Per l'estate del 1982 il rapporto di Basquiat con la Nosei era visibilmente peggiorato. Da mesi lui vendeva i suoi quadri di nascosto a diversi galleristi. Racconta Lawrence Luhring, ex-direttore della Nosei Gallery:
Erano vendite pagate in contanti. Andai da lui a Crosby Street e gli diedi seimila dollari per un quadro. C'erano un sacco di biglietti da cento dollari sparsi in giro, un mucchietto di cocaina su uno specchio e un sacco di gente che andava e veniva. Non riuscivi mai a capire se voleva che stessi lì, o se ti avrebbe detto di sparire. Stavo cercando di convincere Jean-Michel a fare un accordo con la Bon-Low Gallery, dove lavoravo. Poi andai a lavorare per Annina. E lui si arrabbiò con me. Annina aveva i suoi bei problemi, ma sono convinto che rispettasse Jean-Michel12-1.
Ma Basquiat non ne poteva più della Nosei, e quando in agosto tornò a New York ruppe con lei in una maniera assolutamente drammatica. Mentre la Nosei era in Europa, lui e Torton andarono in galleria armati di coltellini. «Eravamo completamente fatti»12-2, dice Torton.
Scesero nello scantinato, e lì Basquiat iniziò a dividere i quadri che secondo lui erano suoi da quelli che erano della Nosei. Poi iniziò a tagliare brutalmente le sue tele mentre Torton le toglieva dai telai. «Facemmo una grande pila con tutti i quadri tagliati. Distrusse quelli che non avrebbe voluto fossero venduti. Fu come in un film western»12-3, dice Torton.
Torton nascose un piccolo quadro con delle automobili dentro la manica del cappotto per stupire più tardi Basquiat. Come ciliegina sulla torta, l'artista e il suo complice versarono un secchio di vernice bianca sulla pila dei quadri fatti a pezzi. Cancellando l'opera. Immortalando il momento. «Fu un'azione di controllo»12-4, dice Fab 5 Freddy, che quella notte corse da Basquiat nell'East Village. Festeggiarono la liberazione con un cognac al Red Bar:
Fu una cosa divertente, un bello scherzo. Jean aveva un gran senso dell'umorismo, e andò più o meno così: «Sì, amico, le ho dato una lezione. Sono andato lì e ho tagliato tutti quei quadri. Sono fuori, amico». Sapeva vendicarsi. Sapeva usare il potere che aveva. Aveva capito perfettamente il potere del suo lavoro, e ne aveva anche capito la mercificazione. In fondo fu un modo simbolico per tagliare ogni legame. E così brindammo a tutta quella merda. Jean-Michel aveva capito perfettamente cos'era la Storia, e sapeva che un gesto del genere lo sarebbe diventato, così come sapeva che le voci sarebbero circolate. E poi parte del simbolismo stava nel fatto che questa gente qui pensava che tenere questo nero selvaggio nello scantinato non era una cosa controllabile. Un sacco delle voci che giravano erano mosse dal razzismo. Ma era come se adesso avesse dimostrato che aveva il pieno controllo di sé. Sapeva che con un gesto del genere avrebbe allarmato tutti quanti, perché in quel momento preciso i quadri erano la cosa che valeva più sul mercato. Valevano come titoli ad alto rischio12-5.
La Nosei sostiene che Basquiat le disse di avere tagliato le sue opere così da non potere riutilizzare le tele, perché i «fantasmi» dei precedenti quadri gli si erano manifestati:
E così le distrusse tutte, le tagliò e i tagli delle tele si trasformarono in una cosa meravigliosa, straordinaria. Sapeva dentro di sé quali accordi il suo genio era in grado di suonare. Conosceva i silenzi, e la sua abilità era incredibile. Ma ogni tanto la perdeva di vista e sapeva quando andava censurata. Avida come sono, avrei voluto tenere almeno parte di quei quadri in un posto più sicuro. Il problema erano le dimensioni. Non fece mai più niente del genere12-6.
