Nella sala da pranzo della casa di riposo il televisore è sempre acceso a un volume considerevole, benché nessuno guardi niente. È una cosa terribilmente fastidiosa, che rende impossibile qualsiasi conversazione in tono normale. L’apparecchio è fissato in alto sulla parete, ma oggi sono riuscito a trovare il telecomando, e mentre il personale era occupato altrove, l’ho spento.
Dopo pochi secondi mi sono reso conto dell’errore. Il silenzio compatto di trentacinque anziani, rotto solo dal tintinnio delle posate e da qualche colpo di tosse catarrosa, era un’esperienza terrificante, mille volte peggio di qualsiasi orrore potesse produrre un apparecchio televisivo. Senza indugi ho recuperato il telecomando dal suo nascondiglio dietro le piante e l’ho riacceso.
Qui non c’è nessuno con cui possa parlare. Abbiamo tutti fra gli ottanta e i novant’anni, e si dovrebbe pur avere qualcosa in comune con quelli della propria generazione. Il problema è che nessuno di noi guarda gli altri come coetanei: intorno vediamo solo un sacco di vecchi e di vecchie, mentre noi siamo... qualcosa di totalmente diverso.
C’è una donna che soffre di una demenza ancora più grave della mia. È convinta di avere diciassette anni e subisce uno shock ogni volta che si ritrova davanti al grande specchio che qualche cinico arredatore ha sistemato nell’ingresso.
«C’è un errore, c’è un errore!» grida disperata passandosi le mani sul viso, come cercando di appianare le rughe e di cancellare le macchie pigmentose.
«Continua a recitare» sibilo camminandole accanto con il mio deambulatore. «Presto sarai liberata da questo teatro. Presto potrai scrollarti di dosso quel costume spiegazzato. Continua a recitare.»
Diventare così vecchi comporta che non ci sia nessuno che si ricordi di te da giovane. Fino a qualche decennio fa c’era ancora una piccola cerchia di persone, grossomodo della mia età, che riuscivano a vedermi come il ragazzo o l’uomo che avevano conosciuto una volta, nello stesso modo in cui io vedevo oltre il loro aspetto attempato e le percepivo com’erano state in passato, con i loro «veri» volti. Ci frequentavamo come i membri di una società segreta, ci facevamo visita a vicenda all’ospedale e alle case di riposo, ci specchiavamo gli uni negli occhi degli altri.
Oskar Eriksson è stato l’ultimo. Quando lessi il suo necrologio l’anno scorso, chiesi al personale di chiamare il servizio trasporti per anziani e disabili, e andai al suo funerale. Fu un’avventura, con il deambulatore e la sosta dal fiorista e tutto il resto, ma riuscii a farcela. Deposi un fiore sulla sua bara e piansi.
Non eravamo mai stati veramente intimi. Per qualche anno da giovani eravamo stati colleghi e andavamo alle piste da ballo a divertirci, e da adulti, quando ci incontravamo per strada, sollevavamo il capello in un gesto di saluto. Niente più di questo.
I suoi figli e nipoti avevano guardato perplessi quell’anziano signore, a loro del tutto sconosciuto, che piangeva.
Le mie erano solo lacrime di egoismo. Non piangevo Oskar, ma l’immagine di me stesso da giovane che si era portato con sé nella tomba.
Che spaventosa vanità, certamente. Ma mentre sono qui in sala da pranzo e mi guardo intorno fissando tutti questi visi cascanti, questi sguardi offuscati e vuoti e questi corpi sformati, mi rendo conto che è così che gli altri vedono me, e sono quasi colto dalla disperazione. Allora vorrei gridare come quella donna: «C’è un errore, c’è un errore!»
Non appena sono di nuovo nella mia stanza, mi siedo nella poltrona davanti al televisore.
Ormai non guardo più la televisione. Una volta seguivo i notiziari, ma ora ho smesso. Non ho alcun interesse per quello che succede in un mondo cui non appartengo più, e nemmeno per i programmi d’intrattenimento o i film. Quale programma televisivo potrebbe misurarsi con il film che scorre nel mio cervello in decadimento? Quale mezzo di comunicazione può far concorrenza alla visione analitica e tridimensionale del passato di un anziano demente?
