Ellen

7 luglio 1923

 

Era arrivato il caldo. Nell’arco di una notte si era impossessato della città senza che Ellen avesse ricevuto il benché minimo avvertimento dalle strisce telegrafiche dei meteorologi, dove tutto era sembrato deprimente come al solito. Ma adesso, a quanto pareva, la noiosa bassa pressione dall’Islanda e dalle Isole Britanniche aveva mancato il bersaglio, e una bolla di alta pressione di origine africana era riuscita a prenderne il posto. Faceva caldo come nel deserto, e il cielo aveva un colore che, agli occhi non avvezzi degli abitanti di Göteborg, sembrava quasi innaturale con quel suo blu sgargiante.

Alla stazione, sulla banchina dei treni provenienti da sud, era schierata una delegazione di benvenuto, madida di sudore benché fossero le sette di sera. Il fulcro era costituito dal professore di Fisica Svante Arrhenius, membro del comitato del Nobel, e dall’industriale Axel Carlander, che in maniera silenziosa ma vigorosa controllava quasi tutto ciò che succedeva a Göteborg. Alle loro spalle c’erano una piccola orchestra di fiati, una ventina di giornalisti e fotografi, e un gruppetto di ammiratori di Einstein e di semplici curiosi.

Ellen aveva avuto l’incarico di descrivere l’atmosfera che circondava l’arrivo di Einstein. In seguito il redattore in persona avrebbe intervistato il grand’uomo, ma questa cosa dell’«atmosfera» era ormai diventata appannaggio di Ellen.

Aveva ricevuto dal redattore un’altra «busta d’incoraggiamento». Questa volta Ellen aveva parlato della somma a suo padre, che le aveva concesso di tenersene la metà. Si era comprata una cipria e un paio di scarpe col cinturino per sostituire quelle che si erano rovinate al porto.

Adesso era in piedi sulla banchina in mezzo agli altri giornalisti, con bloc-notes e matita nella tasca della giacca del tailleur.

Mentalmente aveva già cominciato a preparare l’articolo. Einstein che scende sulla banchina, forse un po’ affaticato dopo il lungo viaggio. Come lo scienziato s’illumini nel vedere la delegazione di benvenuto e agiti la mano verso i fotografi, sorridendo affabile. I riccioli scuri spruzzati d’argento e le occhiate adoranti delle signore. Il professor Arrhenius che lo scorta alla macchina per accompagnarlo a casa di Gustaf Ekman, dove Einstein soggiornerà durante la sua visita a Göteborg. In quella dimora simile a un palazzo, Einstein troverà tutto il comfort possibile e immaginabile, pensava di scrivere Ellen. Come Einstein, anche Ekman è uno scienziato naturalista (esperto di correnti marine). I due eruditi avranno molto di cui parlare prima che Einstein, lunedì, tenga il suo tanto sospirato discorso per il premio Nobel.

Ancora venti minuti d’attesa. L’orchestra attaccò a suonare una marcia prussiana su cui si era esercitata, ma fu interrotta da Arrhenius, il quale fece notare che la musica militare tedesca sarebbe stata inappropriata, vista l’umiliante sconfitta della Germania durante l’ultima guerra.

«Qualcosa di svedese, allora?» disse l’uomo che suonava il bassotuba. «La marcia del Corpo di Guardia di Svea?»

«Niente marce» stabilì Arrhenius. «Einstein è pacifista.»

Fra i musicisti si creò un momento di confusione; tutti presero a sfogliare gli spartiti del loro repertorio.

«Un valzer di Strauss?» suggerì il flautista.

«Perfetto» disse Arrhenius.

L’orchestra intonò Sul bel Danubio blu e fece in tempo a provarlo un paio di volte prima che il treno arrivasse sbuffando in stazione. Fumo e una cacofonia di sbuffi e cigolii riempirono l’aria. I fiati misero in campo tutta l’energia che avevano e, grondando sudore, eseguirono a ripetizione lo stesso pezzo.

C’era un’atmosfera di festa alla stazione di Göteborg oggi, scrisse Ellen sul suo taccuino, rafforzata dalla musica gioiosa.

I facchini si affrettarono ad avvicinarsi al treno con i loro carretti per i bagagli, mentre i passeggeri sciamavano sul marciapiede.

Ellen si alzò in punta di piedi per vedere meglio.

«È quello laggiù?» disse Carlander indicando con discrezione un uomo con i capelli scuri e un completo spiegazzato.

«No, no» rispose Arrhenius. «Non è Einstein.»

