La sede del Chalmers Tekniska Institut, il Politecnico di Göteborg, era un edificio neorinascimentale in Storgatan, elegante ma troppo piccolo per ospitare le orde di futuri tecnici, ingegneri e scienziati che i tempi moderni esigevano. A Gibraltarbergen era stata individuata un’area collinare che avrebbe dovuto ospitare un nuovo edificio più adeguato, e l’anno seguente dovevano cominciare a far saltare la roccia per gettarne le fondamenta.
Enok Dahlberg però non poteva lamentarsi per lo spazio che aveva a disposizione. Il brizzolato professore accolse Nils in una stanza grande quanto un salone, con poltrone, librerie incassate e una meravigliosa stufa di maiolica. Si giustificò raccontando una storia complicata su come quell’ufficio faraonico, in origine del rettore, fosse passato a lui, e che ovviamente si sarebbe dovuto accontentare di qualcosa di ben più modesto una volta che la nuova sede fosse stata ultimata. Sempre che riuscisse a vedere quel giorno.
Invitò Nils ad accomodarsi in una delle poltrone a orecchioni accanto alla stufa e prese posto nell’altra.
«Allora, sovrintendente. A che cosa devo l’onore?» chiese il professor Dahlberg.
La sua testa si protese fra le spalle spioventi; a Nils fece venire in mente una vecchia tartaruga indolente che sbircia fuori dal guscio. Lo sguardo dietro gli occhiali tondi era vispo e vigile.
Nils gli portò i saluti del suo ex allievo Ture Grönblad e fu molto scrupoloso nel riferire quanto Ture avesse apprezzato il suo insegnante e le loro discussioni.
Enok Dahlberg si illuminò. «Ture, sì! Era un ragazzo in gamba. Andò alla SKF dopo l’università, non è così? Adesso abbiamo qui il fratello. Bravi ragazzi tutti e due. Che chiacchierate ci facevamo sulla matematica, Ture e io! Ha ha ha!»
Ridacchiò deliziato. Nils, che aveva ricordi traumatici di tabelline e bacchette di vimini, aveva qualche difficoltà a immaginare che la matematica potesse essere qualcosa di cui ridere.
«Professor Dahlberg, lei è interessato alla teoria della relatività di Einstein, se ho ben capito.»
Dahlberg assunse un’espressione meravigliata.
«È venuto qui per discutere la teoria della relatività con me, sovrintendente?»
«No» disse Nils con un sorriso. «Non è affatto questa la mia intenzione, glielo posso assicurare.»
«Peccato.» Il professore schioccò la lingua, dispiaciuto. «Sarebbe stato interessante avere l’opinione di un poliziotto, per sentire qualcuno di diverso dai soliti artisti e sovversivi. Come fisico sono ovviamente molto coinvolto: la teoria della relatività ha un’importanza epocale. È uno scandalo che il professor Einstein abbia ricevuto il Nobel soltanto ora! Così in ritardo, un autentico scandalo! Non è un bene per il premio Nobel e non è un bene per la Svezia. C’è quasi da vergognarsi per il comitato.»
«Non hanno forse capito la grandezza di Einstein?» domandò Nils mentre prendeva bloc-notes e matita dalla tasca interna.
«No, no, no.» Dahlberg scuoteva la testa con decisione. «E non c’è nemmeno bisogno che lo facciano. Hanno una quantità di esperti con cui consultarsi, persone competenti, sia in Svezia sia all’estero. È a loro che dovrebbero dare ascolto e non a... certi altri. Comunque adesso, grazie al cielo, è entrato qualche soffio d’aria fresca in quell’ammuffita congrega. La proposta del professor Oseen di conferire il Nobel ad Einstein per l’effetto fotoelettrico è stato un colpo di genio che ha permesso ai membri del comitato di salvare la faccia. Però è davvero triste che sia stato necessario ricorrere a un compromesso del genere. E questa faccenda che non mollano i soldi finché lui non verrà qui a tenere il suo discorso!»
