Come volava il tempo! Quasi ogni settimana veniva inaugurata qualche nuova, entusiasmante attrazione. La città pareva esplodere in fuochi artificiali di moderne creazioni.
Per primi furono aperti l’ampia area di Götaplatsen con il museo d’Arte e il parco divertimenti di Liseberg. Cinque giorni più tardi venne inaugurata l’arena sportiva di Slottsskogsvallen. L’8 luglio aprirono i cancelli del giardino Botanico e il giorno seguente fu inaugurato l’imponente museo di Storia Naturale sul colle di fronte. Alcune settimane più tardi si alzò in volo il primo aereo dal nuovissimo aeroporto di Torslanda. Nell’arco di un’estate, con occhi pieni di stupore, gli abitanti di Göteborg videro i loro terreni acquitrinosi, le loro alture rocciose e i loro pascoli trasformarsi in una moderna città.
Quanto a me, ero moderatamente impressionato. L’unica cosa che avrei voluto davvero vedere era il grande campo scout allestito sulle sponde del Rådasjön all’inizio di luglio: duemila ragazzi provenienti da tutta la Svezia che bivaccavano intorno ai fuochi e dormivano nelle tende. Avrebbero visitato anche il Paradiso dei Bambini, ed ero ansioso di poter fare la conoscenza di alcuni di loro.
Per motivi che verrò presto a spiegare, non ebbi mai occasione di incontrarli. Ma potevo figurarmi ogni cosa: tantissimi ragazzi in pantaloncini corti e cappelli a tesa larga che sedevano a gruppi intorno ai fuochi davanti alle loro piccole tende, a cantare insieme nella tiepida notte d’estate. Non ginnasti ben disciplinati, soldati che marciavano o lavoratori che dimostravano. No, una marea di ragazzi della mia età, con le ginocchia sbucciate e gli occhi scintillanti, curiosi, allegri e aperti. Affamati di vita e di avventura. Cercavo di immaginare la mia energia moltiplicata per duemila, e mi rendevo conto che intorno a quell’accampamento l’aria doveva essere scoppiettante e piena di scintille.
Quell’estate tutti i raduni erano oceanici. Cori, schiere di atleti, orchestre e gruppi di danza popolare si esibivano in formazioni colossali, e i giornali informavano sempre di quante migliaia di individui si fosse trattato.
Le cifre precise erano molto amate, soprattutto quelle elevate: le montagne russe nella giornata di sabato avevano avuto 9.866 passeggeri; venerdì al ristorante Centrale erano state servite 2.528 cene; ogni lettera della scritta tracciata nel cielo dall’aeroplano era composta da 10.000 metri cubi di gas; la macchina del monopolio di Stato del tabacco produceva 11.320 sigarette all’ora.
Si traeva una sorta di piacere dalle quantità, come se tale opulenza fosse una forza in sé, e conoscerne la cifra esatta fosse una prova del controllo dell’uomo su di essa.
La grandiosità mi era presto diventata familiare. Avevo cominciato a considerare l’Esposizione come la mia nuova casa. Non volevo pensare che in ottobre non sarebbe più esistita, e io sarei stato costretto a tornare alla tenuta agricola.
Ma in realtà dovetti lasciarla ben prima di allora.
Il 27 giugno Bella stava camminando al passo al parco divertimenti con un bambino vestito alla marinara in groppa. Io camminavo come di consueto al suo fianco tenendola per le briglie. Era tutta la mattina che non pioveva e la calca era indescrivibile. Le giostre giravano e i vagoni delle montagne russe calavano rumorosamente dalle vertiginose discese con i loro passeggeri urlanti.
Proprio mentre stavamo passando davanti al Padiglione dei Congressi, il corpo di Bella fu percorso da un tremito. Accelerò l’andatura mettendosi a trottare. Il bambino sobbalzava violentemente e io faticavo a starle dietro.
«Su, su. Calmati, piccola, calmati» le dicevo, tirando le briglie per frenarla.
Ma era impossibile. Bella aveva le orecchie lanose ruotate in avanti, e sbuffava e tremava per l’agitazione. Dal giorno in cui eravamo arrivati all’Esposizione non era mai stata così agitata.