Perciò resto seduto davanti al grigio schermo spento del televisore e cerco il canale giusto nella mia memoria. Dove mi trovo adesso? Ma certo, alla Grande Esposizione! Nel 1923!
Che periodo incredibile fu, quello!
La vecchia società resisteva, fianco a fianco con quella nuova, ancora fragile e incompleta. I carretti tirati dai cavalli si dividevano le strade con le automobili. Gli aeroplani passavano rombando sopra catapecchie di legno piene di spifferi, dove i poveri vivevano come nell’Ottocento. Nell’arco di cinquant’anni la popolazione di Göteborg era quadruplicata. Si viveva gomito a gomito, in condizioni claustrofobiche. La gente abitava nelle soffitte, negli scantinati, nelle baracche dei cortili. Uguaglianza e riforme sociali erano ancora soltanto idee nella testa delle persone. Le donne avevano appena ottenuto il diritto di voto.
Il movimento dei lavoratori cominciava ad avere un peso politico, ma non era ancora maturo. A Göteborg i socialdemocratici avevano la maggioranza nel consiglio comunale. Ma il presidente, il falegname Herman Lindholm, non si riteneva all’altezza di fare da padrone di casa in occasione dell’Esposizione celebrativa del tricentenario, poiché non padroneggiava alcuna lingua straniera. Durante l’anno dell’evento rinunciò alla presidenza e restituì temporaneamente il potere a coloro che in città erano abituati a fare e disfare: i ricchi commercianti e industriali. Axel Carlander, che insieme a suo padre aveva fondato l’industria di cuscinetti a sfera SKF, fu reintegrato come presidente del consiglio comunale per tutto il periodo dell’Esposizione.
Era un’epoca che sembrava nata con troppo anticipo. Con cautela e tentennando cercava di reggersi sulle proprie gambe, senza sapere bene di che cosa fosse capace e quale fosse la sua vera natura.
Talvolta si respirava un ottimismo eccessivo. Secondo i giornali, ben presto chiunque avrebbe potuto prendere l’aeroplano per andare da Göteborg a Stoccolma. Sarebbe stato possibile prenotare un «aerotaxi» come si era appena imparato a prenotare un taxi. In realtà doveva passare ancora mezzo secolo prima che un biglietto aereo fosse accessibile alla gente comune, ma nel 1923 appariva come qualcosa di imminente.
L’Esposizione aveva molto a che fare con l’aria: aeroplani, dirigibili, funivie e onde radio. Trattava anche della luce: lampioncini alla veneziana, fuochi d’artificio, edifici illuminati. E di magia. Termini come «fiabesco», «saga», «ammaliante» e «sogno» ricorrevano di continuo.
C’era qualcosa d’irreale in tutto questo. Un’illusione. Il futuro faceva capolino per un istante attraverso il sipario e poi si ritirava prima che qualcuno facesse in tempo a capire cos’aveva visto davvero.
Un giorno di maggio arrivammo all’Esposizione, Bella e io. Avevamo viaggiato a bordo del camion sul quale venivano trasportati i cavalli del conte quando dovevano partecipare a una corsa. Io stavo nel vano di carico insieme a Bella. Non era male, c’erano dei finestrini attraverso cui guardare fuori e una panca pieghevole dove sedersi. Fra le due poste c’erano balaustre lavorate e pali in ferro dipinti di rosso con pomelli d’ottone, così che i cavalli avessero qualcosa di gradevole da guardare e fossero di buon umore quando arrivavano alle gare. Poiché non andavo mai in macchina, quel viaggio mi sembrò un’avventura emozionante.
Bella la pensava diversamente. Emise gridi spaventosi per tutto il tragitto e tirò calci alle pareti imbottite, facendo tremare il veicolo. All’inizio l’autista guidava piano e con cautela, ma vedendo che non serviva aumentò l’andatura più che poté per abbreviare lo strazio per Bella e per noi.
In Södra Vägen entrammo dall’ingresso di servizio nel Paradiso dei Bambini. Dopo aver fatto fuoco e fiamme per tutta la strada, Bella era stanca e quando la condussi fuori tenendola per la cavezza mi seguì docile. Annusò il terreno fangoso e cominciò a sbuffare impaziente, desiderosa di rotolarsi. Pensai che fosse meglio lasciarglielo fare, perché le avrebbe migliorato l’umore. In ogni caso il mattino seguente avrei dovuto strigliarla con cura.