Dahlberg chiuse gli occhi con aria afflitta. «Che umiliazione! È meraviglioso per noi che Einstein venga a Göteborg, si capisce, ma sembra una piccola vendetta per il fatto che non fosse presente alla premiazione l’autunno scorso a Stoccolma, non le pare?»
«Quella cosa che ha detto a proposito di ‘certi altri’. A chi pensava?» domandò Nils.
Il professor Dahlberg corrugò la fronte.
«Ho detto questo?»
«Sì, che il comitato del Nobel ha dato ascolto a ‘certi altri’» spiegò meglio Nils con una rapida occhiata al taccuino.
«Ah sì, sì. Come sicuramente capirà, non posso fare nomi. Ma non è certo un segreto che Einstein abbia avuto grandi forze che gli si opponevano, in primo luogo in patria, ma anche in altri paesi.»
«Anche qui in Svezia?»
«Oh sì. Ci sono persone a Uppsala che hanno fatto pressioni sul comitato riguardo alla questione.»
«In che modo? Con delle minacce?»
Dahlberg scoppiò in una risata secca.
«Non credo che ce ne sia bisogno. L’adulazione è altrettanto efficace in cerchie come quella. Non ha idea di quanto siano vanitosi quei signori.»
«Compensi illeciti?»
«In forma di riconoscimenti e titoli, forse. Non di denaro.»
«Si sentirebbe di affermare che esiste un’opposizione organizzata contro Einstein?»
Dahlberg rimase un momento in silenzio. Si sentivano solo il ticchettare sordo di una vecchia pendola e la pioggia che cadeva piano. Alla fine disse: «Esiste un’organizzazione, sì».
Nils infilò la mano nella tasca del soprabito ed estrasse l’organo ufficiale dell’Academy of Nations, ormai piuttosto umido e spiegazzato. Allungò il periodico a Enok Dahlberg, che si protese rigido dalla sua poltrona per prenderlo.
«È questa l’organizzazione che aveva in mente?»
Dahlberg si aggiustò gli occhiali e si piegò in avanti.
«Sì» disse annuendo. «Proprio questa.» Guardò Nils con aria interessata. «Dove se l’è procurato?»
«In un albergo» rispose Nils conciso. Riprese il giornale e se lo infilò in tasca. «Dunque lei conosce questa organizzazione?»
«Diciamo che ho un’idea di cosa sia» borbottò Dahlberg.
«Si tratta forse di una società segreta?»
«No, per carità, segreta no. Uno dei leader è un americano di origini svedesi. Hanno il loro quartier generale in America e delle sezioni in altri paesi. Sembra che Henry Ford li appoggi con donazioni. Ma a quanto pare non hanno alcun registro pubblico degli iscritti; evidentemente non desiderano sbandierare la loro affiliazione.»
«Perché no?»
«Neutralizzerebbe lo scopo dell’organizzazione.»
«Che è?»
«Minare la fiducia in Einstein. Macchiare la sua reputazione. Cancellarlo dal mondo della scienza.»
«È uno scopo un po’ strano per un’organizzazione. Perché è così importante liberarsi di Einstein?»
«Probabilmente ci sono tante risposte quanti sono i membri dell’organizzazione.»
«I membri dell’organizzazione» ripeté Nils. «Che tipo di gente sono?»
«Mmm» disse Dahlberg, e adesso sorrideva di nuovo. «È un gruppo eterogeneo. Mi piacerebbe essere una mosca sulla parete durante una delle loro riunioni. Se poi ne tengono, di riunioni, cosa di cui dubito. Molti dei membri attivi sono ricercatori nello stesso ambito di Einstein. Sorpassati, falliti e amareggiati per le loro carriere mancate. Troppo conservatori per adattarsi ai tempi nuovi. O al contrario troppo moderni, con idee ardite che nessuno riesce a comprendere. Forse geniali, forse matti da legare, chi lo sa? A quanto dicono, le loro teorie sono rivoluzionarie quanto quelle di Einstein. Alcuni sostengono perfino di aver scoperto la teoria della relatività. Poi ci sono i seguaci della religione, che ritengono che Einstein bestemmi Dio mettendo in discussione ciò che ha creato, il tempo e lo spazio. Lo vedono come un emissario del diavolo. Poi abbiamo gli estremisti di destra, che lo considerano un sovversivo e rivoluzionario. E naturalmente gli antisemiti. Einstein è ebreo, come di certo saprà. Sì, è davvero un’accolita molto eterogenea. L’unica cosa che li unisce è l’odio per Einstein.»