La Nosei ricoprì con una grossa tela catramata i dieci lavori intatti rimasti in galleria. «Non mi parlare più di questi»12-7, disse a Liz Gold. Aveva la sensazione che qualche giorno sarebbe potuto accadere di peggio. E aveva ragione. Basquiat aveva distrutto i quadri. Ma i fantasmi non erano affatto spariti.
Oggi non c'è nessun artista che lavora nello scantinato della galleria. Anche perché la Nosei, come molti altri galleristi di SoHo, si è trasferita a Chelsea. Ma Basquiat ha lasciato il segno. Per tutti i primi anni Novanta, una tavola verticale fatta di assi di legno con dipinta sopra l'immagine inquietante di un nero che impugna un bastone rimase a guardia della porta del loculo dove lavorava. Su pezzi della carta che lo ricopriva c'erano alcuni dei tipici e suggestivi giochi di parole di Basquiat: «32. The disposal of a bonanza. 33. Refreshments and ethics. 34. Tough yarns»12-8. Poi una triste litania scarabocchiata sugli artisti neri morti: «Young Billie, Young Lester, Young James […]». Basquiat non faceva altro che scrivere il proprio epitaffio. L'opera si chiamava To Repeal Ghosts12-9, 'Scacciare i fantasmi'. Non ci riuscì.
Nella stanza sottoterra in cui Jean-Michel Basquiat conquistava il successo internazionale mentre se ne stava a dipingere in un angolo strafatto di cocaina, è rimasto un casellario con scarabocchiato sopra a Magic Marker un teschio che sembra appena disegnato. Parte dei graffiti di Basquiat venne rispettosamente conservata dietro una gigantesca tela messa contro una parete. Una piccola schiera di «bambini radianti» di Keith Haring si arrampica in fondo allo spazio. Ricordi di celebri ragazzi morti. Bambini radianti che lasciano un che di incompiuto sul muro12-10.
La violenta separazione di Basquiat dalla Nosei Gallery diede a Bruno Bischofberger quell'occasione che aspettava dal febbraio del 1981, quando per la prima volta aveva visto i lavori dell'artista alla mostra New York/New Wave. «Pensavo fossero i lavori più interessanti della mostra»12-11, dice. Poco dopo comprò alcuni Basquiat da Diego Cortez. Fino a quel momento Basquiat aveva rifiutato categoricamente le proposte di Bischofberger. Il gallerista lo aveva avvicinato durante la sua personale alla Nosei Gallery, ma Basquiat, arrabbiato perché sapeva che Bischofberger aveva approfittato della sua lite con Cortez, lo mandò via. «Venne alla galleria di Annina e disse che voleva fare una mostra. Io la presi con calma e gli risposi che non volevo»12-12, disse Basquiat a Tamra Davis. Adesso che aveva lasciato la Nosei, si convinse finalmente a fare di Bischofberger il suo gallerista internazionale. (Anche se Bischofberger dichiara che la sua «esclusiva» risale alla primavera del 1982). Ma Basquiat ovviamente dava alla parola esclusiva un senso tutto suo. Racconta il gallerista Jan Eric von Löwenadler, che gestiva la Bon-Low Gallery:
Dopo Annina, cominciò ad essere veramente infelice. Andai a trovarlo nel suo studio e comprai qualche quadro, e poi gli diedi un bel po' di lavoro su commissione. Poi, dopo più o meno due settimane, si presentò all'improvviso con Larry Gagosian e si riprese tutto. Nessuno dei miei assistenti lo fermò. Dissero che era strafatto. Forse qualcuno gli aveva offerto un pagamento in contanti o chissà. A quel tempo le commissioni non valevano niente12-13.
Intanto, nel settembre del 1982, Bischofberger organizzò una personale di Basquiat nella sua galleria di Zurigo, esponendo i pezzi che aveva comprato. Torton ricorda che lui e Jean-Michel andarono in Svizzera per l'inaugurazione scoprirono che nessuna delle opere esposte era stata catalogata. Il loro straordinario soggiorno di una settimana fu sintomatico di quelli che sarebbero stati i loro rapporti. Dice Torton:
Quando andammo la prima volta a Zurigo ci disse una cosa tipo: «Che ci fate qui? Non è un'inaugurazione». E lì sul momento, dalla faccia che fece, sembrò che Jean-Michel pensasse: credevo di essere un artista famoso, ma forse non lo sono. Una cosa straziante12-14.
