a tradurre una recensione in cui il professor A parlava in termini entusiastici di un trattato scientifico del professor B. S’interruppe e passò a un’altra recensione, in cui il professor B ricopriva di lodi il geniale professor A. L’effetto era talmente comico che tutti e tre scoppiarono a ridere.

Lo stand cominciava a essere molto affollato. Un signore pelato in panciotto e papillon si piegò sopra la balaustra e guardò verso di loro, gridò qualcosa e indicò i vagoncini sullo scivolo. Ture fece un cenno d’assenso.

«Il mio capo» spiegò, riconsegnando il periodico a Nils. «Adesso devo lasciarvi.»

«Ma che cosa sarà questa Academy of Nations, in definitiva, più che un’associazione per la reciproca ammirazione? Io non l’ho ben capito» disse Ellen.

«Avevo un professore di matematica al Chalmers» disse Ture. «Enok Dahlberg. Era un fervente sostenitore della teoria della relatività. ‘Se quei vecchi babbei del comitato del Nobel avessero capito anche solo un briciolo della teoria, avrebbero dato il premio a Einstein già da un pezzo’ ripeteva sempre. Lui forse saprà qualcosa di quell’associazione. Può portargli i miei saluti. Discutevamo spesso, noi due. Un tipo veramente simpatico. Ora devo proprio scappare.»

«È stato di grande aiuto» disse Nils. Piegò il periodico e lo infilò nella tasca del soprabito.

 

 

«Le piacerebbe vedere qualcos’altro?» domandò Ellen quando furono usciti dal Padiglione della Meccanica. «L’Esposizione dell’Automobile?»

«A dire il vero vorrei provare la funivia» rispose Nils.

«Non preferisce stare al chiuso?» chiese Ellen. «Sta ancora piovendo.»

«I vagoncini sono coperti» disse Nils, indicando i gusci sospesi che si muovevano come gialle crisalidi nella foschia.

Aprirono gli ombrelli e ripercorsero il viadotto verso la stazione della funivia dietro il Padiglione della Memoria.

Dopo qualche minuto di coda, erano seduti di fronte in un vagoncino. Si sentì il brusio del motore dell’impianto, il vagoncino dondolò. Si scambiarono un’occhiata, sorrisero nervosamente e con un fruscio partirono dalla stazione.

Nils guardava giù, oltre il bordo; viaggiavano alti sopra le automobili, gli autobus e i tram di Korsvägen, sopra il viadotto con le sue botteghe e i suoi venditori, sopra le cime degli alberi e verso il parco divertimenti, dove migliaia di ombrelli si affollavano al pari di meduse in un’insenatura. Come volare, pensò Nils. La prospettiva a volo d’uccello lo inebriava.

«E adesso» disse quando furono di nuovo a terra «vorrei andare sulle montagne russe.»

Aveva completamente dimenticato che era fuori per questioni di servizio.

Camminarono insieme nel parco divertimenti. Tutti intorno a loro sembravano allegri e contenti sotto gli ombrelli. Gli organetti meccanici delle giostre suonavano a tutto volume le ultime canzoni di successo, Maggidodi e Bobby, du har väl ont i håret, e davanti a tende dai colori vivaci invitavano ad ammirare incantatrici di serpenti tatuate e autentici arabi.

Alle montagne russe dovettero depositare ombrelli e cappelli e ricevettero una piastrina con un numero per il ritiro. Poco dopo erano su un treno lanciato lungo discese vertiginose a una velocità che Nils non aveva mai sperimentato. Si sentiva schiacciare il viso contro la pioggia come se si fosse tuffato di testa in un lago.

A una curva stretta fu schiacciato contro Ellen. Sentiva ogni parte del suo corpo: i capelli fradici, la spalla, il seno morbido e i muscoli tesi della coscia. Non poteva evitarlo, benché cercasse di fare resistenza.

Alla curva successiva fu lei che, ridendo a crepapelle, finì addosso a lui.

Nils sentiva risuonare in testa le parole dell’imbonitore che presentava la macchina lavapiatti: «La forza centrifuga... una forza straordinariamente efficace».