Ma nella stalla ci furono dei problemi. Era già occupata da dieci pony di Gotland, un vitello e due capre, e a Bella queste ultime non andavano proprio a genio. La sbirciavano curiose oltre la parete della loro posta, e Bella rispose sollevandosi sulle zampe posteriori e attaccandole con gli zoccoli anteriori. Le capre si precipitarono di qua e di là come impazzite, belando forte.
Una guardia entrò nella stalla e volle sapere che cosa stava succedendo.
«Davvero quell’asina dovrà portare in groppa dei bambini?» chiese. «Sembra pericolosa.»
Gli assicurai che si sarebbe calmata. Non aveva problemi con i bambini, finché c’ero io. Ma detestava gli altri animali, soprattutto le capre.
Dopo che Bella venne sistemata nel suo box, mi diedero del latte e due panini dolci alla Äppleboda Värdshus, il piccolo locale nel Paradiso dei Bambini. Sedie e tavoli erano più bassi del normale, adatti ai più piccoli. «Magari ti andrebbe anche uno zabaione?» mi disse la ragazza che serviva. Doveva avere più o meno la mia età, dodici o tredici anni, e indossava un grembiule bianco e una cuffia, come le cameriere adulte. Io non sapevo che cosa fosse lo zabaione e non volevo chiedere, per cui declinai l’offerta. Poi me ne pentii; se avessi detto di sì, almeno avrei scoperto che cos’era. E se non mi fosse piaciuto, avrei sempre potuto versarlo in uno dei grandi vasi di fiori mentre lei non guardava. Decisi che, se me l’avesse offerto di nuovo, avrei accettato.
Fui sistemato presso una famiglia con quattro figli a Haga, dove avrei diviso il divano letto in cucina con un altro ragazzo un po’ più grande. Lavorava come inserviente al mattatoio e aveva addosso un odore terribile. Quando ci coricavamo la sera, io sul divano e lui sotto nella parte estraibile, mi raccontava senza scomporsi e quasi compiaciuto i compiti che aveva svolto durante la giornata: spalare interiora, sciacquare via il sangue e affogare ratti. Dalla stanza accanto si udivano gli strilli del bambino più piccolo e i litigi della famiglia.
Dopo due notti ne avevo avuto abbastanza e mi trasferii da Bella nella stalla del Paradiso dei Bambini. Lei aveva un odore cento volte più gradevole del ragazzo del mattatoio, e aveva il buon gusto di tacere quando volevo dormire. Con qualche balla di fieno come giaciglio stavo veramente comodo.
La famiglia di Haga non sentiva di certo la mia mancanza, e finché il conte pagava per me non vedevano motivo di informarlo che non usufruivo più della loro ospitalità.
Quando all’ora di chiusura il personale del Paradiso dei Bambini faceva un giro d’ispezione prima di andare a casa, io mi raggomitolavo in un angolo buio del box di Bella, nascosto sotto una coperta da cavallo. Poiché nessuno osava avvicinarsi a lei, non fui mai scoperto.
Di notte a volte lasciavo Bella e uscivo per vagabondaggi solitari nell’area chiusa dell’Esposizione. Era come aggirarsi in una città fantasma. I grandi padiglioni, progettati per accogliere migliaia di persone, erano deserti. A parte i lampioni lungo le vie, quasi tutta l’illuminazione elettrica era spenta. Ma le fiaccole dei minareti fiammeggiavano contro il cielo notturno e l’occhio vigile del faro dell’Esposizione ammiccava dall’alto della collina.
Andare in giro di notte poteva essere rischioso. C’erano diverse guardie con le torce e la stazione di polizia era presidiata ventiquattro ore al giorno. Una notte ci fu un baccano infernale all’Esposizione dell’Automobile, dove si erano introdotti due individui per rubare. Furono immediatamente catturati.
Ma il più delle volte dormivo come un sasso sulle balle di fieno. Ero stanco, poiché ogni giorno percorrevo moltissimi chilometri a piedi.
La mattina mi lavavo sotto la pompa e cercavo di rassettarmi come meglio potevo. Poi andavo alla Äppleboda Värdshus, dove mi venivano dati il latte e un panino dolce dalla giovane cameriera, a cui stavo simpatico.