A quel punto trasformarono il viaggio in un gran bel baccanale. I due rimediarono dell'eroina in una piazza vicino la galleria che si chiamava Bellevue. Dice Torton:
Ogni giorno andavamo lì a comprarci la nostra piccola dose. C'eravamo vestiti a festa per quel viaggio, e io avevo delle belle scarpe, dei bellissimi Ray Ban, un completo e una cravatta di seta. Tutti cominciarono a contattarci perché ero bianco e credevano fossi il suo agente12-15.
Bischofberger li portò nel posto dov'era nato, un paesino di montagna che si chiamava Appenzell. Dice Torton:
Mi ricordo che facemmo tutta quella strada in Mercedes e che Bruno ci offrì da fumare. Era solo un tipo tremendamente sofisticato, ed era una cosa che tirava fuori al momento giusto. Fumammo l'erba mentre eravamo lì che viaggiavamo per questa strada di campagna. Lì era Carnevale, e il paese si era trasformato in un set felliniano. C'era una sorta di autoscontro costruito sulla montagna. Ci andammo e comprammo biglietti per quaranta corse. E iniziammo a correre sulla nostra macchinina andando a sbattere contro Bruno. E di colpo sembrò che tutto il paese fosse sceso per strada e si fosse coalizzato contro Jean-Michel che vedevano come una specie di uccello esotico. Tamponavano la nostra macchinina con violenza. Iniziammo a ridere istericamente12-16.
Ma Bruno non si dimenticò certo di parlare d'affari. «In un altro momento Bruno tirò fuori una grossa busta con dentro i disegni che aveva comprato da Diego per circa 150 dollari e che non erano mai stati firmati, e chiese a Jean-Michel di firmarli». (Il quadro del 1982 di Basquiat Bruno in Appenzell12-17 contiene la sola parola «Essen», probabile commento alla voracità del gallerista nei confronti dell'arte).
Quella con Bischofberger ripeteva le stesse dinamiche della maggior parte delle relazioni di Jean-Michel con altri galleristi, ma su più vasta scala, su scala globale. Ciò che però Bischofberger aveva in più rispetto agli altri era il suo essere un tramite per arrivare a Warhol, che fino a quel momento aveva fatto in modo di evitare il licenzioso giovane che era andato a importunarlo cercando di vendergli cartoline e magliette.
Nei suoi frequenti viaggi a New York, Bischofberger faceva sempre tappa alla Factory:
Andy amava andare a visitare gallerie o a trovare gli artisti che gli piacevano con me. Si sapeva già quali erano le star in ascesa, soprattutto negli anni Ottanta, quando era in corso questo nuovo boom della pittura. Andy era eccitatissimo dall'idea di venire con me a vedere mostre di tutti i tipi12-18.
Il 4 ottobre del 1982 Bischofberger era a New York per partecipare ad alcune aste. Aveva già fatto ritrarre a Warhol alcuni dei suoi artisti, inclusi Chia, Cucchi, Clemente e Halley. Adesso gli propose di portare la sua ultima scoperta, Jean-Michel Basquiat, a pranzo alla Factory, così i due avrebbero potuto ritrarsi reciprocamente. Raccontò Warhol nei suoi Diari:
Esco per vedere Bruno Bischofberger (taxi 7,50$). Ha portato Jean-Michel con sé. È il ragazzino che usava il nome «SAMO» quando passava le giornate seduto sui marciapiedi del Greenwich Village a dipingere magliette, e di tanto in tanto gli allungavo dieci dollari e lo mandavo al Serendipity per fargli provare a vendere qualche maglietta lì. Era solo uno dei tanti ragazzini che mi facevano diventare matto. È nero ma c'è chi dice sia portoricano e così non saprei. E poi Bruno lo ha scoperto e adesso trova tutte le porte aperte. Ha un grande loft su Christie Street [sic]. Era un ragazzino borghese di Brooklyn – nel senso che ha fatto l 'Università e cose così – e ha cercato di restare tale, dipingendo al Greenwich Village. E così abbiamo fatto un pranzo per loro e ho scattato una Polaroid e lui è tornato a casa, due ore dopo è arrivato un quadro, ancora bagnato, di lui e me insieme12-19. E, voglio dire, solo per andare a Christie Street [sic] ci avrà messo un'ora. Mi disse che l'aveva fatto il suo assistente12-20.
