Albert era in attesa alla stazione centrale di Copenaghen, stanco e snervato dallo sferragliare dei treni in corsa e dal sordo vibrare dei traghetti.
Quando vide Niels Bohr si rianimò. Il danese gli andò incontro sul marciapiede a grandi passi e gli strinse la mano con entusiasmo. Aveva un sorriso pieno di calore e di denti storti.
«Che piacere averti qui, Albert. Adesso andiamo subito a casa da Margrethe e pranziamo. Poi parleremo di fisica, tu e io.»
Tenendo saldamente la valigia di Albert, Bohr si fece largo nella folla brulicante della stazione. Albert aveva un bel daffare a stargli dietro.
Bohr era noto per essere una persona molto fisica. Il suo corpo, che sembrava pesante come una scultura di pietra, era in realtà sorprendentemente agile e pareva aver stretto un magico sodalizio con le forze della natura. Era veloce, forte e resistente, e, secondo unanimi testimonianze, nel lancio era preciso in modo quasi sovrumano. Andava in bicicletta, nuotava, veleggiava, praticava la lotta, sciava e giocava a calcio. Quell’uomo grande e grosso voleva essere sempre in movimento.
Era anche una persona socievole, e per avere interlocutori all’altezza aveva da poco fondato un suo istituto, dove giovani scienziati di tutto il mondo avrebbero potuto abitare e lavorare con lui. Quando bisognava risolvere un problema particolarmente complesso, portava uno di quei ricercatori a fare lunghe passeggiate sulle dune di sabbia nella parte settentrionale dell’isola di Sjælland. Nella torretta isolata di Albert gli sarebbe venuto un attacco di claustrofobia.
Un tram si avvicinò scampanellando, e Bohr trotterellò verso la fermata.
«Attenzione!» gridò; lanciò dentro la valigia e con l’altra mano trascinò Albert a bordo con sé.
«Ricordami che dobbiamo scendere alla fermata di Bredvej» disse dopo che si furono seduti. «Non mi capita spesso di prendere il tram, all’istituto vado sempre in bicicletta. Faccio prima; i tram qui in città sono lenti in maniera irritante.»
«Be’, non abbiamo fretta» disse Albert. «Io non andrò a Göteborg prima di domani mattina. Avremo tutto il tempo di chiacchierare.»
«E così adesso riceverai finalmente il denaro per il tuo premio? Sarebbe ora, Albert, lascia che te lo dica. Ero così contento di ricevere il Nobel insieme a te, a Stoccolma, sarebbe stato un tale onore, e invece tu non c’eri. Mi vergognavo quasi, lì da solo.»
Era una storia complicata. Nel 1921 Albert Einstein era stato l’ovvio candidato al premio Nobel per la Fisica, ma la sua teoria della relatività era una patata troppo bollente, per cui quell’anno il comitato aveva aggirato il problema non assegnando alcun premio. Nel 1922 nacque l’idea di assegnare a Einstein il Nobel del 1921 per la legge sull’effetto fotoelettrico. In tal modo lo si sarebbe potuto premiare senza prendere posizione sulla controversa teoria della relatività. Il Nobel per la Fisica del 1922 fu assegnato a Bohr, e l’idea era che i due scienziati avrebbero ricevuto insieme i loro premi. Ma poiché Albert non aveva voluto cancellare il suo viaggio in Giappone, fu solo Bohr a partecipare alla cerimonia della premiazione. Perciò il più giovane discepolo di Albert aveva già incassato il denaro, mentre lui aspettava ancora i suoi soldi.
«Certo che avrebbero potuto mandarti la somma che ti spettava senza pretendere da te quel discorso» disse Bohr con convinzione.
Poi dichiarò la sua grande ammirazione per Albert e disse che il suo pensiero libero e ardito era sempre stato un ideale per lui.
Albert ricambiò le attestazioni di stima. Il fatto è che pensava che Bohr fosse molto più ardito di lui. Doveva essere una questione di età.