Aveva lo sguardo puntato su un uomo che camminava volgendoci le spalle. Quando gli arrivò accanto rallentò e appoggiò il muso contro di lui, con un movimento carezzevole.
L’uomo si girò. I suoi sopraccigli folti e scuri erano sollevati in un’espressione collerica. Con uno spintone scacciò l’asina e si allontanò in fretta. Io la trattenni per le briglie e la costrinsi a rimanere ferma.
«Bella, sciocchina. Perché ti sei comportata così?» dissi.
«Scemo d’un asino!» gridò il bambino vestito alla marinara.
L’uomo aveva fatto in tempo a percorrere una ventina di metri, quando Bella scosse la testa e s’impennò. Il bambino cadde a terra e io persi la presa sulle briglie. Gridando, Bella si mise a correre attraverso la folla. La gente si faceva da parte terrorizzata. (Se vi è mai capitato di udire un asino che grida, sapete quanto sia spaventoso quel suono: come un treno che frena stridendo, dei mantici che sbuffano e mille trombe stonate, tutto in un colpo solo.)
In mezzo alla strada, in una posizione poco felice, c’era un cartello che pubblicizzava l’esibizione di un trapezista in programma per quella sera. Bella vi finì dritta addosso. Il cartello si rovesciò e l’asina lo calpestò, inciampò, cadde su un fianco ma si rialzò subito e proseguì puntando verso l’uomo. A testa bassa come un toro che carica gli si precipitò contro, gli afferrò il soprabito con i denti e lo buttò a terra. Frugò nella stoffa tirando e strappando, mentre l’uomo giaceva sotto shock in una pozzanghera.
Quando li raggiunsi, Bella aveva trovato ciò che cercava. Era come avevo sospettato: per un attimo scorsi la confezione di mentine davanti al suo naso; l’attimo dopo era sparita nella sua bocca con l’incarto e tutto quanto.
La sgridai e le diedi qualche sculacciata come punizione. Il bambino vestito alla marinara mi aiutava come poteva, martellando con i suoi piccoli pugni l’asina cattiva che gli aveva rovinato il vestito della festa.
Bella se ne stava immobile con gli occhi chiusi, masticando con gran godimento.
Dire che gli asini amano la menta è poco. Per un asino la menta è come la morfina per un morfinomane. Non so perché. Magari è un ricordo genetico dei declivi mediterranei coperti di menta, e non appena avvertono quel profumo delizioso impazziscono di desiderio e non c’è niente al mondo che possa fermarli.
L’uomo dai folti sopraccigli si alzò in piedi a fatica. Stava lì nel suo soprabito sporco e strappato e mi fissava. Ho ricevuto molte occhiate furiose nella mia vita, ma quella le batteva tutte. I suoi occhi sembravano due fori che scendevano fino a una fonte di disprezzo nera come la pece. Mi preparai a ricevere qualche ceffone ben assestato.
Con mio stupore invece l’uomo si limitò a girare i tacchi e ad allontanarsi, la tasca strappata del soprabito che svolazzava.
Spazzolai il bambino come meglio potei, lo rimisi in groppa a Bella e mi avviai verso il Paradiso dei Bambini.
Non appena ci incamminammo mi accorsi che Bella zoppicava vistosamente; doveva essersi fatta male quand’era finita addosso al cartello. Rimisi a terra il bambino, che cominciò a piangere irato.
«Stupido asino, stupido asino!» urlò per tutta la strada.
Raccontai alla madre ciò che era accaduto, e che l’Ufficio Centrale dell’Esposizione l’avrebbe risarcita per gli indumenti rovinati; naturalmente le avrebbero reso anche il denaro del giro. Era così che ci avevano insegnato a dire, se qualcuno si fosse lamentato: dovevamo mandarli all’Ufficio Centrale. A volte la gente veniva risarcita, a volte no.
Mentre la mamma si recava all’ufficio per il reclamo, portai con me il bambino all’Äppleboda Värdshus e dissi a Margit – così si chiamava la piccola cameriera – di dargli cioccolata calda e panini dolci. L’umore del ragazzino migliorò all’istante. Eppure non poté fare a meno di indicarmi a Margit e dichiarare con la bocca piena:
«Il suo asino mi ha buttato giù. Il mio papà gliele darà di santa ragione».
