Mancavano tre giorni all’inaugurazione. Vicino al Padiglione dell’Export, un tizio inferocito batteva il pugno contro una parete incompleta.
«Minacciali! Corrompili!» urlava.
«Che cosa sta succedendo?» domandò Ellen, avvicinandosi con il suo taccuino.
L’uomo non si curò di lei, e un altro tizio col berretto di lana rispose al suo posto: «I portuali hanno esteso lo sciopero, tutte le merci destinate all’Esposizione sono state bloccate. Abbiamo un carico di legname da costruzione a bordo di una nave, ma non viene né scaricato né trasportato qui».
«Per la miseria, devono pur essere rimasti degli uomini disposti a lavorare in questa dannata città, non saranno mica tutti bolscevichi!» continuò il primo, prendendosela ancora con la parete sgangherata, che ondeggiò pericolosamente.
«Posso scrivere quello che ha detto?» chiese Ellen.
«No!» ruggì l’uomo.
Ellen infilò in tasca il taccuino e si allontanò in fretta. Uscì dall’area dell’Esposizione da un cancello di servizio e si ritrovò in Korsvägen proprio quando il tram numero 4, proveniente da Mölndal, compariva dalla foschia. Mezz’ora dopo scese in Masthuggstorget e andò verso il fiume. Quello avrebbe potuto essere il suo primo reportage per il Kronan och lejonet.
Per Ellen il porto era sempre stato un mondo sconosciuto, che l’attirava e al tempo stesso le incuteva timore, vagamente erotico con i suoi odori penetranti, i rumori secchi e gli uomini rozzi e muscolosi. Da bambina ci era andata molte volte insieme a suo padre e ai fratelli. Era sempre rimasta attaccata al papà mentre gru immense si muovevano minacciose sopra le loro teste, i camion facevano retromarcia verso direzioni imprevedibili e gli uomini si gridavano addosso con voci che a lei suonavano spaventosamente incollerite. Le era sempre parso un caos totale. Suo padre aveva cercato di spiegarle che cosa accadesse e a poco a poco si era resa conto che il porto era come un macchinario in cui ogni movimento aveva uno scopo ben preciso.
E adesso c’era lo sciopero.
Si fermò sul molo e si guardò intorno. Rimase quasi delusa: sembrava tutto uguale a sempre.
Piroscafi provenienti da ogni parte del mondo erano allineati lungo le banchine. Alla foce del fiume c’era il consueto formicolio di chiatte, rimorchiatori, traghetti e pescherecci. Sirene a vapore fischiavano, fumi turbinavano sopra l’acqua e sulla sponda opposta i martelli ribaditori producevano un rumore che echeggiava nella roccia, ritmico ed eccitante come quello dei tamburi.
Ellen alzò il bavero del cappotto. Il vento era gelido, sembrava incredibile che fosse maggio. Si avviò a passo svelto lungo la banchina, dove erano in corso le operazioni di scarico da una delle navi più grandi.
E in quell’attimo si accorse che qualcosa di diverso c’era.
I vagoni che di solito si muovevano cigolando avanti e indietro sul binario del porto erano fermi e silenziosi.
Giù in fondo, accanto ai magazzini, era in attesa una fila di camion. Ma gli autisti non stavano come sempre accanto ai veicoli, a fumare e chiacchierare: erano seduti nelle cabine con i motori accesi.
Davanti alla nave era radunato un gruppo di uomini che osservavano altri uomini occupati a trasportare grandi casse di legno lungo la passerella. Il lavoro non procedeva spedito. Gli uomini, che indossavano tute nuove di zecca e pulite, non tenevano il ritmo consueto. Si muovevano goffi e maldestri, gettandosi intorno occhiate ansiose. Alcuni sembravano più impiegati che stivatori, altri erano troppo magri e altri ancora avevano l’aria da alcolisti. Tutto il lavoro era eseguito a mano, mentre le gru erano immobili.
Il gruppo sulla banchina indirizzava invettive a quelli che stavano lavorando. Un muro di poliziotti li teneva a distanza dalla nave: non erano della polizia portuale, ma agenti con tanto di sciabole ed elmi luccicanti.
Era evidente che stava accadendo qualcosa.
Ellen si diresse verso il poliziotto che sembrava più giovane.
«Ellen Grönblad del Kronan och lejonet, il giornale dell’Esposizione» gridò mentre cercava di tenere a bada i fogli del taccuino agitati dal vento. «Può dirmi che succede, agente?»
«Be’, c’è lo sciopero, no?» borbottò il poliziotto. Pareva sorpreso.
«E gli uomini là sopra?» Ellen indicò con la penna la passerella. «Sono crumiri, vero?»
«Certi li chiamano così.»
«Sono traditori. Traditori!» sbraitò un uomo dietro di lei. «Porci codardi!»
Una donna con lo scialle comparve fra i magazzini, tirando un carretto che conteneva filoni di pane. Gli uomini sulla banchina cercarono di fermarla e alcuni acchiapparono un paio di filoni. Ma lei continuò ad avanzare faticosamente, mentre allontanava decisa quegli uomini grandi e grossi come se fossero stati una mandria di mucche troppo invadenti.
«Via, spostatevi, marmaglia comunista!» gridava con voce roca. «Non credete che quelli lassù abbiano bisogno di mangiare come voi? Non scenderanno di certo a fare pausa, finché ve ne state lì.»
Due poliziotti raggiunsero la donna e la scortarono attraverso l’assembramento fino alla passerella, dove un paio di crumiri erano pronti a prendere in consegna il pane.