Stephen Torton, che consegnò il quadro a Warhol, dà una sua versione dell'episodio:
Chiese a me e Suzanne di andare insieme. Disse: «Ce lo siamo guadagnato». Era talmente bello. La prima cosa che Andy disse fu: «Vendi sempre quadri a un dollaro?». [Il fotografo della Factory] Chris Makos fece una ventina di Polaroid di Andy e Jean-Michel insieme, e Andy mi chiese quando avrebbe potuto farmi un ritratto. Dio, era una cosa talmente eccitante. Tornammo a casa in macchina, e non appena arrivammo allo studio Jean-Michel prese una Polaroid e cominciò a lavorare sopra un ritratto di una sua serie che aveva fatto da Mr Chow. Era una di quelle tele 155x155con le cantinelle che sbucavano fuori dagli angoli. Dieci minuti dopo disse: «Portaglielo», e io presi il quadro. Mi sporcai tutto di vernice perché il quadro era ancora bagnato e corsi per strada. Fermai un furgone e dissi: «Ti do dieci dollari se mi porti a Union Square»12-21.
Torton, ancora gocciolante di vernice, consegnò il ritratto a Warhol, che guardandogli i vestiti disse: «Chi lo ha dipinto, tu o Jean-Michel?». Continua Torton: «Gli dissi: "Che ti importa? Tu non li tocchi mai i tuoi quadri"»12-22. Fu un episodio che colpì anche Bischofberger:
Avevo fatto un accordo con Andy in base al quale ogni volta che trovavo un giovane artista emergente che giudicavo sinceramente interessante da ritrarre [sic], potevo portarlo da lui e Andy lo avrebbe ritratto, e avrei scelto o proposto un quadro da dargli in cambio. Non era una cosa che facevamo per soldi. Era solo un accordo tra amici. Quando arrivai con Basquiat, Andy disse: «È sul serio un grande artista?». E io gli dissi: «Sta per diventare sul serio un grande artista». Basquiat non aveva nessuna intenzione di restare a pranzo. Tornò al suo studio, e più o meno due ore dopo, quando ci mettemmo a tavola, l'assistente di Jean-Michel arrivò di corsa con un ritratto di Andy che era ancora bagnato. Tutta la Factory e gli altri che erano lì restarono a bocca aperta, e Andy disse: «Sono veramente invidioso. È più veloce di me». Queste furono le parole. Riesco ancora a sentirle.
Per Bischofberger fu un momento agrodolce: Warhol pretese la sua controparte e la pretese anzitempo. «Mandò uno dei suoi assistenti da Jean-Michel a scegliere un quadro, e l'assistente tornò con uno gigantesco, che nella mia mente era già mio. Ma poi, una volta finito nelle mani di Andy, non volevo farne una questione. Lo dissi a Basquiat, ma era troppo tardi. Era già andata».
L'ex-redattore della rivista «Interview» Bob Colacello descrisse il ritratto in Holy Terror, il libro che scrisse sulla sua esperienza con Warhol, come una di «quelle figurine disegnate in modo infantile e storte con ciocche di capelli che ornavano le teste, tipo aura voodoo. Primitivo e stilizzato, riuscì a cogliere la folle eccentricità di Andy, la sua tristezza, e la sua dolcezza»12-23.
Warhol restò giustamente colpito. Secondo Colacello Andy disse a Basquiat: «Non ho ancora scattato una sola Polaroid, e tu hai già finito. Cioè, sei più veloce anche di Picasso. Dio, è grandiooooooso».
Per Andy Basquiat smise di essere un ragazzino nero dall'aspetto selvaggio che avrebbe potuto derubarlo, e diventò una stella in ascesa nel mondo dell'arte, i cui quadri a Düsseldorf e Zurigo venivano venduti per ventimila dollari12-24.