Poi condussi Bella alla stalla e la esaminai. Scoprii che una grossa scheggia di legno le si era conficcata a fondo nello zoccolo ammorbidito dall’acqua. Levargliela non fu divertente, né per me né per lei, ma andava fatto e nessun altro all’infuori di me poteva avvicinarla. Alla fine ero dolorante almeno quanto Bella. Ma non era riuscita a colpirmi in pieno con i suoi calci, e sul corpo mi aveva lasciato solo qualche piccolo livido.
Però zoppicava ancora.
Un tizio dell’Ufficio Centrale comparve alla stalla e chiese che cosa fosse successo.
«E che fine ha fatto l’uomo delle mentine? Dovrebbe essere risarcito» disse al termine del mio racconto. «Non gliel’hai detto?»
«Non ne ho avuto il tempo» risposi io con sincerità.
Trovavo strano che l’uomo si fosse dileguato con tanta fretta, dal momento che era così incollerito.
«Non voglio che faccia cattiva pubblicità all’Esposizione» disse il tizio dell’Ufficio Centrale. «Lo cercheremo tramite il Kronan och lejonet. Come sta l’asina?»
Spiegai che Bella al momento non poteva essere cavalcata e che le strade bagnate dell’Esposizione avrebbero reso più difficoltosa la guarigione dello zoccolo. L’uomo decise che l’avrebbero rispedita a casa; di un’asina zoppa non sapevano che farsene.
Il mattino dopo io e Bella ci preparammo al viaggio di ritorno. Lo strillone passò come al solito davanti al Paradiso dei Bambini con le sue copie del Kronan och lejonet. Fu orribile vedere un numero del giornale in cui Bella non fosse in prima pagina; c’era invece il «Giro con la Capra Dora». Era dunque l’oggetto numero uno dell’odio di Bella ad aver preso il suo posto.
Il trafiletto sull’uomo a cui era stato rovinato il soprabito si trovava in terza pagina.
La beniamina di tutti, la nostra Asina Bella, ieri non si è comportata in maniera tranquilla e amabile come al solito. Uno dei visitatori le è passato accanto con una confezione di mentine, il cui profumo invitante l’ha indotta a inseguirlo e a rubargli sfacciatamente le caramelle dalla tasca.
Nella confusione l’uomo è caduto e si è strappato il soprabito. Bella si è ferita per aver calpestato un cartello, e ora sarà costretta a riprendersi in campagna per un paio di settimane.
La direzione dell’Esposizione è ansiosa di venire in contatto con quell’uomo per porgergli le proprie scuse. Presentandosi all’Ufficio Centrale potrà essere risarcito per l’indumento rovinato e ottenere biglietti omaggio per un’attrazione a sua scelta del parco divertimenti.
Vidi il ragazzo che accudiva Dora attaccarle il suo carrettino, mi cacciò fuori la lingua. Dora fece il suo sorriso compiaciuto da capra.
Attesi finché non si furono allontanati prima di portare Bella al camion che ci aspettava. Non c’era bisogno che assistesse anche lei a quello spettacolo.
Quando Bella tornò a casa, la sistemarono nei prati confinanti col mare a sud della tenuta. Probabilmente lei pensava che fosse piacevole gironzolare per conto suo a rosicchiare cardi e a riposare, ma forse sentiva un po’ la mancanza della notorietà.
Quanto a me, mi sembrava di essere in un altro mondo. Era tutto così silenzioso! C’erano così poche persone! Ero stato viziato con esibizioni artistiche quotidiane, brulichio di folla e parate. Mi mancava sfogliare con consumata indifferenza il Kronan och lejonet. Quale membro della famiglia reale verrà oggi? Quale star del cinema? Quali celebri acrobati?
Ero tornato in mezzo ai mucchi di letame della stalla.
Dopo circa una settimana scoprii che Bella non zoppicava più. La condussi prima in giro per il prato, poi la sellai e uscimmo fuori dalla tenuta.