Si avvicinavano alla fine del giro, e il treno frenò energicamente. Nils si tastò ansioso la tasca del soprabito. Sì, il periodico c’era ancora.

 

 

«Allora, Gunnarsson, com’è andata?» si informò il commissario Nordfeldt quasi in affanno quando Nils entrò alla stazione di polizia. «Sa dove si nasconde quell’imbroglione? E dov’è stato, fra parentesi? È fradicio come un gatto annegato. Non ce l’ha un ombrello?»

«Ero in bicicletta, commissario.»

Non poteva certo dirgli che sulle montagne russe era vietato portare l’ombrello. Ma Nordfeldt non aveva tempo per le sue spiegazioni.

«Andiamo nel mio ufficio» ordinò, avviandosi a passi veloci verso le scale.

«Allora» continuò quando ebbe chiuso la porta, «quella pista ha portato da qualche parte?»

Nils era sorpreso del suo improvviso interessamento. Quella mattina aveva consegnato la denuncia del direttore dell’albergo relativa al cliente che se n’era andato senza pagare e aveva detto di aver trovato una pista da seguire. «D’accordo, ci può provare» aveva borbottato Nordfeldt, mettendo la denuncia in una delle alte pile di scartoffie che aveva sulla scrivania. «Ma i furbacchioni di quel calibro sono sfuggenti come anguille.»

Davanti al periodico trovato nella stanza di Weyland si era stretto nelle spalle.

«Un giornale inglese» aveva constatato dopo un’occhiata veloce. «Ciò dimostra che abbiamo a che fare con un furfante internazionale. Probabilmente a quest’ora sarà già a bordo di qualche nave diretta in Inghilterra o in Germania.»

Ma adesso tutt’a un tratto Nordfeldt sembrava molto interessato. Nils ottenne presto una spiegazione.

«Ha telefonato la polizia di Stoccolma» gli comunicò il commissario sedendosi alla scrivania. «Anche lì Weyland se n’è andato alla chetichella da un albergo senza pagare. Cinque notti in una suite di lusso e altrettante cene al ristorante dell’hotel, dopo di che si è dileguato, probabilmente dall’uscita riservata al personale. Un altro ospite l’ha visto infilarsi nell’ascensore del personale in piena notte. Documenti non aveva avuto bisogno di lasciarne, poiché era benvestito e dava l’impressione di essere una persona affidabile. Sì, sì. A Stoccolma sono particolarmente ansiosi di beccarlo. Ha anche cercato di indurre delle persone a investire grosse somme nei suoi progetti fasulli. Non sanno se qui in Svezia ci sia riuscito, ma a detta dell’ambasciata tedesca quell’individuo è veramente un pessimo elemento.»

Nordfeldt era così infervorato che incespicava nelle parole, e a Nils sembrava di vedere perfino un po’ di bava agli angoli della bocca.

«Comunque sia» continuò il commissario tirando il fiato, «ho riferito che l’avevamo rintracciato al Grand Hotel Haglund ieri, ma che è riuscito a svignarsela durante la notte. Ho detto che avevamo una traccia molto interessante e un detective la stava seguendo. Per cui, com’è andata? Dove accidenti è stato tutto il giorno?»

«Ho svolto delle indagini all’Esposizione» disse Nils.

«All’Esposizione? Certo!» Nordfeldt batté la mano aperta sulla scrivania. «Se è ancora a Göteborg, è ovviamente lì che starà; le Esposizioni sono come carta moschicida per individui del suo stampo. E cos’è successo? L’ha visto?»

«Purtroppo no. Ma sono riuscito a farmi tradurre il contenuto del periodico. È riconducibile a un’organizzazione internazionale di cui non avevo mai sentito parlare prima, molto critica verso Albert Einstein. C’è un professore al Chalmers che potrebbe saperne qualcosa.»

«Chalmers? Mmm» borbottò Nordfeldt. «Sembra un po’ un binario morto. Ma dobbiamo seguire tutte le piste.»