Mao e mucche in contanti: l'arte del commercio di Bruno Bischofberger

In questo momento la Svizzera è il mio posto preferito, perché è il nulla più assoluto. È tutti sono ricchi.

MIKE WRENN, Andy Warhol In His Own Words13-1 

Bruno Bischofberger amava sinceramente l'arte, ma, come Warhol, non perse mai di vista i profitti. Più di tutti gli altri galleristi degli anni Ottanta, Bischofberger diventò il re della sua fabbrica privata di fusioni e acquisizioni nel mondo dell'arte.

Seduto nell'assolato ufficio della sua galleria con vista sul Lago di Zurigo, Bischofberger, splendente nella sua maglietta monogrammata e nel suo blazer a doppio petto, fa colpo. Sembra più un miliardario a capo di una qualche multinazionale che un gallerista. Nella galleria c'è un silenzio di tomba, ma Bischofberger, che scherzando dice: «Sono stato e continuo ad essere un gallerista onnivoro»13-2, resta uno dei più potenti personaggi del mercato dell'arte internazionale.

È lui l'uomo che nel 1972 vinse per la dodicesima volta (cosa mai successa prima) la corsa della Cresta Run, la famigerata e pericolosa pista per slitte su ghiaccio che scende lungo la parete quasi verticale di una montagna di Saint Moritz. In base a quanto riportato da «Sports Illustrated», che documentò l'impresa, «nessuno può continuare a vincere alla Cresta Run senza una monumentale riserva di coraggio e un innato disprezzo per il pericolo»13-3. I racconti sull'abilità di Bischofberger nel pilotare la sua slitta bassa e rudimentale, soprannominata «skeleton»13-4, che va guidata con uno stile poco elegante e a pancia all'aria, sono un'infinità fra l'élite del Saint Moritz Tobogganing Club. Ed è una metafora perfetta della sua ineguagliabile abilità nel negoziare con pari scivolose e zigzaganti acrobazie nel mondo dell'arte.

Per tutto un decennio Bischofberger andò a New York mensilmente, facendo travolgenti visite agli studi degli artisti e alle case d'aste, e acquistando arte a prezzi imbattibili. Utilizzando quelle che sembravano quantità infinite di entrate disponibili (a un certo punto si presentò realmente con una borsa da palestra piena di contanti), acquisì un immenso patrimonio in Schnabel, Chia, Condo, Clemente, Salle, Cucchi e Warhol. Lista a cui adesso aveva aggiunto Basquiat.

Malgrado Bischofberger abitasse stabilmente a Zurigo, aveva un'assistente indipendente a New York, Beth Phillips, che lo aiutava a mantenere i contatti con i vari artisti rappresentati. «Milioni di dollari che passavano da una mano all'altra»13-5, dice la Phillips a proposito delle trattative di Bischofberger.

Logicamente c'era tutta una serie di galleristi che, a un certo punto della carriera di Basquiat, commerciava le sue opere. E lo stesso Basquiat spesso vendeva direttamente ai collezionisti. Ma per anni Bischofberger riuscì a comprare e vendere più Basquiat di ogni altro gallerista, e oggi possiede forse la migliore collezione dei lavori dell'artista. «Dal settanta all'ottanta per cento dei lavori fatti dalla fine del 1982 alla sua morte è passato per le mie mani, tranne quelli che ha tenuto per sé, che erano comunque una quantità considerevole»13-6, dice.

Bruno accumulava «euro-Basquiat», dice un giornalista che si occupa d'arte: «Come gli eurodollari, furono messi in circolazione finché non raggiunsero il massimo valore»13-7. Ma l'influenza di Bischofberger non fu solo monetaria. Fu grazie a lui, che era in rapporti d'affari con Warhol già dalla fine degli anni Sessanta, che finalmente Warhol adottò Basquiat e fu sempre lui che orchestrò una serie di collaborazioni tra i due artisti.

