Nei pochi mesi successivi, la pretenziosa dichiarazione di Basquiat sulla sua fama futura cominciò a dare dei risultati, grazie soprattutto a Diego Cortez che era impegnato a crearsi una nicchia come gallerista indipendente e curatore. Come tutti gli altri, anche Cortez s'era inventato una nuova identità più alla moda, e il suo vero nome era James (Jim) Curtis. Per quell'ironia propria degli anni Ottanta, girava voce che fosse il custode che aveva buttato fuori Tony Shafrazi dal Museum of Modern Art dopo che aveva vandalizzato il Guernica di Picasso. La storia apocrifa era apparsa la prima volta in un profilo di Cortez sulla rivista «Files». In effetti Cortez aveva lavorato come guardia addetta alla sicurezza di Guernica, ma non al tempo del celebre gesto di Shafrazi.
Cortez era cresciuto in una famiglia piccolo borghese a Wheaton, in Illinois, una periferia residenziale di Chicago. Aveva lavorato per la campagna elettorale di Barry Goldwater, per poi diventare radical – e venire fuori dall'ombra – mentre studiava al Wheaton College, dove fondò il secondo Fronte di Liberazione Gay e si diplomò in cinema. Dopo il diploma cominciò a fare dei lavori di arte performativa in un quartiere abitato prevalentemente da ispanici, e si diede un nome ispanico. «Fu una scelta condizionata da questioni sociali e politiche. Le tematiche razziali sono sempre state importanti per me»7-1.
Dopo la laurea alla University of Chicago, dove fece parte di un circolo insieme agli artisti Vito Acconci, Nam June Paik e Dennis Oppenheim, nel 1973 si trasferì a New York. Come molti degli altri animatori e agitatori dello scenario di Downtown dell'epoca, Cortez migrò dal mondo del cinema indipendente a quello dell'arte. Tra i fondatori di Colab, Cortez prese parte personalmente al movimento d'arte negli spazi pubblici, e aiutò a mettere su la lista di artisti che avrebbero esposto al Times Square Show. Dice la collega e amica Alanna Heiss: «Diego era alla ricerca di un nuovo ruolo. Voleva manipolare e controllare il talento della gente. Tutto sta nel prendere in prestito il potere degli altri. Io lo chiamo il Dilemma di Diaghilev7-2 e mi sembra che Diego ne sia stato il primo esempio»7-3.
Adesso Cortez stava progettando un'altra mostra seminale: voleva esporre tutto quanto lo scenario culturale di Downtown. Nella grande mostra che stava curando al P.S.1 decise di esporre le tele di Basquiat che s'era accaparrato, insieme ai nuovi lavori fatti con materiali di recupero.
Il P.S.1 era un gioiello nella folla di spazi alternativi che erano nati dallo scenario artistico di video, performance e installazioni degli anni Settanta ospitati dai loft di SoHo, e colmava il gap tra gallerie e musei esponendo l'arte in spazi pubblici e finanziati dallo Stato. La fondatrice e direttrice del P.S.1, Alanna Heiss, fu uno dei primi animatori dei nuovi spazi alternativi e funky che aprirono in vuoti edifici non convenzionali di tutta New York. Inizialmente aveva concepito lo spazio alternativo come una sorta di sede d'arte costantemente itinerante: «Avendo lavorato nei musei, volevo evitare quel tipo di sforzi che si fanno per mantenere questi giganteschi edifici o strutture di New York. C'era così tanti tipi di immobili a disposizione»7-4.
Lavorando fuori dal suo «ufficio», la cabina telefonica del CBGB'S, nel 1972, finì per creare l'Istituto per le Risorse Urbane, che includeva diversi spazi unici, tipo la Clocklower, ideati per mettere in mostra il «mondo parallelo che stava iniziando a costruirsi tutt'intorno allo scenario punk». Il P.S.1 era il più grande di questi spazi. «Quello che volevo fare era creare un centro d'arte-museo in cui occuparmi di alcune delle cose che vedevo nei club. L'alternativa sarebbe stata aprirmi un mio nightclub»7-5, dice la Heiss.
Il P.S.1 aprì nel 1976 in una scuola elementare abbandonata di Long Island City, nel Queens, con una mostra acclamata dalla critica, Rooms, in cui cento artisti avevano a disposizione una stanza a testa da trasformare in opera d'arte. Da lì a quando Cortez (che, tra i tanti lavori, era stato custode della collezione di Herbert e Dorothy Vogel, una coppia stile impiegati delle poste diventati esperti d'arte, nel periodo in cui fu esposta alla Clocktower) allestì la mostra New York/New Wave, nel febbraio del 1981, il P.S.1 era diventato il Whitney degli spazi alternativi.
«New York/New Wave è stata la mostra più esageratamente folle e di successo che abbiamo mai organizzato»7-6, dice la Heiss. Migliaia di persone s'incamminarono verso Long Island City il giorno dopo il San Valentino del 1981. C'erano file e file di gente per entrare nell'edificio vittoriano a quattro piani. S'era sparsa voce: eccolo lì, il nuovo movimento artistico, la cosa che avrebbe rimpiazzato quel Minimalismo che, come un'invasione di disseppellitori di corpi,»aveva tormentato SoHo negli ultimi anni riempiendo le gallerie di giochi concettuali in pillole: scatole in serie, tele vuote, forme senza contenuto ma piene di concetto. Le folle fluttuavano nei vari piani del tortuoso palazzo come fosse la Mecca del New Wave. Più che l'inaugurazione di una mostra d'arte sembrava un party in un edificio dell'East Village.