Il Paradiso dei Bambini era un piccolo mondo a sé. Tutto era fiabesco e in proporzioni singolari. C’erano ovolacci talmente alti che quando pioveva un uomo poteva stare in piedi sotto il loro cappello, e un gigantesco pupazzo di lamiera con le gambe mobili. Quando marciava, i bambini stavano seduti dentro le sue galosce come in un dondolo. Il pupazzo aveva un ghigno sgradevole dipinto sul volto e le sue dimensioni, unite al cigolio dei movimenti meccanici, spaventavano i più piccoli.
C’erano anche una giostra e un albero che la sera si illuminava di lanterne rosse. E poi ovviamente c’erano gli animali: capre, pony, vitellini, un pappagallo, tre scimmie, un cucciolo di foca e perfino alcuni piccoli coccodrilli. Bella li detestava tutti.
A parte i bambini che venivano lì per divertirsi, c’eravamo noi che ci lavoravamo: bambini e bambine che vendevano caramelle e giocattoli nei simpatici negozietti, le graziose cameriere dell’Äppleboda Värdshus, i ragazzini in uniforme della sfilata del Corpo di Guardia, i piccoli artisti che si esibivano nei cori, negli spettacoli teatrali e come ginnasti. Insieme dovevamo creare l’illusione di un mondo innocente in cui vivevamo per conto nostro, impegnati tutto il giorno a fare girotondi, accarezzare animali e sbocconcellare biscottini speziati. Ovviamente era una messinscena curata nei minimi dettagli dagli adulti, sempre presenti sullo sfondo a tenerci d’occhio.
Ogni mattina, poco prima che aprissimo, uno strillone distribuiva in tutti i padiglioni copie gratuite del Kronan och lejonet, il giornale dell’Esposizione. Io gli davo sempre una rapida scorsa, mentre mi spazzolavo l’uniforme e chiudevo gli ultimi bottoni della giacca, e ogni volta constatavo la stessa cosa: eravamo in prima pagina.
Il giornale si apriva con il programma quotidiano dell’Esposizione. E poiché ogni giornata iniziava con i giri in groppa a Bella, era sempre la prima a essere menzionata, davanti a cantanti lirici, funamboli, scienziati e membri della famiglia reale.
Se si è in prima pagina tutti i giorni si viene considerati delle celebrità, e Bella lo era. L’Asina Bella e il Dondolo Galoscia erano le due attrazioni preferite dai bambini all’Esposizione. (Oserei dire che Bella era persino più popolare del famoso Dondolo, la cui notorietà si fondava più sul terrore che sul divertimento.) Anch’io raggiunsi una certa fama. Me ne rendevo conto quando mi ritrovavo ad attraversare da solo l’area espositiva per svolgere qualche incarico, vestito con la mia uniforme, e sentivo di continuo dei bambini esclamare: «Guarda, quello è il ragazzo dell’asina!», oppure «Ehi, ragazzo dell’asina, dove hai lasciato Bella?»
Quando i cancelli del Paradiso dei Bambini venivano aperti, alle dieci, c’era già la coda. Molti maschietti erano vestiti alla marinara; le bambine indossavano abitini bianchi di tulle, che le facevano assomigliare a pasticcini alla panna, e in testa avevano grandi fiocchi, cappellini di paglia con il nastro o piccole cloche, proprio come le signore.
Al loro turno i bambini mi consegnavano il biglietto, che spesso era umido e spiegazzato dopo essere stato stretto a lungo nei piccoli pugni impazienti. Io li aiutavo a salire in sella e poi partivamo per il giro attraverso l’area espositiva.
Non avevo un percorso preciso: variava a seconda del numero di bambini in attesa e degli altri animali che erano contemporaneamente in servizio. Oltre Bella c’erano infatti anche i dieci pony di Gotland e la Capra Dora che trainava un carrettino.
Quando non c’era troppa coda, arrivavamo fino al parco divertimenti, magari facendo una puntata al Padiglione dell’Export appena fuori del Padiglione della Meccanica o all’Esposizione dell’Automobile. A volte invece andavamo verso la sezione della pesca con l’acquario puzzolente dove i pesci morivano di continuo, o dalla parte opposta fino alla sezione storica, dove uomini dalla lunga barba e donne con la cuffia erano seduti fuori da piccole case di legno impegnati in attività d’altri tempi (così che i visitatori potessero sorridere e sentirsi molto moderni).