Bischofberger sfoglia amorevolmente i cataloghi delle mostre di Basquiat organizzate a Tokyo, Parigi, Madrid, Londra e, ovviamente, Zurigo. Li tiene allineati sugli scaffali, insieme al bel libro di disegni pubblicato nel 1985. Emana un'aura di colta prosperità. Non sarà il padrone di tutto quello che passa al vaglio, ma è di certo il compratore di tutto ciò che desidera. Negli ultimi trent'anni Bischofberger ha accumulato uno dei più grossi patrimoni in opere da collezione, dall'arte anni Ottanta ai vetri di Murano anni Cinquanta. «È una specie di aspirapolvere»13-8, dice Barbra Jakobson. «Bruno è il collezionista»13-9, dice Peter Brant, coproduttore insieme a Bischofberger, nel 1970, del film di Warhol L'Amour, e, insieme a Bischofberger e Joe Allen, nel 1971, finanziatore della rivista «Interview».

Bischofberger è un affascinante mix tra un collezionista perfetto, un padrone ricco e un avido imprenditore. All'apice del suo boom nell'arte, era famoso per i suoi spostamenti in Concorde, per i suoi soggiorni al Regency o St. Regis, e per la sua orgia interminabile di acquisti. Alcuni galleristi raccontano di Bischofberger intento a comprare smodate quantità di opere d'arte al telefono, mentre pedala furiosamente sulla sua cyclette nella stanza d'albergo. Dopo di che usciva per visitare tutti gli studi e le gallerie che i suoi sfiancati assistenti (incluso il suo protetto, il collezionista Thomas Ammann, che poi si sarebbe messo in proprio diventando un gallerista di fama internazionale), impegnati in incessanti tira e molla, riuscivano a gestire.

A detta della Phillips, la sua assistente-segretaria che stava a New York, Bischofberger pretendeva di avere un telefono dentro la sua limousine prima che la tecnologia lo consentisse. Utilizzando uno scomodo e costoso modello industriale della Motorola (il telefono costava quattromila dollari e le batterie si scaricavano in continuazione per via delle sue frequenti telefonate in Europa e Messico), Bischofberger, come un generale paranoico di un'armata costituita da un solo uomo, lanciava tutta una serie di direttive dall'alba al tramonto.

Questa raffica di istruzioni, rilasciate in un inglese singolare, spaziavano dal quanti contanti elargire ai vari artisti (ogni settimana il suo budget poteva includere fino a duecentomila dollari di anticipo per Warhol, Salle, Clemente, Schnabel e Basquiat, che spesso prendeva diecimila dollari in una botta), al quando mandare un camion per il trasporto delle opere di un artista dallo studio al magazzino, da dove poi venivano spedite a Zurigo o ai vari collezionisti sparsi nel mondo, a quanto offrire da Sotheby's per un vaso di valore, a quale mobile comprare per David Salle al 50/50, negozio d'antiquariato preferito da Bischofberger, alle indicazioni per una cena per dodici persone, inclusi Schnabel, Clemente, Basquiat e Warhol, al Christelle, uno dei suoi ristoranti preferiti13-10.

La generosità di Bischofberger si confondeva spesso con la sua avidità: nella sua tenuta di Saint Moritz aveva fatto costruire un piccolo chalet che serviva da studio, nel caso a qualcuno dei suoi artisti in visita fosse venuta voglia di lavorare.

Una dicotomia che si manifestò anche nel suo rapporto con Basquiat, che trascorreva un sacco di tempo con il gallerista in Svizzera. Era capace di svuotare lo studio dell'artista in una sola retata con una grossa mazzetta di contanti, che veniva immediatamente spesa in droghe. Convinse Mary Boone a prendere Basquiat tra i suoi artisti, ma solo per essere sicuro che a lui andassero i lavori migliori. Fece in modo che Basquiat collaborasse con il suo idolo, Warhol, ma, dopo la morte di Warhol, riuscì a convincere Basquiat a vendergli la sua parte delle collaborazioni. Dice il gallerista Howard Read:

Era il George Soros del mondo dell'arte [ovviamente senza alcuna vena filantropica, nda]. Capitalizzava beni su beni. Comprava undicimila lavori a china di Russell Wright, li immagazzinava e aspettava che il carico arrivasse13-11.