«Tutto ciò che è davvero nuovo lo si scopre in gioventù» disse con un sospiro. «Poi si diventa più esperti, più conosciuti e più duri di testa. L’intelletto s’irrigidisce, ma il guscio calcificato viene comunque avvolto nel luccichio della celebrità.»
Bohr rise sbuffando e – parve ad Albert – con un pizzico d’imbarazzo. Come se Albert avesse smascherato come Bohr lo vedeva veramente.
«Grazie al cielo io e te siamo ancora dei giovanotti, Albert» disse Bohr, dandogli un pugno scherzoso sulla spalla.
Il tram frenò, e tutti i passeggeri scesero, tranne Bohr e Albert. Anche il controllore e il manovratore sparirono. Un signore in bombetta con cartella portadocumenti e orologio da taschino indugiò un attimo accanto all’uscita e gettò un’occhiata interrogativa ai due scienziati prima di lasciare la carrozza.
«Che cosa succede?» domandò Albert. «Perché scendono tutti?»
Bohr sbirciò fuori.
«Perbacco, siamo al capolinea a Hellerup. Siamo andati troppo in là» disse. «Dobbiamo scendere e risalire quando il tram si sarà girato.»
Scesero e si misero in attesa insieme al gruppetto di persone abbienti che risiedevano a Hellerup ed erano dirette in centro per svagarsi nella tiepida sera d’estate.
Fra i due scienziati non c’era una grande differenza d’età: Albert aveva quarantaquattro anni e Bohr trentasette. Eppure ad Albert sembrava che Bohr appartenesse a un’altra generazione. Parlava dei «ragazzi dell’istituto» come se facessero parte della stessa squadra di calcio.
«Voglio che il mio istituto sia un campo giochi dove i nostri cervelli possano fare la lotta fra loro» dichiarò allegramente.
Albert si immaginò l’Accademia delle Scienze di Berlino come un campo giochi, e i signori in colletto inamidato come «i ragazzi dell’Accademia». Impossibile.
Quando furono di nuovo sul tram, Bohr cominciò a parlare delle sue ricerche, che erano effettivamente molto interessanti e rivoluzionarie quanto quelle di Albert.
Com’era possibile che la gente si mostrasse indignata oppure entusiasta riguardo alla teoria della relatività di Einstein, mentre Bohr non destava sentimenti così forti? Che cos’era in fondo un po’ di relatività in confronto all’assurdo mondo da Alice nel Paese delle Meraviglie di Bohr? La gente avrebbe dovuto esserne preoccupata. Sinceramente, Albert stesso era un po’ preoccupato, per non dire sconvolto, e controvoglia lo confessò a Bohr.
«È naturale che tu lo sia» commentò Bohr serafico. «Chi non rimane sconvolto dalla meccanica quantistica non l’ha capita.»
L’attimo dopo balzò in piedi, tirò energicamente la fune del campanello e prese con decisione la valigia di Albert dal portabagagli.
«Siamo andati troppo in là anche in quest’altra direzione» gridò. «Abbiamo mancato di nuovo la fermata di Bredvej.»
Scesero, attraversarono la strada e continuarono la conversazione mentre aspettavano di tornare indietro con il primo tram. Il loro entusiasmo li rendeva un tantino chiassosi, e ancora una volta ricevettero occhiate interrogative ma discrete da uno di quei tizi in bombetta e cartella portadocumenti di cui Copenaghen sembrava piena.
Durante il nuovo viaggio in tram la conversazione li portò a addentrarsi nei dettagli dell’esistenza. Un mondo dove niente era assoluto e dove non ci si poteva fidare nemmeno delle leggi naturali. Un mondo pieno di «forse», «sia, sia» e «né, né».