Kay Larson non ne rimase molto colpita. «Nessuno sembra avere molto chiaro cosa sia la Punk Art», scrisse sulla rivista «New York». «È veramente uno stile, o è solo un simil prodotto di un manipolo di giovani amanti della musica con spilloni da balia infilati nei lobi delle orecchie […]. Questa febbricitante esposizione sembra più la pubblicità di un party Club Med-Mudd Club che una spiegazione»7-7. John Perreault, del «SoHo News», con una certa preveggenza, scrisse: «Da un certo punto di vista la mostra è una celebrazione della celebrità, negli atteggiamenti e nel modo di vestire […], l'immagine che dà è quella di una presa in giro della celebrità, di una parodia? Probabilmente è un po' entrambe le cose: fama istantanea e sua critica»7-8.
Cortez ha conservato del materiale preso da quel bordello che era lo scenario di Downtown, un campionario kitsch da circo di 1.600 opere di 119 artisti. «Volevo documentare il periodo in cui l'arte si stava incrociando con la musica». Trovò un'unica parola per riassumerne l'estetica: «Neo-Pop». «Credo che la gente si aspettasse un'introduzione al Neoespressionismo, ma la mostra era tutt'altra cosa», disse in seguito Cortez, il cui nome svettava nel manifesto della mostra. Una cosa era chiara: questo era per l'arte quello che il Punk era per la musica. Consapevole e svergognata voglia di godersela, anarchia senza ideali, lavoro senza fatica.
Vennero esposte foto fatte al CBGB'S, al Mudd Club e al Club 57. Erano di alcuni dei più famosi musicisti: Chris Stein, Alan Vega e David Byrne, che contribuì con alcune foto di grandi dimensioni. A galvanizzare l'attenzione di tutti furono però i giganteschi murales di una dozzina di graffitisti: Lee Quinones, Fab 5 Freddy, Daze, Rammelzee, Futura 2000. Cortez aveva appeso delle lastre di metallo smaltate nella palestra per farci lavorare sopra i graffitisti, che fecero i loro tag e collaborarono a un ritratto collettivo di Debbie Harry. Basquiat era stato separato dagli altri. «Jean era arrivato prima degli altri e sembrava essere letteralmente esploso su un pezzo di metallo, e poi aveva fatto un cartello della mostra New York/New Wave. I lavori erano un incrocio tra la sua roba SAMO e delle foto che sembravano imbrattate, e tutto era così violento e frenetico», dice il pittore Brett De Palma, che prese parte anche lui alla mostra. «E poi Diego decise di dargli una stanza tutta per sé»7-9.
Il lavoro di Basquiat fu la cosa che fece più scalpore in tutta la mostra. Aveva dipinto su quindici pezzi di tela, cianfrusaglie trovate e gommapiuma, in modo grezzo e infantile, macchine, personaggi dei cartoni animati e parole senza senso curiosamente erudite.
Un quadro rappresentava una mezza dozzine di teste che sembravano maschere. Un disegno beige con una grande testa, alcune macchine e il nome Aaron7-10 ripetuto mostrava la definitiva influenza di Twombly. C'era un paesaggio verticale e stratificato. Un dipinto in bianco e nero di una macchina accompagnata dall'ammonizione: «Plush Safe. He Think»7-11, frase che Basquiat aveva formalmente scritto sui muri. «Pensai fosse l'unico talmente straordinario da dover dipingere sulle tele»7-12, disse Cortez.
«Mi avvicinai per cercare di parlare con Jean», dice Quinones, che stava lavorando con lui e gli altri graffitisti. «Ma era così impegnato con il suo lavoro, ed era lì che ci camminava di sopra. L'unica collaborazione che chiese agli altri artisti fu di camminare anche loro sopra il suo lavoro»7-13. Basquiat aveva un suo metodo di collaborazione. Quando tutti quanti se ne andavano, gironzolava per lo spazio a etichettare il lavoro di ogni artista con un suo inconfondibile scarabocchio, come ad appropriarsi dell'intero movimento. «Mi colpì veramente», dice Nick Taylor. «Tutti videro quella mostra e il lavoro di Jean, e dopo quella notte non fu più lo stesso»7-14.
Per completare il ritratto di ambizioso giovane artista, Basquiat attaccò con fare altezzoso una sua foto vicino al suo lavoro. «Come a dire: "Questo è il mio lavoro e questo sono io"»7-15, dice Taylor. Racconta ancora la Heiss:
Mi ricordo che me ne stavo in piedi davanti al lavoro di Jean-Michel con accanto il direttore della Philip Morris. Eravamo impietriti. Era così evidente che il suo era un talento straordinario. Quando lo vidi capii cosa intendeva Leo [Castelli] quando mi aveva detto, a proposito di Jasper Johns, che il talento è una cosa che tutti riescono a vedere. Non bisogna essere un genio. Dovresti essere cieco per non accorgertene. Jean-Michel era la persona che sarebbe emersa da quella vasta moltitudine di artisti. Negli ultimi dieci anni non avevo mai visto niente del genere. E dal momento che stava esponendo in uno spazio dove aveva esposto Robert Ryman, per la prima volta veniva collocato in un contesto storico-artistico7-16.
Sandro Chia s'innamorò di uno dei pezzi esposti e fece un'offerta a Cortez di mille dollari. Ma venne battuto da Christophe de Menil, con un'offerta di 2.500. In ogni caso la mostra al P.S.1 non fruttò a Basquiat soltanto soldi, gli fruttò notorietà. Il giovane artista era stato scoperto.
Il critico del «Village Voice» Peter Schjeldahl chiese a Basquiat se avesse mai sentito parlare di Dubuffet. Jean-Michel rispose con un astuto «No», anche se è probabile che lo conoscesse. «Non avrei mai immaginato che l'alquanto maldestro scarabocchiare di SAMO nel mio quartiere si potesse rivelare talento grafico e pittorico», scrisse Schjeldahl, che definì Basquiat «l'artista più significativo della mostra dopo Mapplethorpe […]. Ha intuito, senso dell'umorismo e un'eleganza astratta quasi automatica. Resta da vedere che cosa ne farà. Mi rattristerebbe, ma non resterei sorpreso se smettesse di dipingere»7-17.
