All'inizio c'è la testa. (Le dipingeva ossessivamente). I capelli erano il centro. Rasati, come quelli di un carcerato, quando lasciò casa sua a Brooklyn a quindici anni. Disse che era un travestimento per non farsi beccare dagli sbirri. Biondi e acconciati, come un futuristico indiano mohawk, quando fece la sua ascesa nello scenario di Downtown, localizzabile opera d'arte topiaria nella terra dei club. E quando SAMO, graffitista straordinario, cambiò anche i suoi capelli cambiarono. Adesso il cranio era per metà in vista, la testa rasata circondata da dread rasta. Poi i dreadlocks, una corona versione Basquiat. Diceva di avere preso il simbolo dal marchio della King World Productions nei titoli di coda delle Simpatiche canaglie, ma l'aveva fatto suo.
Poi gli occhi. Aveva quello sguardo. Non l'aveva copiato da Warhol, ma sapeva come usarlo. La gente diceva che con gli occhi riusciva a mangiarti la faccia, a vederti dentro, ad attraversarti come avesse la vista a raggi x degli eroi dei suoi fumetti. Vedeva cose che gli altri non vedevano. Per collegarsi, si disconnetteva. Nella paranoia, nelle droghe, nella musica, nella televisione. Assaporando la cultura, sputandola poi via in pezzi disordinati.
Quindi la pelle. Non c'era modo di evitarla: lo conteneva. Non riusciva a fermare i taxi. La gente non gli voleva stringere la mano. La pelle lo tradiva. Non lo proteggeva dal mondo. Era troppo sottile, troppo sensibile. Non aveva la milza, non aveva filtri per il veleno. Alla fine esplose, immagine superficiale di una piaga interiore.
I piedi erano spesso scalzi. Stare senza scarpe era la sua divisa. Richiamo inconscio alla sua regalità africana, arrogante e folk. Faceva questa specie di danza, defilato, che era futuro e preistoria insieme. Un astronauta hip hop venuto da un altro pianeta. Lui non camminava. Non era come i ragazzini che per la prima volta indossano i calzoni lunghi. Aveva quella sua falcata curiosa, un po' barbone, un po' bambino.
Basquiat non era uno normale. Viveva sullo stile paga e prendi. Ma in alcune cose era imbattibile, in centinaia di cose. Nei disegni, nei dipinti e nelle note che lo raccontavano come un test Rorschach. Basquiat viveva i suoi dipinti: ci dormiva sopra, ci camminava sopra, ci mangiava sopra. Ci scribacchiava sopra i numeri di telefono dei suoi amici, i conti da pagare, i menu a portar via, i nomi della gente e dei posti, le bibliografie, la sua idea della Storia.
Morì per un'overdose di eroina a ventisette anni, come i suoi eroi, brillanti tossici e artisti del Jazz. In base a uno dei suoi ultimi appunti, pensava di comprarsi un saxofono.