Albert confutava coraggiosamente le teorie dell’amico. Bohr era stimolato dalla sua resistenza e rispondeva con prove chiare e ben formulate, che Albert accoglieva con un misto di terrore e ammirazione. Sotto il profilo puramente logico Bohr aveva ragione, ma intuitivamente Albert sapeva che aveva torto. Doveva essere così. Il mondo non sarebbe potuto esistere se fosse stato fondato su casualità e contraddizioni.
«La questione è cosa si intenda per mondo» disse Bohr. «La questione è cosa si intenda per esistenza. La questione è se esista una realtà oggettiva. La questione è...»
Si interruppe. Intorno a loro tutto era immobilità e silenzio. I cigolii e gli scampanellii del tram erano svaniti, come il brusio della gente e la voce del conducente che diceva forte il nome delle fermate. Dalla porta aperta del tram si sentiva un merlo che cantava.
Albert guardò fuori del finestrino e fissò il quartiere elegante con le grandi ville di mattoni circondate da giardini lussureggianti. Per qualche motivo gli sembrava di conoscere il posto.
«Correggimi se sbaglio» disse. «Ma questo non è il capolinea di Hellerup?»
Quando finalmente si accomodarono a tavola nella sala da pranzo della famiglia Bohr, Albert aveva una fame da lupi. Che l’arrosto di maiale, dopo essere stato tenuto in caldo così a lungo, fosse diventato un po’ asciutto non lo preoccupò minimamente. Pensava di non aver mai mangiato nulla di più delizioso di quella grassa carne danese con la sua cotenna croccante, le acidule prugne secche infilate in mezzo e la morbida salsa alla panna.
I Bohr erano la famiglia più perfetta che Albert avesse mai incontrato. La moglie Margrethe era una vera bellezza, e non c’era nulla nella sua figura che lasciasse intendere che aveva messo al mondo quattro figli maschi a intervalli di due anni esatti l’uno dall’altro. I ragazzi erano biondi come spighe e con le guance rosee, e durante la cena prendevano parte coraggiosamente alla conversazione.
A tavola era seduta anche la madre di Niels. Per il momento vivevano tutti nella sua casa. C’era in progetto di allestire un appartamento per loro all’istituto, e presto Bohr avrebbe avuto i suoi ricercatori e la sua famiglia sotto lo stesso tetto. Con il denaro del premio Nobel aveva in mente di acquistare una casa di campagna a Tisvilde.
Bohr era di umore spumeggiante e li divertiva con giochetti di fisica. Anelli portatovagliolo giravano come trottole, forchette venivano messe in oscillazione e bicchieri pieni d’acqua emettevano suoni melodiosi, tutto con grida di esultanza dei ragazzi e applausi devoti da parte di Margrethe. L’anziana signora Bohr, che probabilmente aveva visto quei trucchi centinaia di volte, masticava annoiata la sua cotenna di maiale senza sollevare lo sguardo dal piatto.
Al momento del dessert tutti i figli, eccetto il piccolo Aage che aveva solo un anno, ricevettero un problema di logica da risolvere, adeguato alla maturità intellettuale di ognuno (la quale ovviamente era a livelli stratosferici rispetto alla media dei loro coetanei). Furono invitati a pensare a voce alta, e Bohr ascoltava interessato i loro ragionamenti, fornendo qualche dritta quando si impantanavano.
Con una punta di dispiacere Albert pensò ai suoi figli, che non aveva mai conosciuto davvero e che non abitavano neppure nel suo paese. Quando si era risposato con Elsa le aveva proposto di andare a vivere a Zurigo, dove abitavano Mileva e i ragazzi, ma lei si era opposta con fermezza.
In qualche modo sorprendente e meraviglioso, Bohr sembrava aver avuto fortuna in tutto. Il matrimonio, i figli, la carriera. Viveva in un paese prospero e pacifico. Benché come Albert fosse ebreo e avanzasse teorie rivoluzionarie, contro di lui non venivano organizzate campagne d’odio, non riceveva minacce di morte e non sembrava esserci mai stato alcun problema intorno al suo premio Nobel.