Henry Geldzahler, che non aveva più visto l'artista da quando vendeva cartoline su West Broadway, andò a vedere la mostra al P.S.1 e «semplicemente diedi di matto». Immediatamente dopo, Geldzahler si dimise da sovrintendente alla cultura e si poté dedicare a tempo pieno a seguire Clemente, Schnabel, Haring, Basquiat e le altre emergenti star dell'arte. «Pensa se con Ed Koch e il suo programma antigraffiti potevo andarmene a braccetto con Keith Haring e Jean-Michel»7-18, disse Geldzahler in merito alla sua ultima scoperta estetica.
Geldzahler chiese a Cortez di presentargli l'artista. Andò a guardare i lavori di Basquiat al 101 di Canal Street, uno dei posti in cui dormiva di tanto in tanto, e comprò un collage su uno sportello di frigo per duemila dollari:
Lo pagai deliberatamente a un prezzo maggiore del suo valore. Volevo che iniziasse ad avere un po' più di fiducia nel mondo. Quello stesso giorno in cui comprai il collage, lo portai in un negozio di forniture per artisti e gli comprai carta per un centinaio di dollari. A quell'epoca non sapeva nemmeno che cosa fosse la carta senza acido7-19.
Chia rimase talmente colpito dal lavoro di Basquiat che ne parlò con Annina Nosei7-20. Lei comprò immediatamente un quadro, e poco dopo iniziò a corteggiarlo. «Era senza titolo e la tela non era nemmeno stirata», dice Liz Gold, un'assistente della galleria della Nosei. «Ma disse che per lei Basquiat era un artista sicuramente stimolante»7-21. «Avevo già visto i suoi lavori, ma fu la mostra al P.S.1 a convincermi»7-22, disse la Nosei. Anche Emilio Mazzoli e il gallerista svizzero Bruno Bischofberger videro i suoi lavori. Mazzoli si disse interessato ad allestire una mostra di Basquiat nella sua galleria in Italia. Dice Bischofberger: «Dopo la mostra New York/New Wave, andai a casa di Diego e comprai circa trenta, trentacinque lavori»7-23.
Più o meno un anno dopo Bischofberger avrebbe allestito una mostra di Basquiat a Zurigo e sarebbe diventato il gallerista internazionale di Basquiat. «Dopo la mostra al P.S.1», dice Michael Holman, «i giochi erano fatti. Jean era sulla sua strada e noi eravamo come bagagli abbandonati. Fu una cosa che ci fece stare male perché i Gray non sarebbero stati gli stessi senza di lui»7-24. Ricorda Jennifer Stein, che non vedeva Basquiat dai giorni del Canal Zone: «Non riuscivo a capacitarmi di quanto fossero belli i suoi lavori lì alla mostra. E lui sembrava veramente eccitato, tipo l'uomo dal braccio d'oro»7-25.
Jean-Michel si crogiolava nel mare di attenzioni, alternando timidezza e algido desiderio di celebrità. «L'unica cosa che voleva sapere era se Warhol sarebbe venuto a vedere la mostra e a comprare qualcosa», dice De Palma. «Era sempre stato il suo sogno»7-26. Ma, a detta di Fab 5 Freddy, lui e Suzanne se ne stettero un sacco di tempo nascosti sotto un tavolo divertendosi a guardare i piedi della gente7-27. «A quel tempo Jean non aveva nemmeno i soldi per tenere i suoi lavori per sé. Dormiva qua e là a casa della gente, e lasciava i suoi disegni in cambio dell'ospitalità»7-28, dice De Palma. In effetti molti dei lavori di Basquiat erano depositati da Stanley Moss, un cliente fisso del Mudd Club che aveva prestato dei soldi a Jean-Michel per comprare i materiali e che aveva acquistato alcuni dei suoi primi disegni. Anche all'inizio Basquiat si scordava in fretta dei suoi benefattori. Più in là avrebbe chiamato Moss dicendogli che i lavori erano ancora di proprietà dell'artista7-29.
Ma Basquiat cercò di condividere un po' dei suoi incassi. Dopo che Geldzahler comprò lo sportello del frigo, Jean-Michel chiese a Kai Eric di organizzare una pranzo di festeggiamento con qualche amico. Racconta Eric:
Andammo al John's Restaurant sulla Dodicesima. E riservammo tutta la stanza sul retro con un lungo tavolo. C'erano Arto Lindsay, Glenn O'Brien, Steve Lack, Suzanne Mallouk e Tina Lhotsky. S'era portato un blocco di carta catramata e del gesso, e fece qualcosa come venticinque piccoli disegni per ognuno di noi, li staccò dal blocco e ce li passò. A me diede questa piccola ambulanza7-30.
Ricorda la Lhotsky:
Jean si sentiva veramente in colpa del successo ottenuto mentre tutti i suoi amici artisti erano poveri e faticavano ad affermarsi. Si sedette a capotavola con una ventina di persone e Diego iniziò a far girare il nuovo walkman di Jean. Dentro c'era una cassetta di Grace Jones, Pull Up To The Bumper, e Jean sembrava un po' a disagio per via di questo suo istantaneo successo. Ma passò poco e cominciò a disegnare corone nelle sue opere7-31.
Basquiat aveva appena cominciato a fare dell'arte convenzionale, ma era già stato individuato da un gruppo internazionale di galleristi. Al City-As-School gli adulti erano stati estremamente disponibili. Ma tra le trincee del mondo dell'arte di Downtown era tutta un'altra storia. Era chiaro che le nuove autorevoli figure della vita di Basquiat avessero i loro progetti. E fin dall'inizio Basquiat sembrò stabilire una prassi con i suoi galleristi. Prima stabiliva una relazione tipo padre-figlio, e poi la distruggeva.
