«Se ti restassero solo ventiquattr'ore di vita, che cosa faresti?».
«Non lo so. Me ne andrei in giro con mia madre e la mia ragazza. Credo».
JEAN-MICHEL BASQUIAT, videointervista di Tamra Davis e Becky Johnston, 1986
Venerdì 12 agosto 1988. Sul marciapiede fuori dal 57 di Great Jones Street la solita triste schiera di crackdipendenti se ne stava sdraiata al sole cocente. Dentro un edificio di mattoni a due piani, Jean-Michel Basquiat era sveglio sul suo gigantesco letto, inondato dalla luce blu della Tv. L'aria condizionata era rotta e la stanza era una specie di forno a microonde. La porta del bagno era socchiusa, e s'intravedeva una vasca da bagno Jacuzzi nera e marroncina. Sul bordo della vasca c'era un mucchietto di siringhe sporche di sangue. Nella finestra del bagno c'era un buco irregolare. Sotto c'era scarabocchiato, a mo' di didascalia, «Cuore infranto», con il simbolo preferito da Basquiat, quello del copyright.
Kelle Inman, la ventiduenne fidanzata di Basquiat, era al piano di sotto a scrivere sul diario che lui le aveva regalalo. Di solito dormiva tutto il giorno, ma quando vide che a pomeriggio inoltrato l'artista ancora non era sceso per la colazione, la Inman cominciò a preoccuparsi. Quando salì in camera a controllare, la calura la colpì in pieno viso, come un'onda. Ma Basquiat sembrava dormire beatamente, e così se ne tornò di sotto. Lei e la donna delle pulizie lo sentirono russare forte, ma non ci fecero caso.
Poche ore dopo telefonò un amico di Basquiat, Kevin Bray. Lui, Basquiat e un altro loro amico, Victor Littlejohn, quella sera sarebbero dovuti andare a un concerto dei Run-D.M.c. Chiamava per mettersi d'accordo con Jean-Michel. Kelle risalì le scale per dirglielo. Questa volta lo trovo sdraiato sul pavimento, la testa nascosta dentro il braccio, come un bambino, mentre una piccola pozza di vomito prendeva forma vicino al mento.
La Inman fu presa dal panico. Non aveva mai visto nessuno morire, anche se lo strafarsi di droghe di Basquiat le aveva messo addosso una costante paura. E adesso sembrava fosse capitato il peggio. Corse al telefono e chiamò Bray, Littlejohn e Vrej Baghoomian, l'ultimo gallerista di Basquiat1-1. Ricorda Bray:
Quando arrivai là Kelle disse che aveva chiamato un'ambulanza. Mi portò di sopra. Jean-Michel sembrava svenuto. Era sul pavimento, sdraiato contro il muro, come se fosse caduto e non avesse avuto la forza di rialzarsi, e si fosse solo appisolato. C'era un sacco di roba liquida che gli veniva fuori dalla bocca. Lo tirammo su e lo girammo. Provammo a scuoterlo, e cercammo insistentemente di rianimarlo. L'ambulanza ci mise molto ad arrivare. Ma per un po', dopo che i tizi del Pronto Soccorso arrivarono, pensammo che fosse tutto ok. Gli erogarono scosse elettriche e gli fecero un'intravenosa. Victor dovette tenere su Jean-Michel, così che il contenuto della flebo riuscisse a defluire [Bray stira le braccia verso l'esterno come fosse crocifisso, nda]1-2.
Bray non riuscì a resistere. Andò di sotto, dove la Inman e due assistenti della galleria di Baghoomian, Vera Calloway ed Helen Traversi, cercavano di rimanere calme. «Provammo a tastargli il polso. Scottava»1-3, dice la Calloway. Baghoomian chiamò allo studio proprio quando arrivarono gli infermieri. Era a San Francisco ed Helen era stata costretta ad andare lì al posto suo1-4.
«Era come assistere a una qualche trattativa commerciale», dice Bray, «gli misero un tubo in gola e lo portarono di sotto. Non ci dissero se era vivo o morto e lo portarono fuori. Aveva questa bella bava rossa e bianca che gli usciva dalla bocca»1-5.
«Speravamo tutti che accadesse un miracolo»1-6, dice Helen, che al ricordo comincia a piangere. Fuori, sul marciapiede, si era radunata una piccola folla atterrita e stordita. Racconta il regista Amos Poe, amico dell'artista:
Ero lì con mia moglie e stavamo partendo per le vacanze. Li vedemmo caricare il corpo nell'ambulanza. Vidi il padre che si fermava con la sua Saab. Continuai a ripetere a mia moglie: «Jean-Michel è morto». Lui che era veramente al di fuori del mito distruttivo del: «Muori giovane e lascia un bel cadavere»1-7.
Al Cabrini Medical Center Basquiat fu dichiarato morto già all'arrivo. La causa, secondo il certificato di morte del medico legale, sarebbe stata stabilita tramite «esami chimici in corso»1-8. Il referto della successiva autopsia stabilì che Basquiat era morto per «acuta intossicazione da miscela di droghe (oppiacei e cocaina)». Nei mesi che avevano preceduto la sua morte, Basquiat aveva detto di farsi un centinaio di dosi di eroina al giorno.
Cinque giorni dopo Basquiat venne seppellito al Green-Wood Cemetery di Brooklyn. Il padre invitò solo pochi amici artisti alla cerimonia di chiusura della bara alla cappella Frank Campbell. Li batteva in numero la falange di galleristi. L'ondata di caldo era finita, e sul gruppo di gente radunatosi al cimitero per dire addio a Jean-Michel pioveva. Il discorso funebre venne pronunciato dal consulente artistico della Citibank, Jeffrey Deitch, che conferì così al momento un involontario tono ironico1-9.