Alla fine della cena il fratello di Niels, il matematico di fama mondiale Harald Bohr, passò a trovarli per salutare Albert. Sembrava il gemello di Niels, ma aveva un anno in meno. Da giovane Harald aveva giocato a calcio, e poiché era un Bohr, non tirava calci al pallone solo per divertimento come gli altri ragazzi, ma era arrivato rapidamente a ricoprire il ruolo di terzino nella Nazionale, aveva portato a casa un argento olimpico ed era considerato uno dei migliori giocatori del paese, prima di abbandonare il calcio per intraprendere una carriera fulminante come matematico.
Tra i figli di Bohr sembrava essere molto popolare. Christian, Erik e Aage saltarono addosso allo zio come cuccioli di cane, determinati a trascinarlo sul pavimento per un incontro di lotta. Il piccolo e ingegnoso Hans rimase invece seduto a tavola, impegnato a costruire una catapulta con il cucchiaio da dessert e alcune graffe fermatovaglia. Aveva appena caricato la catapulta con una zolletta di zucchero mirando alla vecchia signora Bohr, quando l’attenta Margrethe intervenne in tutta fretta.
La scenetta indusse Niels a ricordare un film di cowboy che aveva visto di recente al cinema. Aveva notato un interessante fenomeno.
«Ogni volta che un farabutto cerca di sparare all’eroe, questi riesce sempre a fare fuoco per primo. Come mai?» si domandò, ammiccando con aria sagace verso i figli mentre accendeva la pipa.
Loro assunsero immediatamente un’espressione concentrata, e ad Albert sembrò quasi di sentire i loro piccoli cervelli mettersi in moto.
«Forse ha a che fare con la drammaturgia hollywoodiana?» suggerì cautamente Margrethe, ma il marito finse di non aver sentito e continuò: «Ci ho riflettuto, e mi è parso di trovare una spiegazione psicologica, o forse neurologica, a questa cosa». Fece una pausa teatrale e, mentre picchiettava ritmicamente il fornello della pipa contro il tavolo, scandì: «Un’azione, che è il risultato di una decisione, accade più lentamente di un’azione che è la reazione a un avvenimento esterno. Vale a dire» sollevò in aria la pipa, «se il malfattore decide di estrarre la pistola per sparare all’eroe, la sua azione è lenta quanto basta perché l’eroe, che vede ciò che sta per succedere, faccia in tempo a estrarre il suo revolver e sparare per primo. Mi seguite? Ho illustrato questa teoria ai ragazzi dell’istituto. Erano scettici. Così abbiamo comprato delle pistole giocattolo e un po’ di polvere da sparo, e abbiamo fatto un test nel Fælledparken. Io ero l’eroe e gli altri i malfattori che mi avrebbero sparato decidendo loro il momento. Benché io non sapessi mai quando avrebbero sollevato la pistola, riuscivo sempre a scaricare la mia prima del farabutto di turno. Interessante, non è vero?»
«Come esperimento, sì» disse il fratello. «Nella vita vera non avresti avuto alcuna possibilità. La situazione richiede preparazione; nella vita vera saresti stato del tutto impreparato, il che avrebbe rallentato la tua reazione.»
«Ne sei convinto?» Niels annuì meditabondo e accese di nuovo la pipa, che si era spenta mentre parlava. «Tu che cosa ne pensi, Albert?»
«Non ne ho la minima idea.»
Aveva sentito parlare di quei giochi nel Fælledparken. Dopo una giornata pesante all’istituto, capitava che Bohr e i suoi giovani colleghi uscissero a svagarsi con qualche rigenerante ragazzata pirotecnica: polvere da sparo dentro tubi di ferro tappati, esplosioni e fuochi d’artificio. Albert non capiva che cosa ci fosse di divertente in attività di questo genere. Aveva un udito sensibile e fin da bambino aveva sempre detestato il suono secco delle detonazioni.
«Potrei fare un salto in bicicletta all’istituto a prendere le pistole» si offrì Christian servizievole. «Così possiamo fare l’esperimento, tutti quanti.»