Dice Geldzahler, che a un certo punto ricevette una lettera di Gerard Basquiat che lo ringraziava per l'interesse dimostrato nei confronti di Jean-Michel: «Tutto nella vita di Jean-Michel rispecchiava il rapporto che aveva con suo padre, un rapporto basato sul non sentirsi accettato. Il rapporto gallerista-artista è come quello che si crea tra genitori e figli, e non solo per gli artisti bambini, ma per tutti gli artisti»7-32.
Dall'istante in cui al Mudd Club aveva messo gli occhi sul giovane artista, Diego Cortez aveva individuato le potenzialità di Basquiat, sia artistiche sia commerciali. Da un certo punto di vista Cortez fu di fatto il suo primo gallerista. Sin dalla mostra New York/New Wave di febbraio Cortez aveva cominciato a portare collezionisti e critici nel loft che condivideva con Massimo Audiello sulla Trentaseiesima per far dare loro un'occhiata al suo crescente patrimonio di scarabocchi di Basquiat. Jeffrey Deitch e Henry Geldzahler avevano già comprato lavori da lui.
Adesso Emilio Mazzoli, un ricco italiano proprietario di una galleria, era andato a guardare le pile di disegni e tele che Jean-Michel aveva lasciato da Cortez. Mazzoli era rinomato in Europa per il suo stretto legame con il movimento artistico della Transavanguardia. Il termine, coniato da un suo amico, il critico Achille Bonito Oliva, era rappresentato dalle tre redditizie C: Francesco Clemente, Enzo Cucchi e Sandro Chia, ovvero i neoespressionisti europei. Fu Chia a indirizzare Mazzoli verso Basquiat.
A quell'epoca il lavoro di Basquiat era alquanto ridotto, e lui firmava ancora i suoi quadri con il tag SAMO. Mazzoli trovò questa sorta di graffitismo affascinante, e fortemente americano. Comprò sul posto lavori per diecimila dollari e si mise d'accordo con Cortez per allestire la prima personale dell'artista il maggio seguente a Modena.
Jean-Michel non era mai stato a Modena. Cortez lo accompagnò al Rockefeller Center per fargli avere un passaporto, il suo unico documento ufficiale7-33. A vent'anni Basquiat, l'eterno bambino, non aveva patente, né numero di sicurezza sociale, né carta di credito. Ma aveva già una sua indole, e il suo aspetto irriverente, così come il suo atteggiamento altrettanto irriverente, provocò un disastro internazionale.
Il viaggio a Modena fu per molti versi il prototipo dei futuri viaggi di Basquiat: comportò una grande quantità di contanti, altrettante droghe, esuberanti apparizioni nei ritrovi notturni del luogo, e una frenetica produzione artistica su commissione, sotto l'occhio attento di qualsivoglia gallerista avesse allestito la mostra.
Il primo viaggio iniziò in maniera infausta. Quando Cortez, Audiello e il loro giovane protetto atterrarono in Italia, Jean-Michel portava l'intera mostra sotto braccio. «C'erano questi carabinieri che ci guardavano in modo strano», dice Audiello. «Un ragazzo nero con un'acconciatura rasta che si portava dietro tutta quella roba»7-34. Ricorda Cortez:
Aveva dei tubi con i disegni e i dipinti arrotolati dentro, e la Polizia doganale non sapeva come comportarsi. Dovevano far entrare il materiale e basta? Tassarlo? Separarono Jean-Michel da noi. Probabilmente era stonato, ed era stanco, non dormiva da giorni. E i tizi della dogana gli fecero passare dei brutti momenti7-35.
Cortez, Audiello e Basquiat incontrarono Mazzoli a cena a Modena. Ma dopo quella prima notte dovettero assumersi la responsabilità di Jean-Michel. Dice Cortez:
Era sempre lì a cercare erba. Voleva sempre rincoglionirsi, e stare in giro fino a tardi, e cercare club e roba, e Modena è la città del nulla. Jean-Michel stava tutto il tempo a disegnare, mentre Mazzoli gli comprava tutta la carta e le tele che poteva per farlo lavorare il più possibile. E poi comprò tutti i disegni. Non erano tutti buoni. Per cui dissi a Jean-Michel di lavorarci ancora e lui iniziò a ritagliarli e a fare dei collage7-36.
«Tutta la faccenda fu uno shock culturale per Jean-Michel», dice Audiello. «Si difendeva rifugiandosi nella tecnologia e nelle droghe. Se ne stava tutto il tempo ad ascoltare musica americana al walkman, e se ne andava in giro a fare delle buffe Polaroid»7-37.
A un certo punto Audiello si ritrovò rintanato in albergo con Basquiat. L'artista era in trip di acido:
L'Lsd lo rendeva molto affascinante e dolce. Comprava tutte le porcate che riusciva a ingollare, chewing gum, barrette di cioccolata. E teneva sempre la Tv accesa, logicamente senza seguire una parola di quello che diceva. Aveva carta e matite e carboncini e inchiostro. Io me ne rimasi lì a guardare fuori da questa grande finestra che dava sull'autostrada, con le macchine che rombavano sopra. Tutto era sfocato in questa nebbia gialla. Era il celebre paesaggio del film 1900 di Bertolucci. Mi faceva stare male. Era un posto storico, era il glorioso passato rivoluzionario. E non ce n'era traccia da nessuna parte. Ero atterrito da tutto quel vuoto. Poi guardai cosa stava disegnando Jean-Michel. Stava facendo filo spinato, e cannoni, e aratri, che i contadini di quell'epoca usavano come armi perché non avevano pistole7-38.