Il tempo era cambiato. A pioggia e vento era seguita una vera e propria ondata di calore. Andavamo tutti i giorni sulle lisce scogliere di granito e sulla spiaggia; era piacevole sentire la brezza rinfrescante dal mare.
Bella traeva giovamento dal tempo asciutto. I suoi zoccoli erano duri e belli, e la ferita era guarita senza problemi.
L’Ufficio Centrale aveva contattato il conte chiedendo notizie di Bella. Solo quando era tornata a casa si erano resi conto della sua enorme popolarità fra i visitatori più giovani dell’Esposizione. Intere famiglie con bambini avevano attraversato tutta la Svezia per lei ed erano rimaste molto deluse nel non trovarla. Bella sembrava essere diventata la mascotte dell’Esposizione.
La capra Dora non era stata all’altezza del ruolo di nuova favorita. Aveva trascurato il suo compito e in un attacco di malumore aveva preso a cornate un bambino. Che anche Bella si fosse comportata male, parevano averlo dimenticato.
Il conte non l’avrebbe mai ammesso, ma sono sicuro che fosse orgoglioso della sua celebre asina. I purosangue che aveva esposto alla fiera dell’Agricoltura erano stati invece una delusione: non avevano ricevuto i premi importanti e i riconoscimenti che si era aspettato.
Perciò quando venne a sapere che rivolevano Bella, decise che sarebbe tornata all’Esposizione il prima possibile. L’8 luglio sellai Bella per un’ultima passeggiata campestre prima di tornare ai doveri cittadini.
Avevamo superato un lungo tratto di alture rocciose e spiagge, quando scorsi l’uomo col cappello di paglia. Era in piedi sulla battigia, e oltre al cappello indossava una camicia con le maniche tirate su e i pantaloni arrotolati fino al ginocchio.
Proprio nel punto in cui si trovava, un piccolo ruscello si buttava in mare dividendo la spiaggia in due. Condussi Bella al ruscello più in alto, dove l’acqua non era salata, e la feci bere.
L’uomo col cappello di paglia ci raggiunse. Strizzò gli occhi verso di me, sorrise e diede piccole pacche amichevoli sul collo di Bella mentre le parlava sommessamente. Bella intanto continuava a bere – sporgendo cauta le labbra per non schizzarsi – ma le sue orecchie lasciavano intendere che stava ascoltando.
Con voce dolce l’uomo le diceva che era bella. Parlava in tedesco, la lingua di mia madre. Ricordavo tutte le fiabe che mi aveva raccontato quando tornava a casa dopo una lunga giornata di lavoro, le canzoni che mi aveva cantato, le parole affettuose che mi aveva sussurrato. Magari qualcuno aveva bisbigliato altrettanto affettuosamente a Bella al tempo in cui era una puledrina in Germania? In ogni caso sembrava apprezzare il chiacchiericcio dell’uomo. Quando la grattò nel punto lanoso dietro le orecchie, smise di bere e rimase perfettamente immobile con gli occhi chiusi e l’acqua che gocciolava dal muso.
Io mi spinsi il berretto sulla nuca, portai le gambe di lato e saltai sulla sabbia.
«Lei le piace, signore» dissi.
Quando l’uomo sentì che parlavo tedesco s’illuminò, e mi chiese come mi chiamavo e quanti anni avevo. Risposi che mi chiamavo Otto Fuchs e che avevo tredici anni. Lui si presentò come «zio Albert» e disse che aveva un figlio della mia età.
Poi cominciò a parlare a raffica, come succede quando ci si è tenuti dentro a lungo qualcosa. Forse non capii proprio tutto, ma era chiaro che doveva assolutamente raggiungere l’Esposizione di Göteborg per tenere un discorso al Padiglione dei Congressi. Dopo avrebbe ricevuto un sacco di soldi, che doveva mandare ai suoi figli per assicurarne il mantenimento e l’istruzione. Parlava molto dei suoi figli, di quanto pensava a loro e si preoccupava per loro. Soprattutto per il più piccolo, quello che aveva la mia età.
«Davvero le daranno un sacco di soldi solo per parlare un po’ nel Padiglione dei Congressi? Se è così, allora le suggerisco di andarci di corsa!» dissi.