In aggiunta alle sue altre collezioni, Bischofberger aveva una collezione di portata mondiale di manufatti preistorici, una collezione di fotografie degna di un museo, e migliaia di pezzi d'arte decorativa, inclusi vetri, ceramiche e arredamento. «Per immagazzinare tutto avresti dovuto sventrare una di quelle grandi montagne che ci sono dalle parti di Zurigo»13-12, dice la Phillips.

Il collezionismo compulsivo di Bischofberger risale alla sua infanzia. Nato nel 1940, da un medico di Zurigo, a dodici anni collezionava già oggetti d'antiquariato e pezzi di Art Nouveau, forse prendendo esempio dal padre che aveva una modesta collezione di Arte Medievale. Frequentò l'Università di Zurigo, dove studiò Storia dell'Arte, Archeologia e «Volkskunde, che è una sorta di antropologia delle culture cosiddette civilizzate e include lo studio della Folk Art». Fece la tesi di dottorato sulla Folk Art dei secoli Diciottesimo e Diciannovesimo nella Svizzera dell'Est, «che è la zona più ricca di tutta la regione delle Alpi»13-13. La cosa singolare è che Bischofberger si mise a collezionare la roba che studiava. A quel tempo aveva poco più di vent'anni e aveva acquisito una collezione pazzesca di Folk Art svizzera, dai mobili dipinti ai campanacci delle mucche, e la sua tesi era stata pubblicata. A detta della Phillips, il metodo di acquisizione dei lavori dai contadini era alquanto diretto: comprava loro da bere e li ammaliava al punto da farsi dare la roba. Nel 1992 la collezione di Bischofberger fece da base di partenza al Museo della Folk Art di Stein, nel Cantone di Appenzell. (Bischofberger continua ad avere una gigantesca collezione di Folk Art, «ma come gallerista la considero irrilevante. Non è neanche l'uno per cento di tutta quanta la mia attività»13-14).

Nel 1963, mentre stava ancora facendo il dottorato, gli venne offerto uno spazio per fame una galleria d'arte. Partì vendendo pezzi d'antiquariato e di Arte Medievale. Dopo sei mesi decise che avrebbe preferito esporre quadri, e iniziò con una piccola mostra di opere del francese Auguste Herbin prese in prestito da un amico. Per la sua seconda mostra, nel gennaio del 1964, Bischofberger fece un singolare e audace salto in direzione dell'arte contemporanea. Contattò Ileana Sonnabend, e le chiese se voleva «prestarmi delle opere per una mostra sulla Pop Art. Nella mostra c'erano tutti: Rauschenberg, Johns, Warhol, Oldenburg, Lichtenstein, Wesselmann, Jim Dine, e anche Chamberlain»13-15. Fu una delle prime mostre sulla Pop Art in Europa. Bischofberger, allora ventiquattrenne, era entrato nell'ambiente. Racconta:

La Pop Art veniva ancora considerata, praticamente da tutti, come qualcosa di assolutamente poco serio. Confondevano l'iconografia pop con l'intenzione di fare strategia di mercato. Pensavano fosse un modo volgare e americano di rendere l'arte commerciale perché era un'iconografia che nasceva dalla pubblicità. Pensavano fosse una qualche arte da montagne russe, o da nightclub13-16.

Fu significativo in questa sua prima incursione nell'arte contemporanea americana l'incontro con un artista contemporaneo americano: Roy Lichtenstein. «Era il primo che conoscevo. Venne all'inaugurazione. Io organizzai una cena in un antico palazzo tradizionale con sessanta dei più importanti collezionisti di Zurigo»13-17.