Basquiat voleva soddisfare immediatamente ogni suo desiderio, e ci mise poco a fissarsi con una puttana bionda e sciatta. Racconta Massimo:
Voleva veramente una prostituta. E decise che doveva essere questa donna. Non era nemmeno graziosa. Era vecchia, una madre di famiglia, niente a che vedere con le tipe alla moda con cui usciva a New York. Ma lui continuava a dire: «La puttana! La puttana!». La voleva a tutti i costi. Cinque minuti dopo essere arrivato a Modena Jean-Michel sapeva dove trovare quello che voleva7-39.
Basquiat passava il tempo in galleria, a dipingere altri quadri. Il suo amico era un bambinetto che stava per perdere completamente la vista. «Erano adorabili insieme», dice Audiello. «Continuo a pensare che quelle siano state le ultime immagini che il bambino, che potrà avere avuto nove o dieci anni, abbia visto. Passò tutto il tempo accanto a Jean-Michel»7-40.
Basquiat fece tutti quanti i quadri su delle tele molto grandi, circa 203x208cm. Forse Mazzoli li voleva così grandi per farci più soldi. In uno7-41 c'è un un uomo rosso, con un braccio alzato per minaccia o per difesa, su uno sfondo beige sul quale sono disegnati un aeroplano, un'ambulanza e delle automobili. È firmato «SAMO, 81». In un altro, un quadro più astratto, c'è una corte di scheletri, immagine ricorrente di quel tempo, che galleggia in un fondo verde pallido. Questa volta l'incidente automobilistico è quasi del tutto nascosto da uno scarabocchio arancione. In un quadro ancora più grande, circa 200x281cm, la corona, un aeroplano e una casa con una S sopra, un'altra delle sue immagini preferite, dominano un lato della tela, mentre una corte di scheletri in bianco e nero occupa l'altro.
«Jean-Michel non vedeva l'ora di andarsene da Modena. Voleva solo i soldi. Soldi tutto il giorno, e ancora soldi»7-42, dice Audiello. Tornato a New York, Basquiat fece al suo amico Brett De Palma una descrizione dei luoghi caldi della vita culturale di Modena. «Il club più frequentato si chiama Snoopy, amico, e questa è la loro idea di posto alla moda, non so se mi spiego». Racconta De Palma:
Usava l'essere alla moda come parametro universale, perché lui era così naturalmente alla moda. E così se n'era andato in giro, aveva giocato con i videogiochi, aveva preso droghe e aveva bombardato la città con i suoi tag, disegnando tutte queste automobiline. Quando sono andato a Modena le ho viste. Mi disse che era stato tutto il tempo a calarsi acidi nella sua stanza d'albergo e a disegnare davanti alla Tv. L'unico suo meccanismo di difesa era lo starsene appartato. Per scomparire del tutto nel suo mondo, per proteggersi7-43.
De Palma, che espose a Modena una settimana o due dopo Basquiat, capì la frustrazione del giovane artista:
Ti ritrovi immediatamente in questo studio e iniziano a darti i materiali. E se non lavori sei fuori, non verrai più invitato, e ci sono migliaia di persone in coda che aspettano solo di prendere il tuo posto. Credo di avere guadagnato ottomila dollari per i quadri che avevo fatto lì, e a lui invece, che era molto più conosciuto di me, ne diedero solo quattromila. Questo è razzismo7-44.
Eppure Basquiat festeggiò la ricchezza da poco scoperta con stile. «Tu non ci crederai», si vantò con Patti Astor tornato a New York, «ho appena guadagnato trentamila dollari!». Ricorda la Astor: «Ce ne stavamo seduti tra i cespugli fuori dal Club 57. Era la notte dello spettacolo a luci bianche, una di quelle cose da psicopatici. Facevamo finta che lui era il Re d'Egitto, cosa poi non così strana dal momento che eravamo entrambi sotto effetto di lunghetti»7-45.
Dopo la personale di Modena, Suzanne Mallouk uscì di nuovo fuori dal quadro. Ma Basquiat non mancava di compagnie femminili, e la sua successiva conquista fu Tina Lhotsky, che si autodefiniva la Regina del Mudd Club. Lui la chiamava «Big Pink», un soprannome che le avevano dato due neri che l'avevano vista gironzolare per strada con un vestito anni Sessanta rosa a pois. La loro relazione iniziò alla fine dell'estate del 1981.
La Lhotsky, una ragazza alta e dai vaporosi capelli biondi che sembrava la versione East Village di Jessica Rabbit, era regista e attrice underground. Era arrivata a New York da Cleveland nel 1974, con l'idea di andare alla Scuola d'Arte di Nova Scotia. Come molti suoi coetanei, sognava di diventare un'artista – di qualunque tipo – a New York.
«Confesso che volevo diventare una pittrice, ma poi cambiai idea e decisi di dipingere tessuti. E poi decisi di darmi al cinema e ai video. Girai qualcosa, e poi diventai un personaggio multimediale»7-46. La Lhotsky faceva parte di una prima ondata di artisti che, negli anni Settanta, andò a vivere nell'East Village, e sin dall'inizio entrò nel giro del Mudd Club. Come molta gente di Downtown, si reinventò diventando un personaggio al di fuori del normale, una sorta di archetipo di bomba del sesso da B-movie o di Lolita cresciuta troppo in fretta.
Era anche la madrina ufficiosa del Mudd Club e dava il suo stampo all'ambiente organizzando serate a tema: dalla Festa della Mamma dedicata a Joan Crawford ai morbosamente ironici addii alle rockstar morte, completi di diecimila dollari di arredi di scena, inclusi un organo e delle bare vere. Si era anche autoincoronata «Regina» con tanto di cerimonia alla Saint John's Cathedral. «L'ambiente di Downtown era una fuga immaginaria per ragazzetti neofiti», dice. «La città era sporca e disgustosa, e così ci mettevamo i nostri costumi di scena. In quei giorni lì io ero una sorta di Regina della Scena. Era il mio lavoro a tempo pieno»7-47.