Nils annuì e prese nota.
«Ha detto che l’organizzazione ha sezioni in diversi paesi» continuò. «Ce n’è una anche qui in Svezia?»
«Non ufficialmente. Ma non sarebbe una sorpresa se l’organizzazione fosse attiva nella patria del premio Nobel, non crede?»
«Da quanto mi pare di capire, questa organizzazione prende di mira Einstein come persona...»
«Sì» disse Dahlberg. «È strano. Quell’uomo timido e gentile viene dipinto come un demonio.»
«L’ha mai incontrato, professore?»
«Ho assistito a una sua lezione a Berlino. Ha un carisma straordinario: la gente resta ammaliata, le donne si innamorano. Tutto questo è una lama a doppio taglio, ovviamente.»
«Visto che l’odio è indirizzato alla persona di Einstein» continuò Nils, «può essere che l’organizzazione voglia liberarsi fisicamente di lui?»
Il professor Dahlberg lo guardò incerto.
«A cosa pensa?»
«A un assassinio.»
«Ah.» Dahlberg socchiuse gli occhi concentrato, mentre valutava l’ipotesi. «No» decise alla fine, scuotendo la testa convinto. «No, non riesco proprio a immaginarlo. Non credo che i capi dell’organizzazione si immischierebbero in una faccenda del genere.» Tacque di nuovo, riflettendo per un altro paio di secondi. «Anche se, è chiaro, pensando a quali teste matte ci siano in quella congrega e a quale rete di contatti potrebbero avere... alla situazione che c’è attualmente in Germania... Già, chi può saperlo?»
«Un’ultima domanda: ha mai sentito parlare di un certo Paul Weyland?»
Un lampo si accese negli occhi del professore.
«Non fu lui a organizzare quella campagna contro Einstein tre anni fa? Lo scandalo della sala concerti? All’epoca non ero più a Berlino, ma ogni tanto leggo i giornali tedeschi. Ci andò giù davvero pesante, con Einstein. I giornali lo chiamavano ‘der Einstein-Töter’, l’ammazza-Einstein. Uno strano individuo. Dopo non se ne sentì più parlare. Non credo che i suoi metodi ebbero un gran successo. Si spinse troppo oltre, molto semplicemente, e le simpatie finirono per ricadere su Einstein.» Guardò Nils con improvvisa curiosità. «Perché mi chiede di lui?»
«Sembra che ora si trovi a Göteborg. Mi domandavo se non ci fosse qualche collegamento con la visita di Einstein fra un paio di settimane.» Nils ripose il bloc-notes nella tasca interna. «Non la disturbo oltre, professor Dahlberg. La ringrazio moltissimo per la chiacchierata.»
Si alzò e gli tese la mano in un gesto di congedo.
«Resti pure seduto, professore» disse quando l’anziano signore si appoggiò al bracciolo della poltrona per alzarsi. «Trovo da solo la strada per uscire.»
Fece un rapido inchino e si avviò verso le doppie porte alte e sottili.
«Una cosa, sovrintendente» gli gridò dietro Dahlberg. «Quel soprannome di Weyland che ho menzionato... naturalmente era un’espressione metaforica.»
Nils annuì.
«L’avevo capito.»
Quando uscì in strada la città era cambiata. Non riuscì a stabilire di che cosa si trattasse, qualcosa nei suoni, nella luce, nell’aria.
Solo quando con un gesto automatico sollevò l’ombrello per aprirlo, se ne rese conto: non pioveva più.
Rimase fermo con l’ombrello aperto a metà e si guardò intorno. L’aria era calda e immobile. L’acqua gocciolava dai tigli lungo il marciapiede, e sopra i tetti delle case il cielo bianco- grigiastro splendeva come madreperla.
Nils richiuse l’ombrello e si avviò verso la stazione di polizia.