Ancora più notevole della velocità di Basquiat fu la sua presunzione. Il doppio ritratto, intitolato soltanto Dos Cabezas (Due teste), è uno schermo diviso in due, da un parte c'è l'immagine di Warhol e dall'altra quella di Basquiat, unite per la testa, a ognuna delle quali è stato dato uguale spazio.
Per molti versi la mostra alla Fun Gallery, allestita dal 4 novembre all'11 dicembre del 1982, fu la migliore di Basquiat. Dice la direttrice della galleria, Patti Astor:
La mostra alla Fun fu un modo per fargli recuperare le sue radici, per fargli respirare una boccata di ossigeno lontano da tutta la stronzaggme di SoHo. Sapeva che con noi poteva fare quello che voleva, senza nessuno che gli stesse con il fiato sul collo, dicendogli cose tipo: «Il mio collezionista vorrebbe»12-25.
I quadri che aveva freneticamente realizzato sulle strutture metà telaio, metà r ottami create da Torton avevano una forza naturale e un che di cattivo. Chiunque si chiedesse come ci si trovava Basquiat in questo suo ruolo privilegiato di unico artista nero contemporaneo famoso, aveva solo da guardare il quadro appeso alla finestra, St. Joe Louis Surrounded by Snakes12-26, in cui c'era il pugile, uno degli eroi di Basquiat, circondato da manager truffaldini bianchi. «Quello era Jean-Michel»12-27, dice Suzanne Mallouk.
L'installazione era volutamente grezza quanto i quadri: emblemi frastagliati dello stato attuale della sua arte. C'era un autoritratto che era «NOT FOR SALE»12-28. E molti dei quadri più suggestivi erano omaggi ai suoi eroi privati: Charles the First (Charlie Parker), un quadro bianco su nero con il nome di Sugar Ray Robinson che consisteva in una semplice testa scheletrica con la corona tipica di Basquiat12-29, un'ugualmente spoglia rivisitazione di Jackie Robinson, con l'epitaffio «Versus»12-30. Prendere o lasciare: questo era il vocabolario essenziale di Basquiat chiaramente scandito – e senza alcun fine apologetico. (I prezzi variavano dai seimila ai diecimila dollari).
A detta di Torton inizialmente era riluttante a fare la mostra. «Io questa merda all'East Village non la faccio!», disse Basquiat alla Astor in base a quanto riportato da Torton. «Non è più il mio ambiente. Io adesso sono al Whitney»12-31. Ma una volta che si convinse, Basquiat trasformò l'allestimento della mostra in un evento autocelebrativo. «Ogni fase della vita di Jean-Michel, e lo dico senza alcuna ironia, potrebbe essere definita in base alle droghe di cui faceva uso», dice Torton. «La mostra alla Fun Gallery fu divertente12-32. Eravamo su di giri per l'oppio»12-33. Basquiat, Torton e Bill Stelling, il socio della Astor, rimasero tutta la notte in piedi per allestire la mostra. «Jean era fuori di testa, e continuava a modificare i quadri»12-34, racconta la Astor.
«Insaponammo le finestre e Jean ci disegnò sopra delle piccole corone», dice Torton. «Mi ricordo che alle quattro del mattino c'erano altri due quadri che Jean voleva, ed erano rimasti a casa. E così corsi fino a Crosby Street. Legai i quadri tra loro, presi un taxi, e dieci minuti dopo erano appesi alla parete»12-35. «Lasciai la galleria alle tre di notte. Quando tornai il giorno dopo a mezzogiorno», ricorda Stelling, «era ancora lì che dipingeva inappagato»12-36.
Era l'evento della settimana. La strada fuori dalla galleria era piena di gente. «Quando andai a quella cazzo di inaugurazione, e vidi quella folla», dice Fab 5 Freddy, «pensai: "Pazzesco". Era come a una prima a Hollywood, hai idea? O come entrare in un club alla moda. Era veramente fico vedere tutti quei ragazzini che facevano graffiti mischiati ai collezionisti»12-37. «I grossi collezionisti c'erano tutti», dice Stelling, «gli Schorr, i Neumann, i Rubell, Elain Dannheiser»12-38.