Come in molte delle relazioni che nascevano nell'East Village, la prima volta che la Lhotsky incontrò Basquiat fu per strada:
Camminavo giù per Bowety tutta vestita a festa, truccata da cantante lirica con la mia coda di cavallo bionda in dynel attaccata ai capelli tirati all'indietro e bombati. Jean-Michel era lì che trasportava una grossa busta piena di hamburger di McDonald's. Mi vide, incrociammo gli sguardi e mi disse: «Ne vuoi?». Era il suo modo di flirtare. Questo prima che diventasse famoso e iniziasse a indossare la sua sfrontata maschera da duro7-48.
Ma aveva l'aria troppo giovane e innocente, e Big Pink respinse le sue avance.
Una notte, dopo l'inaugurazione di una mostra che, come sempre, s'era trasformata in un party no stop, tutta una banda di habitué di Downtown gironzolò nella cucina dell'amica di Basquiat, Mary-Ann Monforton, prendendo in giro spietatamente un giornalista dell'«East Village Eye», il giornale che faceva la cronaca del loro ambiente. Alla fine tutti quanti, tranne Basquiat, la Lhotsky e Patti Astor (una bomba del sesso ancora più appariscente di Tina), se ne andarono. Basquiat e la Monforton erano stati di tanto in tanto amanti (in effetti lui le aveva passato, come a molte altre, la gonorrea). Nessuno poteva essere certo di dove avesse intenzione di dormire quella notte.
«Patti aspettava Jean-Michel per andarsene», dice la Lhotsky. «Credo che per un po' fossero andati a letto insieme. Jean-Michel doveva decidere con quale delle due belle andar via. Disse che mi avrebbe accompagnato a casa, e Patti andò via»7-49.
La Lhotsky, che si vestiva sempre come se dovesse andare a un ballo in maschera, s'era messa un «vestito vecchio e largo stile Guerra Civile». Lei e Basquiat decisero di fare una passeggiata passando per un giardino dell'East Village, un luogo recintato che faceva parte del Men's Shelter7-50. Non si sa come, ma i due finirono per rimanere chiusi dentro. «Jean-Michel era terrorizzato», ricorda la Lhotsky. «La recinzione era alta tipo quindici metri». Cercarono di scavalcare, ma vennero interrotti dalla Polizia, che puntò le torce contro un ragazzo nero con i dreadlocks e una bionda maggiorata con un abito vintage. «La sta infastidendo?», chiesero gli sbirri. «È il mio ragazzo», rispose la Lhotsky. «Poi li supplicai con la vocina piagnucolosa. Ma fecero passare a Jean-Michel dei brutti momenti. Era seccato perché avevo detto che ero con lui. Disse che era una cosa assurda da dire visto che erano razzisti»7-51.
Sani e salvi, a casa della Lhotsky si fecero dei panini al formaggio grigliati e si arrampicarono sul suo minuscolo letto di ghisa da ospedale ricoperto di lenzuola leopardate. «Era tenebroso, dolce e passionale. Sapeva fare l'amore. Era difficile non invaghirsene»7-52.
Basquiat aveva diverse cicatrici piuttosto evidenti: una che andava dal petto all'inguine, ed era quella dell'operazione con cui da bambino gli avevano asportato la milza dopo l'incidente d'auto, e una più piccola, sul sedere. «Mi fece vedere la cicatrice e mi disse che suo padre l'aveva accoltellato in quel punto», dice la Lhotsky. «Mi disse che aveva cercato di ucciderlo»7-53.
Ma Basquiat cambiò rapidamente argomento. Un po' più tardi, sparì. Quando tornò iniziò a disegnare sul pavimento, che era tutto argentato. «Jean-Michel usava tutti i suoi pastelli, le matite e i colori a casa mia», ricorda la Lhotsky. «Poco prima di andar via scarabocchiò un piccolo pene dentro la mia bambola a forma di Mammy copri-tostapane»7-54.
La relazione con la Lhotsky continuò per alcuni anni. Non molto tempo dopo che era iniziata, la Mallouk e la Lhotsky si incontrarono all'edicola Gem Spa di Astor Place. «Portava una bella sciarpa blu che avevo comprato a Parigi. Erano settimane che non riuscivo a trovarla, e mi dispiaceva», dice la Lhotsky, «e così me ne uscii con un: "Quella è la mia sciarpa!". "Oh, l'ho trovata da qualche parte a casa di Jean-Michel", disse lei. Poi strizzò l'occhio e disse: "Adesso è mia. Queste sono le regole", e se ne andò»7-55.
A detta della Lhotsky, l'instabilità di Jean-Michel non intaccò veramente il profondo sentimento che aveva per Suzanne. «Jean-Michel amava Suzanne e mi parlava di lei, mi chiedeva anche consigli su come comportarsi con lei, ma la tradiva tutti i giorni», dice la Lhotsky. «Di tanto in tanto Suzanne rompeva con lui, e Jean-Michel si stringeva le mani al cuore e diceva: "Oh, ho un attacco d'amore per Suzanne, e mi fa male"»7-56.
Nell'estate del 1982 la Lhotsky tornò da un viaggio a New Orleans e andò a trovare Basquiat nel suo loft di Crosby Street. «Qualcuno gli aveva dato un amuleto voodoo, e quando lo vidi mi misi a ridere perché gli avevo portato in regalo un pezzo di gesso preso dalla tomba di Marie Lavau, che era la Regina del Voodoo. Sentivo che aveva bisogno di protezione»7-57.
Quello stesso giorno la Lhotsky gli fece le carte. «Gli dissi: "Jean-Michel, se non cambi quando avrai ventisei o ventisette anni ti capiterà una cosa grave". Fui precisa, ma non credo mi stesse ascoltando»7-58.