«Sì, sì, per favore, papà!» esultò Erik, saltellando su e giù.
Uno scintillio di tentazione si accese nello sguardo di Niels Bohr. Fu immediatamente catturato da Margrethe, che si alzò e con sorprendente autorità decretò: «Non se ne parla, niente pistole in questa casa». Albert le indirizzò un’occhiata di gratitudine. «Tra l’altro, l’ora di andare a letto è già passata da un pezzo. Augurate la buonanotte a zio Albert e a zio Harald, adesso.»
I Bohr volevano assolutamente che Albert si fermasse da loro, ma lui declinò con gentilezza l’invito. Il suo treno per Göteborg sarebbe partito presto il mattino dopo, ed Elsa gli aveva prenotato una stanza in un albergo vicino alla stazione.
Inoltre – anche se questo ovviamente non lo disse – non ce la faceva più a stare in compagnia della famiglia Bohr. Aveva un intenso bisogno di rimanere solo.
La prima cosa che Albert fece una volta sistemato nella sua camera d’albergo fu aprire la valigia per prendere il pigiama. Per qualche motivo, nel bel mezzo della visita in casa Bohr aveva cominciato a provare un’enorme nostalgia per quel vecchio indumento consunto e familiare.
Con sua grande delusione, scoprì che Elsa aveva messo in valigia un pigiama diverso da quello che aveva tanta voglia d’indossare: un capo detestabile di rigido tessuto nuovo, con cuciture spesse e un ridicolo colletto. Si era forse illusa che lui accettasse quella roba, non avendo altro? Che magari si sarebbe addirittura abituato e avrebbe cominciato a usarlo anche a casa?
Rimise il pigiama in valigia e si infilò a letto in maglietta e mutande. Era di cattivo umore. Aveva mangiato una quantità di arrosto di maiale davvero eccessiva e sentir parlare di pistole l’aveva infastidito.
«Nella vita vera non avresti avuto alcuna possibilità. Saresti stato del tutto impreparato» aveva detto Harald Bohr.
Stava parlando con il fratello di una situazione puramente ipotetica. Eppure Albert aveva avuto l’impressione che quelle parole fatali fossero rivolte a lui.
In piena notte si risvegliò seduto nel letto con il cuore che martellava. La stanza era buia e soffocante, e per un istante di puro terrore non seppe dove si trovasse. Poi intravide una sottile scia d’illuminazione stradale che filtrava attraverso una fessura fra la tenda a rullo e la finestra e si raccapezzò.
Ma l’inquietudine non voleva abbandonarlo. Aveva fatto un sogno orribile, non ricordava esattamente quale, ma aveva a che fare con delle pistole. Rathenau che gli tendeva un revolver e lo esortava a essere preparato. La fuga attraverso una città che aveva tratti sia di Berlino sia di Copenaghen, ma che lui sapeva essere la pericolosissima città di Göteborg. Sapeva anche di essere inseguito.
E poi di colpo il giorno prima gli apparve in una luce completamente nuova. Il sogno aveva reso tutto chiaro. Il viaggio in tram! L’uomo con la bombetta, l’orologio da taschino e la cartella portadocumenti! Ogni volta che Albert e Bohr erano scesi alla fermata sbagliata, quell’uomo era lì.
Nel mondo della meccanica quantistica, dove il suo cervello era stato condotto, Albert non aveva visto nulla di straordinario nel fatto che lo stesso uomo sembrasse essere a tutte le fermate del tram di Copenhagen nello stesso momento.
In realtà quell’individuo elegante li aveva seguiti nel loro demenziale avanti e indietro, avanti e indietro. Albert ricordava le occhiate saettanti e sempre più perplesse che aveva rivolto loro prima di guardare altrove.
Forse il pedinatore aveva creduto di essere stato scoperto, e che il loro peregrinare sullo stesso percorso fosse un tentativo di liberarsi di lui?