Basquiat e Torton erano splendenti nei loro completi Armani abbinati. «Fu il periodo in cui Basquiat cominciò a credere in se stesso», dice la Astor, «era in una fase di consumo ostentatorio»12-39. Joe Barrio, un amico di Torton, fu preso come buttafuori. Mallouk attrezzò la porta in modo che le star avessero un trattamento da vip. Bischofberger, per l'occasione, andò nell'East Village in Mercedes. Anche se all'inizio aveva cercato di convincere Basquiat a non esporre alla Fun, in seguito disse che la mostra gli piacque. «Credo che fu la mostra più bella della sua vita. Andai a vederla qualcosa come venti volte e ci portai un sacco di gente. Anche l'inaugurazione fu bella, era un mix di ragazzini di strada e gente elegante»12-40.
Tra i presenti c'era Paul Simon, ma il suo tentativo di comprare St. Joe Louis per ottomila dollari venne, ironia della sorte, ostacolato da Ricard. Ricorda la Astor: «René si fece venire un attacco isterico, disse che pensava di prendere lui il quadro»12-41. L'accompagnatrice della serata di Basquiat era Madonna, che indossava, ricorda Anna Taylor, «un cappello da bravo ragazzo»12-42.
Ci fu pure un'altra star: Annina Nosei piombò nella galleria e comprò un quadro. «Si precipitò all'inaugurazione come un carro armato Sherman, e comprò un pezzo», dice la Astor. «Il suo punto di vista era: "Lui ha tagliato i quadri, ma io ho i clienti". E comunque mi pagò una bella somma»12-43.
Lawrence Luhring aiutò la Nosei a trascinare il pesante trittico di legno dentro a un taxi. Il quanto mai opportuno nome del quadro era The Philistines. Qualche giorno dopo la Nosei lo vendette con un considerevole guadagno. Lei stessa ostenta: «Comprai il quadro per 750 dollari. E lo rivendetti per 15mila. Ma Jean-Michel non ebbe nemmeno i 750 dollari, perché è così che vanno gli affari. Cosa ebbe dalla Fun Gallery? Niente»12-44. «Gli avevo consigliato di fare quella mostra, perché sarebbe stata una cosa nuova», dice Torton. «Ma non me lo perdonò mai. Disse che l'avevano rapinato»12-45. Disse in seguito Basquiat durante un'intervista: «Ho fatto quella mostra per fare un piacere alla Fun Gallery. Non sono mai stato pagato. Una cosa talmente poco professionale da fare schifo»12-46. Ma Basquiat venne ben reclamizzato, sia personalmente sia artisticamente. Celebrò i propri idoli e sconfisse i propri demoni. Dice Stelling:
La ragione per cui Jean-Michel volle fare una mostra alla Fun Gallery fu riacquistare credibilità tra i suoi pari, tra i graffitisti. Per fare vedere che era sempre uno di loro. Credo che vivesse un profondo conflitto interiore. Forse non ne poteva più di andarsene in giro in limousine e di vendere i suoi valori passando per gallerie di lusso. E la mostra alla Fun fu, in tutta sincerità, la cosa più personale che fece. Mise su delle pareti per dividere lo spazio in differenti aree e creare una sorta di percorso nell'esposizione dei quadri. La sua era una vera e propria visione d'insieme12-47.
«Fu la prima mostra che fece dopo la rottura con Annina», dice la Astor, «e Jean-Michel volle farne una sorta di manifesto»12-48. E fu un manifesto straordinario. Come il «simbolico» taglio dei suoi lavori, appena un mese prima, divenne immediatamente parte del mito in divenire che era la vita di Basquiat. La Nosei concorda sul fatto che la mostra alla Fun segnò una nuova fase della carriera dell'artista:
Jean-Michel partì ottimamente, era in perfetta sintonia con quello stile, e aveva una forte predisposizione alla riuscita stilistica. Ma poi il suo lavoro cominciò a diventare troppo kitsch. E così distrusse quei quadri, li tagliò. E i tagli delle tele si trasformarono in una cosa meravigliosa, fantastica, perché nei nuovi quadri esposti alla Fun Gallery le tele non erano del tutto tirate, era come se le cose uscissero fuori dal quadro, erano di una violenza straordinaria. Era tornato ad essere sciamanico12-49.