Contemporaneamente era in atto un altro corteggiamento: Annina Nosei aveva utilizzato l'estate per suggellare il suo rapporto con Basquiat. Cortez incontrò la gallerista a Berlino, e lei gli chiese informazioni sull'artista. Ma a settembre, quando Cortez tornò a New York dall'Europa, Annina aveva già dato a Jean-Michel dei soldi per i materiali, gli aveva promesso una mostra e gli aveva proposto di usare lo scantinato della sua galleria come studio. Disse all'artista che gli avrebbe trovato un posto dove vivere e gli avrebbe pagato l'affitto in cambio della vendita dei suoi quadri, il primo degli accordi alquanto poco ortodossi della breve carriera di Basquiat7-59.
La nuova gallerista di Basquiat era imbevuta di Storia dell'Arte Europea. Figlia di un professore di Latino e Greco, la Nosei era nata a Roma. Aveva studiato all'Università di Roma, dove si era laureata in Lettere e Filosofia con una tesi su Marcel Duchamp. Subito dopo la laurea, nei primi anni Sessanta, aveva iniziato a lavorare per Ileana Sonnabend, a quel tempo la più importante gallerista a rappresentare la Pop Art in Europa. «Per chiunque volesse vedere le novità americane degli anni Sessanta non c'era posto in Europa che fosse come la galleria di Ileana Sonnabend»7-60, raccontò la Nosei. Nel 1964 ottenne una borsa di studio Fullbright e si trasferì in America, dove andò a insegnare alla University of Michigan di Ann Arbor.
L'interesse della Nosei gravitava intorno alle avanguardie e iniziò a seguire John Cage e il suo gruppo di performer «partecipando agli happening»7-61. Le offrirono un lavoro alla UCLA. Tramite Robert Rauschenberg conobbe il gallerista John Weber e nel 1967 si sposarono. A Los Angeles la Nosei entrò in contatto con i più affermati artisti minimalisti, da Dan Flavin a Carl Andre. Fu la prima gallerista a esporre in America Mimmo Paladino, Sandro Chia e Francesco Clemente. Nell'ottobre del 1979 aprì una galleria a SoHo e iniziò a esporre i lavori di David Salle, Donald Newman e Richard Prince. «Avevo dei gusti difficili ed estremi. Le opere che consigliavo di comprare ai collezionisti erano sempre opere di grande fantasia e grande sensibilità»7-62, dichiarò la Nosei in un'intervista rilasciata ad Alan Jones e Laura de Coppet nel libro The Art Dealers.
La Nosei individuò presto nei suoi «collezionisti intellettuali» un possibile pubblico per le opere di Jean-Michel Basquiat:
A quel tempo stavo contrattando grosse vendite con importanti collezionisti che compravano, ad esempio, opere di artisti tedeschi. Dissi loro che potevano avere anche un'opera di Jean-Michel per mille o duemila dollari in più su un totale di 25mila dollari che avevano già raggiunto. La cosa funzionò benissimo: i collezionisti investirono i loro soldi in una novità, lo dissero ai loro amici, e di colpo i quadri di Basquiat finirono nelle collezioni a fianco dei più rinomati artisti, di cui diventò il più giovane7-63.
In qualche modo Basquiat fu una star dell'arte «confezionata» dalla Nosei, un'interessante combinazione di eleganza e parsimonia, di erudizione accademica e aggressiva vendita d'arte. Volubile come molti dei suoi artisti, fu una delle prime galleriste a riconoscere il nuovo movimento artistico e, nel lungo periodo, fu una delle più abili nell'approfittarne. Il suo sodalizio con Basquiat si rivelò un momento decisivo per entrambi.
Una volta stabilito il suo accordo con Basquiat, la Nosei mantenne la parola. Una delle prime cose che fece fu lasciare una caparra per una stanza al Martha Washington Hotel sulla Ventitreesima Strada Est, dove Basquiat passò pochi mesi con Suzanne. Poco dopo, nel settembre del 1981, i due si trasferirono a casa di Nick Taylor, al 39 della Prima Strada Est, proprio di fronte all'appartamento al 68 che un tempo avevano condiviso. Suzanne, come sempre, cercò di stabilire una sorta di equilibrio domestico. Ma Basquiat diede prova della sua natura da vero macho. «Diceva: "Vai nella tua stanza, Suzanne"», racconta Taylor, «Nick e io andiamo a bere una cosa»7-64. E continuava a frequentare molte altre donne.
Basquiat aveva ripreso la sua relazione con Patti Anne Blau, corteggiandola con un pollo fritto un giorno che lei era andata a trovare Edit DeAk, critico e curatore di Downtown che aveva scoperto parecchi giovani artisti. A Basquiat piaceva ostentare il suo amore per il cibo soul prendendosi in giro da solo. Un «Out for Ribs»7-65 sulla sua porta sarebbe diventato in seguito un suo segno distintivo. Ricorda la Blau:
Ci provò con me nel retro del suo loft. Mi disse che gli mancavo veramente, e che voleva avere una storia con me. Gli dissi che la sua ragazza, Suzanne, sarebbe rientrata, e che viveva con lei, ma lei era solo la sua balia. Gli dissi: «Che ci guadagno io?». E lui rispose: «Godimento»7-66.
Il loft della Blau sull'Undicesima Strada si trasformò presto in un rifugio per il fine settimana:
Veniva il venerdì notte e si portava dietro una tonnellata di droghe, un sacco di marijuana, cocaina, un sacco di soldi, pizza, vino, buste della spesa. Cinque minuti e casa mia diventava un bordello. Tutto sul pavimento. E lui s'infilava direttamente a letto. Io avevo un sacco di spazio, la carta e i pastelli, e lui non faceva altro che gironzolare e disegnare. Andavamo al cinema, oppure lui mi dava cento dollari e mi diceva: «Vai da Balducci's, comprami delle olive e tieni il resto». Tutto quello che toccava era in qualche modo arte. Scriveva il mio numero di telefono con pastelli di colori diversi. Ebbe una grande influenza sulla mia vita. Se sei un'artista, sei un contenitore di intensità e vivi fintanto che bruci. Lui era una sorta di demone7-67.