«Sì, dovrei proprio» disse zio Albert, annuendo serio. «In realtà sarei già dovuto essere lì.»
«E come mai non ci è andato? C’è una stazione proprio qui vicino» lo informai.
Zio Albert annuì nuovamente. Estrasse di tasca una pipa, l’accese e tirò qualche boccata. Bella allontanò il muso dal fumo. Lui fissò lo sguardo sul mare e mi raccontò il suo problema.
Il punto era che non se la sentiva di prendere il treno. Un uomo aveva cercato di buttarlo giù, l’ultima volta che ci era salito, e ora era terrorizzato dai treni. E forse al suo arrivo ci sarebbe stato quell’uomo cattivo ad aspettarlo alla stazione.
Avevo incontrato molti individui malvagi, ma quello sembrava proprio un caso a sé stante.
«Che delinquente! Sarebbe potuta finire veramente male, zio Albert» dissi. «Ma perché l’ha fatto?»
Zio Albert si strinse nelle spalle.
«Ho scoperto una cosa che ad alcuni non piace.»
«Qualcosa sull’uomo del treno?»
«No, no. Non so nulla di quell’individuo, probabilmente è solo lo strumento di qualcun altro. Si tratta della luce. E del tempo.»
«Non sembra un argomento per cui arrabbiarsi» dissi.
«No, ma molti lo fanno» rispose, fumando con fervore la sua pipa.
Restammo un momento in silenzio. Le onde si frangevano sulla riva con un fruscio soporifero, e alcune meduse quadrifoglio arenate tremolavano nel vento come aspic capovolti. Zio Albert pensava alle sue faccende e io alle mie. Bella ne approfittò per fare i suoi bisogni.
«Dunque è il viaggio in treno il suo problema?» dissi io alla fine.
Zio Albert annuì.
«Allora ha avuto fortuna, perché questo si può risolvere. Domani Bella e io andremo all’Esposizione con il camion per il trasporto cavalli del conte. Partiremo alle sei del pomeriggio per evitare il caldo peggiore. Se darà una mancia all’autista, di sicuro non avrà nulla in contrario a fare una piccola deviazione per passare a prenderla. Così arriverebbe direttamente all’Esposizione senza rischiare di imbattersi in quell’uomo cattivo alla stazione. Che ne dice?»
Zio Albert s’illuminò. Trovava che fosse assolutamente perfetto. Magari avrebbe anche fatto in tempo a partecipare alla cena degli scienziati naturalisti al ristorante Centrale. E quanto al discorso, probabilmente gli avrebbero consentito di tenerlo in seguito.
Il giorno dopo zio Albert era sulla strada all’ora convenuta, in completo e cravatta e con i riccioli scuri che si muovevano al vento. Sembrava ansioso di mettersi in viaggio e si arrampicò con agilità nel vano di carico raggiungendo me e Bella.
Da quell’asina di mondo che era ormai diventata, Bella passò il tempo sdraiata, masticando pigramente qualche fuscello di paglia senza mai scalciare o fare storie. Dopo un viaggio tranquillo arrivammo alla stalla del Paradiso dei Bambini.
L’idea era che Bella rientrasse in servizio il giorno dopo. Ma quando la feci scendere dal camion, c’erano lì due ragazzini. Vedendo che Bella era tornata, lanciarono un grido di gioia e la gente cominciò ad affluire da ogni parte. Il pupazzo di lamiera dovette marciare senza bambini nelle sue galosce, e i pony di Gotland restarono improvvisamente soli accanto ai loro conduttori. I bambini si affollarono intorno a Bella, accarezzando il suo pelo folto come quello di un orsacchiotto di peluche, insistendo per poter fare un giro.
In tutta quella confusione, zio Albert approfittò per allontanarsi alla chetichella. Gli avevo indicato dove fosse il ristorante Centrale – che si trovava subito sopra il Paradiso dei Bambini – e mentre ero impegnato a calmare i ragazzini più impazienti lo vidi passare trotterellando davanti all’Äppleboda Värdshus. Si girò a salutarmi con la mano un’ultima volta, prima di scomparire dietro un gigantesco ovolaccio.