Bianca Martinez, la donna delle pulizie di Basquiat, restò turbata dall'alienazione dei presenti: «Se ne stavano ognuno per i fatti propri, come se fossero stati costretti ad essere lì», dice. «Era come se la cosa non li riguardasse. Alcuni sembrava si vergognassero»1-10. La gente iniziò ad andar via prima che il corpo fosse seppellito. Ignorando i rimproveri dei becchini, la Martinez gettò una manciata di terra sulla bara non appena la calarono nella fossa.
La madre di Basquiat, Matilde, con l'aria stordita, si avvicinò a Baghoomian per ringraziarlo di aver aiutato suo figlio in quegli ultimi giorni1-11. Gerard Basquiat più tardi intimò all'ex-moglie di non parlare con il gallerista1-12. La scena stava già diventando terreno di un'amara battaglia per il patrimonio dell'artista.
La settimana successiva alcuni periti di Christie's si misero al lavoro per inventariare il contenuto del loft di Great Jones Street: dipinti finiti e non finiti, opere di altri artisti (incluse diverse dozzine di Warhol e un pezzo di William Burroughs), una collezione vintage di mobili coloniali, un armadio a muro pieno di abiti Armani e Comme des Garçon, una biblioteca con oltre mille videocassette, centinaia di musicassette e libri d'arte, una copia cartonata della biografia di Charlie Parker Bird Lives!1-13, varie biciclette, qualche giocattolo antico, un punching bag Everlast, sei sintetizzatori, qualche strumento africano, un Meccano e un paio di cuffie1-14.
Nei magazzini c'era anche qualche quadro: su consiglio di Andy Warhol Basquiat aveva cercato di salvaguardare alcune delle sue opere dall'insaziabile avidità dei galleristi. In base alla stima fatta da Christie's, Basquiat aveva lasciato 917 disegni, 25 album di schizzi, 85 litografie e 171 dipinti. L'artista Dan Asher, mentre andava al loft del vecchio amico, rimase turbato vedendo alcuni degli oggetti preferiti di Basquiat dentro un cassonetto: le sue scarpe, la sua collezione di dischi jazz, una strana lampada fatta di rottami, la sedia da regista di Sam Peckinpah. Asher recuperò qualcosa, e poi vendette la sedia a un collezionista1-15.
Sarebbe passato un altro anno prima che Gerard Basquiat ordinasse una lapide per il figlio. Ma per diverse settimane dopo la morte l'artista venne commemorato con un piccolo sacrario che dei fan sconosciuti improvvisarono davanti alla sua porta. Ricoperto di merletto, conteneva fiori, candele votive, una foto di Basquiat, qualche preghiera accuratamente ricopiata e la fotocopia di una caricatura dell'artista fatta da David Levine, completata da una didascalia: «In un'era di possibilità illimitate e di limitanti paure, non ha mai smesso di fare poesie e dipinti che evocassero il suo mondo»1-16.
Infine, un burrascoso sabato di novembre, venne organizzata una solenne cerimonia funebre alla Saint Peter's Church del Citicorp Center1-17. Malgrado la pioggia, il vento e il tetro cielo grigio, diverse centinaia di persone affollarono la chiesa. Dietro il pulpito era stato appeso un ritratto dell'artista da giovane, sovrapposto a uno dei suoi dipinti falso-primitivo. Uno dopo l'altro, i suoi ex-amici e le sue ex-amanti lo ricordarono.
I Gray, la band con cui Jean-Michel suonava al Mudd Club, eseguirono qualche pezzo. John Lurie suonò il saxofono, Ingrid Sischy, direttore della rivista «Interview», lesse un elogio funebre. Le ex-fidanzate Jennifer Goode e Suzanne Mallouk, in lacrime, lessero delle poesie. E Keith Haring, malato di Aids, ricordò così l'amico: «Stravolse le politiche del mondo dell'arte sostenendo che se volevano che giocasse al loro gioco, le regole le avrebbe stabilite lui. Le sue immagini entrarono nei sogni e nei musei di sfruttatori, e il mondo non sarà più lo stesso». Fab 5 Freddy, che conosceva Basquiat dai tempi dei graffiti, interpolò una poesia di Langston Hughes:
Questa canzone è per il genio bambino. / Cantala piano, perché è una canzone ribelle. / Cantala piano, più piano che puoi / – che non ti scappi di mano. / Nessuno ama un genio bambino. / Sapresti amare un'aquila, / docile o selvaggia? / Selvaggio o docile, / sapresti amare un mostro / dal nome spaventoso? / Nessuno ama un genio bambino. / Liberalo [sic] e lascia che la sua anima corra selvaggia1-18.
Dopo la funzione andarono tutti all'M.K., la banca trasformala in nightclub sulla Quinta Avenue. Era del fratello di Jennifer Goode, ed era uno dei posti preferiti da Jean-Michel. In effetti era l'ultimo posto dov'era stato la notte prima di morire. Era andato al club perché cercava Jennifer. Adesso la gente se ne stava in piedi intorno al grosso televisore a sorseggiare champagne e a guardare un video tremolante e in bianco e nero di Basquiat. Un fotografo della rivista «Fame» scattava foto dei famosi e dei meno famosi: la disegnatrice di gioielli Tina Chow e sua sorella, Adele Lutz, moglie di David Byrne. Il regista Jim Jarmusch. Era l'addio perfetto per la star dell'arte degli anni Ottanta: un po' vernissage, un po' veglia funebre1-19.