Nessuno sapeva della loro relazione, e così essa diventò un ottimo rifugio per Basquiat. Per due giorni interi nessuno poteva trovarlo per chiedergli soldi, droghe o disegni. «Di solito stava solo con una maglia arancione di Batman, con il suo cazzo gigante lì a penzolare, e dipingeva», dice la Blau. Un giorno la Nosei riuscì a rimediare il numero di telefono del loft della Blau. «Ti ho detto di non chiamarmi mai qui», le urlò Basquiat al telefono7-68:
Insieme facevamo un sacco di cose divertenti. Andavamo sempre a ballare al Reggae Lounge. Un giorno andammo in limousine con uno spacciatore di coca che andava a fare consegne. Mi ricordo che attraversammo il Ponte di Brooklyn, e me ne innamorai. Così chiesi a Jean di riportarmici7-69.
Basquiat però diventava sempre più irascibile. Una volta che erano diretti a Chinatown per rimediare dell'erba, ebbero problemi a trovare un taxi, e lui cominciò a urlare. «Non era più divertente stare con lui»7-70, dice la Blau.
Da troppo tempo sofferente, anche Suzanne ne ebbe abbastanza. «Ero ossessionata da lui, e lui era ossessionato da me. Era una cosa talmente malata»7-71. Scappò a Parigi, dove andò ad abitare con la sorella per diversi mesi.
Nel settembre del 1981 Basquiat aveva già intrapreso la sua ambiziosa carriera: aveva trovato una sua collocazione ufficiale in una galleria di SoHo. Il suo celebre soggiorno nello scantinato di Annina Nosei era appena cominciato. Stava per iniziare la sua partenza accelerata. Basquiat aveva sempre desiderato la fama, ma la velocità della sua ascesa dipese più dagli eccessi di quell'era che dalla sua ossessione. Era una decade in cui la trafila dalle stalle alle stelle – a Wall Street come a SoHo – potenzialmente poteva compiersi in un nanosecondo, un periodo saturo di storie di successo, da Ivan Boesky a Michael Milken a Julian Schnabel e David Salle. Basquiat era il figlio perfetto dello Zeitgeist. Il suo atteggiamento appariscente – dal dipingere in abiti griffati al viaggiare qua e là in limousine – ne fece presto l'archetipo della star dell'arte degli anni Ottanta.
Gli anni 1981-82 si rivelarono importantissimi per l'artista. Nel giro di una notte l'anonimo SAMO ebbe un'identità: l'esotico pittore Jean-Michel Basquiat. Per la fine del 1982 l'artista di strada e vagabondo era già sulla buona strada per diventare una star dell'arte internazionale. Il boom dell'arte aveva preso velocità, dalle funky gallerie-vetrina dell'East Village ai vistosi spazi di SoHo. Tutti volevano approfittare del prolifico e selvaggio talento del giovane pittore.
Basquiat era male equipaggiato per affrontare i rapidi cambiamenti che subì la sua vita e l'alquanto grottesco lancio pubblicitario a cui fu destinato sin dall'inizio. Suo padre lo aveva punito perché si comportava male, e il mondo dell'arte lo premiava mettendolo nelle condizioni di autodistruggersi. Come qualunque altra cosa riguardò Basquiat, fu un'esecuzione fatta con stile. Che si trattasse di donne, droghe, abbigliamento, cibo o limousine, Basquiat non aveva idea di cosa fosse la moderazione. Viveva come dipingeva. Chiunque lo spingesse nel vortice iniziava presto a capire perché le immagini che dipingeva sulle tele galleggiassero come relitti e roba gettata fuori bordo su un mare agitato di ostilità, paranoia e ironia. Piene di citazioni in pezzi, le sue tele riflettevano il suo umore (nero), l'insaziabile curiosità e una forma mentis letteralmente enciclopedica. Quando lavorava Basquiat si circondava di materiali di riferimento, facendo suoi testi e icone proprio come i jazzisti citano le melodie.
Basquiat rifiutò consapevolmente di imporre un ordine scontatamente formale a quella che era la sua anarchia visiva. «Non so come descrivere il mio lavoro perché non è mai la stessa cosa. È come chiedere a Miles Davis, be', com'è il suono della tua tromba?»7-72, disse alla Davis e alla Johnston nella loro videointervista.
Il musicista del suono disordinato, il poeta del linguaggio decomposto, il pittore della visione frammentata e del mondo tattile. Ritrassero tutti la rottura del Sé, e riassemblando e riarrangiando i pezzi cercarono di creare nuove strutture che avessero integrità, perfezione e un nuovo senso7-73.
L'osservazione fatta da Heinz Kohut nel suo libro The Restoration of the Self potrebbe averla tranquillamente scritta un critico d'arte parlando di una delle tele di Basquiat.
Dice Robert Farris Thompson, docente a Yale ed esperto di arte africana, che passò del tempo a guardare l'artista mentre lavorava e a fargli delle domande sul processo creativo: «Credo che il lavoro di Basquiat sia una autobiografica ricerca dell'integrità»7-74. Non riuscì a trovarla da nessuna parte. Non dentro di sé. E nemmeno fuori. Né nelle droghe né nella musica. E di certo non nella stupefacente lista di donne per cui passò. Quella con Suzanne Mallouk, la fidanzata che una notte andò a letto con un teppistello di strada per svegliarsi il giorno dopo con una star, fu la relazione di quel periodo che rimase in piedi più a lungo. Sempre a quel tempo ebbe anche una romantica storia con un uomo, il pittore David Bowes. Pochissimi dei suoi oggetti del desiderio lo rifiutarono. Ma nessuno di loro riuscì a riempire il suo vuoto interiore.