L’orchestra ricominciò a suonare il valzer cadenzato. I passeggeri le passavano accanto sul marciapiede, gli uomini con le maniche della camicia arrotolate e le giacche sul braccio. Si fermavano per essere accolti da parenti e amici oppure proseguivano rapidi verso i taxi in attesa. Il corpulento Arrhenius si asciugava la fronte con un fazzoletto. L’aria era densa come melassa.

Quando l’orchestra stava suonando per la quinta volta il valzer del Danubio, l’ultimo passeggero scese barcollando dal treno. Era un ubriaco che, protestando ad alta voce, era stato sbattuto fuori dal vagone di terza classe dal controllore. Le note del valzer gli migliorarono l’umore. Si piazzò a gambe larghe di fronte all’orchestra e cominciò a dirigerla con ampie bracciate scoordinate, prima che una guardia lo conducesse via.

La banchina adesso era deserta.

Einstein non era a bordo del treno.

Con un gesto, Carlander zittì l’orchestra nel bel mezzo di una battuta.

«Siete sicuri che fosse questo il treno?» domandò ad Arrhenius.

«Certamente. Einstein mi ha inviato un telegramma l’altroieri per confermare quanto concordato in precedenza. Avrebbe pernottato a Copenaghen lungo il percorso, per incontrare Niels Bohr. Oggi doveva partire dalla stazione centrale e arrivare a Göteborg alle diciannove e quaranta. Cioè con questo treno.»

«Magari l’ha perso» disse Carlander. «I professori di Fisica possono essere un po’ distratti, si sa.»

«È solo una leggenda» replicò seccamente Arrhenius.

«Mi perdoni» disse Carlander, che fra il caldo e la confusione aveva dimenticato con chi stesse parlando.

«È in arrivo qualche altro treno da Copenaghen, oggi?»

«Non credo» rispose Carlander.

«No, questo era l’ultimo.»

Era stato un giovane giornalista a parlare. Arrhenius si voltò e divenne improvvisamente consapevole del gruppo di giornalisti e fotografi che adesso avevano trasferito il loro interesse su lui e Carlander, come un branco di predatori che aveva scelto una nuova preda dopo che la precedente era riuscita a scamparla.

«Già, vi siete persi una notizia» disse con un pizzico di gioia maligna Arrhenius, che non aveva mai avuto simpatia per i giornalisti.

Carlander, che sapeva come andava trattata la stampa, si affrettò ad aggiungere:

«Niente paura, cari signori. Se riuscite a pazientare fino a domani, avrete la vostra notizia. Sono sicuro che allora potrete scattare immagini strepitose e raccogliere le dichiarazioni di Einstein».

«E perché mai dovremmo aspettare fino a domani? Il fatto che non fosse sul treno oggi è una notizia come un’altra» disse il giovane giornalista con un sogghigno. «Cosa credete che sia successo? Potrebbero esserci motivi diversi dalla proverbiale distrazione dello scienziato?»

Aveva la penna pronta sulla pagina del taccuino e un luccichio avido nello sguardo. Anche gli altri giornalisti si affrettarono a prendere penna e blocco.

«Piano, piano, giovanotto» disse Carlander. «Einstein è semplicemente in ritardo, arriverà con il prossimo treno. Questa è l’unica cosa che ti è consentito scrivere. Se vedrò fantasiose speculazioni sul tuo giornale, parlerò personalmente con il tuo capo.»

«In ritardo» ripeté il giornalista. «Ah ah. E la causa?»

«Sopraggiunti impedimenti» disse Carlander senza scomporsi.

Voltò le spalle al giovane e continuò sottovoce, rivolto ad Arrhenius: «Riceveremo presto una spiegazione. Quando arriveremo a casa, troveremo di sicuro un telegramma di Einstein ad aspettarci».

La piccola folla cominciò a sciogliersi, ed Ellen, che era rimasta per tutto il tempo ai margini, si avviò verso la redazione per consegnare le poche righe che Carlander aveva approvato. Lungo il tragitto deviò per Spannmålsgatan.

Una donna allo sportello della reception la informò che Nils Gunnarsson era già andato a casa.

Ellen sospirò.

«Vuole lasciargli un messaggio?» domandò la donna.

«Sì, grazie» disse Ellen.

Sul suo bloc-notes scrisse:

 

Agente investigativo Nils Gunnarsson, s.p.m.

E. sarebbe dovuto arrivare alle 19.40 alla stazione di Gbg. Non era sul treno.

Cordialmente, Ellen Grönblad

 

Strappò il foglio e lo consegnò alla receptionist.

«È sovrintendente» la corresse la donna, battendo l’indice sul foglio di Ellen. «Sovrintendente Nils Gunnarsson.»

«Oh, veramente?» disse Ellen. «Non lo sapevo.»