Poco dopo Bischofberger partì per New York dove seguì il consiglio della Sonnabend di cercare Leo Castelli per chiedergli di essere presentato ad Andy Warhol. Racconta Bob Colacello che il sempre intraprendente Fred Hughes (che gestiva gli affari di Warhol) riconobbe all'istante il valore di Bischofberger in campo internazionale13-18. Bischofberger era socialmente vicino a una serie di ricchi industriali, inclusi l'armatore greco Stavros Niarchos, il magnate delle automobili italiano Gianni Agnelli e l'imprenditore tedesco Gunther Sachs, quest'ultimo conosciuto alla Cresta Run. Fu il più grande dei fratelli Sachs, Ernst Wilhelm, che gli prestò i soldi per acquistare i suoi primi Warhol.

Bischofberger convinse Warhol a vendergli undici quadri per 422mila dollari. Dice Bischofberger:

Non avrei mai dovuto avere finanziatori che fossero soci della galleria. Nel primo accordo che feci con Andy dovetti prometterglielo. Ero talmente ingenuo. Avevo frequentato scuole cattoliche e avevo imparato il Greco, il Latino e la Filosofia. Ero completamente all'asciutto in quanto a soldi, affari e funzionamento delle banche. Chiesi a Ernst Wilhelm Sachs, che era un collezionista, di farmi un prestito che avrei saldato in opere d'arte. Non mi diede soldi, ma mi fece da garante con la banca, che è praticamente la stessa cosa. La proposta era che io avrei comprato undici quadri e lui avrebbe potuto scegliere come alternativa di ricomprarli a prezzo di costo, senza incassarci nulla. E lui mi fece da garante per tutta quanta la somma. Fu un gran bel rischio. Mi portai tutto quanto in contanti a New York. Pensavo che era così che li avrebbe voluti Andy. Erano tutti biglietti da mille dollari13-19.

Bischofberger aveva avviato il suo impero dell'arte mondiale in grande stile. Scrisse Colacello su «Vanity Fair»:

Uno dei primi galleristi che Hughes coltivò fu Bruno Bischofberger, che una mattina di fine anni Sessanta si presentò alla Factory e acquistò undici dei primi Warhol da Hughes per 422mila dollari. Bischofberger diventò presto il principale promotore dei ritratti di Warhol in Svizzera e Germania. Le sue prime «vittime», come spesso Warhol chiamava i suoi soggetti, furono l'imprenditore di Monaco Gunther Sachs e quella che all'epoca era sua moglie, Brigitte Bardot13-20.

Bischofberger poteva pure portare i calzoni corti come i bifolchi svizzeri, ma aveva grandi progetti su come lanciare l'allora fiacca carriera di Warhol. Fu sua, dice Bischofberger, l'idea di chiedere a Warhol di fare ritratti alla gente del bel mondo dopo averne commissionato uno per se stesso:

Gli chiesi: «Andy, saresti disposto a fare ritratti se io andassi dalle persone a chiedere se gli interessa che tu le ritragga?». Andy disse che gli sarebbe piaciuto moltissimo e io gli suggerii di stabilire le dimensioni, quanti farne e a che prezzo13-21.

Bischofberger snocciolò un listino dettagliato di prezzi per numero di pannelli. «Fui bravo a convincere una serie di persone tra le più ricche al mondo», dice, «alcune delle quali erano delle celebrità, come Stavros Niarchos o Gianni Agnelli, che erano già miei amici e che diventarono miei clienti»13-22. Bischofberger continuò a tenere sotto controllo i prezzi di Warhol. Nel maggio del 1970, in un'asta da Sotheby's, lui e Peter Brant offrirono la cifra record di 60mila dollari per Soupcan with Peeling Label. La cosa non passò inosservata e anche il «New York Times» scrisse che i due avevano deliberatamente tirato su il prezzo13-23, anche se entrambi lo negarono.