Sebbene non avessi il permesso di entrare nei padiglioni, durante i miei giri con Bella avevo la possibilità di sperimentare parecchio dell’Esposizione. Insieme formavamo un occhio mobile che aveva il controllo di tutta l’area. In un solo giorno vedevo molte più persone di quante ne avessi mai viste nella mia vita, e i loro abiti, dialetti e atteggiamenti mi affascinavano.
Scoprii che l’Esposizione consisteva di tanti piccoli mondi che, come il Paradiso dei Bambini, riuscivano sorprendentemente ad apparire autonomi e solidi. Nessuno poteva credere qualcosa di diverso dal fatto che la vecchietta della sezione storica che filava passasse le notti nella sua piccola casa di legno con il tetto d’erba, che gli ingegneri lavorassero di continuo a nuove scoperte nel Padiglione della Meccanica o che i nani di Piccolandia avessero trascorso tutta la vita nella loro divertente città in miniatura.
Nel mio caso l’illusione era autentica: abitavo davvero nel Paradiso dei Bambini.
Spesso dai genitori più benestanti ricevevo una mancia dopo il giro con Bella, spiccioli che utilizzavo fra le altre cose per visitare regolarmente i moderni bagni con doccia accanto al ristorante Centrale.
C’era persino una lavanderia, dove per una somma abbastanza modesta si potevano lasciare i propri vestiti, però io non ne avevo bisogno: indossavo sempre la mia uniforme blu. Poiché ci dormivo anche, sopra un giaciglio di balle di fieno e sotto una coperta da cavallo, si sporcava in fretta, ma mi bastava consegnarla alla lavanderia del personale e ritirarne una pulita. Mi premuravo di ritirarne due alla volta, in modo da indossare comunque qualcosa quando lasciavo la divisa sporca alla lavanderia: sotto l’uniforme infatti ero completamente nudo. La mia biancheria intima l’avevo buttata via, dato che non avevo la possibilità di lavarla. In una cassetta nel box di Bella, insieme alle spazzole per strigliarla e alla pomata per gli zoccoli, conservavo i miei indumenti – pantaloni, camicia e berretto con visiera. Di quelli avrei avuto bisogno per tornare a casa. Come potete vedere, avevo pensato a tutto.
Bella e io facevamo i nostri giri con qualsiasi tempo, anche quando pioveva a dirotto e le vie si trasformavano in ruscelli, perché c’erano sempre bambini speranzosi che avevano fatto lunghi viaggi con i loro genitori per visitare l’Esposizione e cavalcare la famosa Asina Bella, e noi non volevamo deluderli.
Avevamo a disposizione mantelle di tela cerata con il cappuccio, che infilavo ai bambini dopo averli aiutati a montare in sella. Anch’io ne mettevo una sopra l’uniforme, così assomigliavamo a Giuseppe e Maria in viaggio verso Betlemme. A Bella doveva ricordare il presepe sul sagrato della cattedrale, e forse era il pensiero di quel suo primo successo di pubblico a tenerle alto l’umore.
Gli asini sono animali resistentissimi, abituati a sopportare condizioni difficili. Anzi, sembrano addirittura preferirle e non amano essere viziati. Si muovono più agilmente sui sentieri sassosi che non sull’erba tenera, e i loro zoccoli non necessitano di ferratura. Mangiano di tutto, ma prediligono foraggio magro. Considerano i cardi spinosi una vera leccornia, mentre il foraggio ricco di nutrienti provoca loro il mal di pancia. Anche se di solito vivono in paesi caldi, tollerano benissimo la neve e il gelo.
In tutto questo, io mi riconosco. Mi sono sempre trovato più a mio agio in condizioni semplici. Forse per quello io e Bella andavamo così d’accordo.
Ma c’è una cosa che gli asini proprio non sopportano: la pioggia. Sono fatti per il clima secco. I loro zoccoli assorbono anche la minima goccia di rugiada e la diffondono nel corpo. Acquazzoni e venti umidi non giovano affatto al loro delicato sistema.
Per Bella l’estate insolitamente piovosa del 1923 dev’essere stata come un lento annegamento interno.