Basquiat era determinato nel non volere perdere i frutti dei suoi più recenti lavori. Con un trasloco del tutto al di fuori dalla norma, ne mise al sicuro la maggior parte in un magazzino a Washington Heights, dove furono ritrovati solo dopo la sua scomparsa. A detta di Bischofberger era particolarmente preoccupato anche dal fatto che durante le mostre i suoi quadri potessero essere acquistati da speculatori e tormentò la Astor chiedendole chi fosse ogni singolo compratore.
E tuttavia Bischofberger riuscì a convincere Basquiat a vendergli un quadro, Piscine Versus the Best Hotels, che in seguito, «riluttante», vendette agli Schorr. L'affarista Bischofberger non avrebbe mai potuto rifiutare una richiesta che includeva il quadro in un pacchetto con dentro opere di Stella e Rauschenberg. «Mi fecero una sorta di ricatto. E poi lo andarono a riferire direttamente a Basquiat. Odiai l'idea che Basquiat pensasse che avevo venduto quel quadro dopo che lui me l'aveva dato personalmente. Odiai ancora di più il fatto di non avere più il quadro»12-50.
Quando la Fun Gallery chiuse, a un certo punto della prima mattina, Basquiat si ritrovò da solo con il buttafuori che lo riaccompagnò a casa in un furgone preso a nolo. Dice Torton:
A volte le sue tresche andavano avanti per tutta la mattina, altre volte si ritrovava del tutto solo. Quella notte rientrò a casa solo, senza ragazza, senza niente, senza nemmeno me con cui parlare del successo che era stato12-51.
Ne parlò la critica. Scrisse Nicolas A. Moufarrege: «La mostra di Jean-Michel alla Fun Gallery è stata la sua migliore. Era come fosse a casa. L'allestimento era perfetto, i quadri erano più autentici che mai»12-52. «Emozioni viscerali si nascondono dietro frasi e immagini, e non il desiderio di fare del facile Neoespressionismo»12-53, disse la critica Susan Hapgood su «Flash Art». Per Basquiat, così come per l'ambiente artistico dell'East Village, la mostra alla Fun fu la punta di un momento di creatività preannunciata. Il «facile Neoespressionismo» avrebbe presto prevalso. A proposito del suo successo personale, Basquiat disse in un articolo uscito nel settembre del 1983 su «Art News»:
Sono cose che all'inizio mi rendevano molto più felice, quando venivo da una situazione in cui non avevo un soldo in tasca. Poi c'era anche il fatto che non c'erano molti pittori neri, e così avevo la sensazione di fare qualcosa per gli altri. E mi divertiva il fatto di essere il più giovane e di essere contrapposto a un mondo di adulti. Mi piace il lato affaristico della cosa, l'idea che non lavoro per me stesso12-54.
Ma Basquiat sembrò anche percepire di aver fatto un patto faustiano, quando aggiunse: «Forse sto vendendo la mia anima al diavolo o a chissà chi»12-55. Subito dopo la mostra alla Fun prese il via il vero lavoro di Bischofberger come gallerista in esclusiva mondiale. Dice Perry Rubenstein:
Fu uno di quei momenti in cui Bruno preferì rimboccarsi le maniche e fare da sé, che è una cosa difficile a credersi tenuto conto di quanto fosse grande. Ma in quel momento è evidente che Bruno si curò solo del registratore di cassa. Sapeva che era un momento unico nella carriera di quell'uomo12-56.
A detta di Bischofberger quest'accordo siglato da una «stretta di mano» durò dal 1982 fino alla morte di Basquiat. «Gli dissi di non vendere niente a nessun altro, cosa che lui promise risolutamente»12-57, dice Bischofberger che da quel giorno in avanti fece di tutto pur di essere certo di avere il maggior numero di lavori dell'artista.