«Quella è Hilda Lundström» gridò qualcuno. «I Lundström riforniscono le navi in sciopero! Fermate le attività della loro panetteria!»
«Chiudi il becco» sibilò la donna, attraversando di nuovo la folla con il suo carretto vuoto e cigolante.
I crumiri si affrettavano lungo la passerella con le casse di pane. Ellen aveva notato che ce n’era uno con un occhio nero. Si fece coraggio e si rivolse a uno degli uomini esasperati sulla banchina.
«Ellen Grönblad del Kronan och lejonet, il giornale dell’Esposizione» recitò meccanicamente, e aggiunse in fretta: «È un giornale indipendente. Ho sentito che avete sospeso tutti i trasporti per l’evento. Quanto tempo pensa che durerà il blocco?»
«Difficile dirlo, signorina» rispose l’uomo e staccò con un morso un grosso boccone di pane che aveva sgraffignato. «Se non vedremo soddisfatte le nostre richieste nell’immediato, forse saranno costretti a rimandarla, l’Esposizione.»
«Oh no, spero proprio di no!» disse Ellen.
«Un’Esposizione è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno» sbuffò un altro. «Vanto e millanteria per centinaia di migliaia di corone, quando c’è gente qui in città che non ha da mangiare. Lo scriva, signorina.»
Gli uomini sulla banchina ripresero a scagliare invettive all’indirizzo dei crumiri. Avanzavano da tutte le direzioni verso la nave, come un laccio che si stringeva. Ellen si rese conto di essere chiusa fra loro e i poliziotti, che adesso erano schierati con le spalle alla nave, a ranghi serrati e con le mani sull’impugnatura delle sciabole. La folla faceva pressione e lei fu schiacciata contro la ruvida stoffa e i duri bottoni d’ottone di una divisa.
«È meglio che si allontani da qui, signorina. Potrebbero esserci degli scontri» sibilò uno degli agenti, lo sguardo fisso davanti a sé. Era così vicino che Ellen poteva sentirne il respiro. Odorava di caffè, un profumo tranquillizzante in quel tumulto. La mano dell’uomo sull’impugnatura della sciabola tremava.
«Ma non riesco ad andare né avanti né indietro!» gridò Ellen disperata.
«Fate passare la signorina» tuonò una voce alle spalle della catena di poliziotti.
In mezzo agli elmetti, Ellen riuscì a distinguere un cappello di feltro grigio.
I due agenti più vicini si scostarono un po’, aprendo fra loro uno stretto passaggio. Una mano robusta vi s’infilò, afferrò Ellen per un braccio e l’attirò attraverso il muro di poliziotti, che subito si ricompattò dietro di lei.
Adesso era in piedi sull’orlo della banchina. L’odore di acqua salata, pece e metallo arrugginito si mescolava a quello delle uniformi sudate dei poliziotti. La passerella era stata ritirata e la nave pareva deserta. I crumiri erano scomparsi al suo interno, come formiche in un formicaio con l’avvicinarsi della pioggia.
L’uomo la teneva ancora saldamente, la mano chiusa senza sforzo intorno al suo braccio. Aveva un viso lungo e ben rasato, e occhi celesti sotto sopraccigli biondi. Ellen pensò che assomigliava agli uomini spigolosi e segnati dalle intemperie dei quadri di Carl Wilhelmson. Un pescatore oppure un contadino.
«Chi è lei?» domandò con circospezione. «Un crumiro?»
Forse avrebbe dovuto dire un «non scioperante»? Esisteva un termine neutrale? Si aspettava che l’uomo andasse in collera, ma lui rimase impassibile.
«Sono un poliziotto» rispose.
Si trovavano in un corridoio tra la catena degli agenti da un lato e l’enorme fiancata della nave dall’altro. Ellen udì le grida cadenzate degli scioperanti.
«Venga con me» disse il poliziotto in borghese, trascinandola lungo il muro di schiene in divisa.
Camminavano quasi sul bordo della banchina. Ellen evitava di guardare l’acqua oleosa, e si fissava invece le costose décolleté col cinturino che calpestavano escrementi di gabbiano, tabacco e sputi. Probabilmente avrebbe dovuto buttarle.
Una nave di passaggio emise un segnale così cupo e potente che tutto il porto parve tremare. Sussultando per lo spavento, Ellen inciampò in un cavo d’ormeggio. Sarebbe caduta in acqua se la stretta del poliziotto non l’avesse tenuta in piedi.
L’uomo continuò a guidarla verso un punto tranquillo dietro alcune baracche e poi le lasciò il braccio.
Il tumulto sulla banchina sembrava essere aumentato. Da dietro la baracca Ellen non poteva vedere più niente, ma udì una voce militaresca gridare degli ordini e la folla che sbraitava e inveiva. Con dita tremanti sfogliò il suo taccuino fino a una pagina bianca, ma si accorse di aver perso la penna.
Il poliziotto la guardò da sotto la tesa del cappello.
«Torni in redazione adesso, signorina» disse in tono gentile.
Chiamò con un gesto una vettura dal posteggio dei taxi accanto agli uffici doganali, e prima che Ellen avesse il tempo di protestare, aprì la portiera posteriore e la aiutò a salire.
«Grazie, agente» riuscì solo a dire Ellen mentre, ancora sconvolta, sprofondava nel sedile in pelle.
L’automobile si fece strada attraverso la folla. Qualcuno diede una manata così forte sulla carrozzeria, che la macchina ondeggiò. Ellen si volse. Nel lunotto posteriore vide il poliziotto ancora fermo a sorvegliare la sua partenza, alto e diritto nel cappotto e nel cappello di feltro, all’apparenza indifferente al tumulto che lo circondava.