La mossa successiva fatta da Bischofberger si rivelò una miniera d'oro, e ottenne anche i consensi da parte della critica. Nel 1970 Andy aveva deciso che la «pittura era fuori moda», e Bischofberger gli chiese di realizzare dei ritratti multipli e di diverse misure di un unico soggetto. Bischofberger aveva in mente anche il soggetto: andò appositamente a New York per suggerire a Warhol di realizzare una serie che ritraesse il personaggio più rilevante del secolo Ventesimo: Albert Einstein.

La mia idea era che Einstein fosse una sorta di uomo del secolo e che fosse anche una celebrità e avesse un aspetto meraviglioso. E Andy disse: «Sììì, grandioso, ma devo ragionarci sopra e mi piacerebbe fare Mao». Logicamente mi caddero le braccia. Pensai: quale ricco collezionista orientale vorrebbe appendere nel proprio ufficio Mao, leader comunista di questa grande Cina che tutti ci minaccia? E gli dissi: «Andy, ma per quale santa ragione Mao?». E lui: «Oh, lo sai benissimo, Mao è la persona più famosa del mondo». E probabilmente è vero. In Cina chi lo conosce Einstein? Mentre anche nel Terzo Mondo conoscono Mao, così come tutti noi lo conosciamo. Di certo è conosciuto da milioni e miliardi di altre persone13-24.

Se Bischofberger pensava di avere una qualche esclusiva per la straordinaria serie dei Mao, (ne comprò immediatamente dieci) presto si accorse che non era così:

Spesso fui ingenuo nel mio modo di trattare anche con i miei stessi artisti. Qualche mese dopo Andy mi disse: «Bruno, ho fatto degli altri Mao». E senza dirmelo aveva fatto questa serie di trenta o quaranta piccoli Mao più altri quaranta di questa misura, più cinque o sei Mao giganti alti quattro metri e mezzo. E io avevo venduto solo due dei miei, che erano due metri per un metro e mezzo… Questa storia dei Mao mi rese un po' infelice13-25.

Warhol diede priorità a Bischofberger nell'acquisto degli altri Mao, ma era una cifra al di sopra della sua portata. Bischofberger era determinato a non consentire a Warhol di tagliarlo fuori un'altra volta. «Da lì in avanti ogni volta che gli commissionavo qualcosa mi premuravo di mettere tutto per scritto»13-26.

Bischofberger continuò a commissionare opere a Warhol fino alla morte dell'artista. Gli commissionava tutto quanto pensava di poter vendere, dai giocattoli per bambini alle serie di Reversals in cui l'artista, esperto nel riciclaggio, produsse i negativi di molti dei suoi precedenti lavori per pubblicarli in un'edizione limitata di Exposures fotografiche13-27. La brama di Bischofberger di acquistare ogni sorta di oggetto forse era pari solo a quella di Warhol. I due giravano insieme gallerie e antiquari, raccattando qualunque cosa: da oggetti d'arte decorativa a vetri veneziani, a tappeti navajo. Bischofberger racconta un episodio divertente su Warhol che, da un mercante di tappeti navajo, esaminò accuratamente ogni singolo pezzo di una pila di centinaia prima di chiedere: «I tre che costano meno, mi piacciono tutti così tanto!».

Intanto, mentre diverse correnti d'arte apparivano e sparivano, gli affari d'arte di Bischofberger continuavano la propria espansione esponenziale. A un certo punto dei primi anni Settanta, tentò di aprire una sua galleria sulla Cinquantasettesima, prendendo Annina Nosei come assistente-direttrice. «Thomas Ammann, che lavorava con me da otto anni, voleva investirci un bel po' di soldi», dice Bischofberger, «e così andammo insieme a New York nel 1972 o nel 1973 e affittammo uno spazio che diventò poi la Andrew Crispo Gallery e che adesso si chiama Robert Miller Gallery»13-28. A quanto dice Bischofberger la galleria non aprì mai perché i locali erano occupati dai New York Jets, e appena si decisero a sgomberarli iniziò la recessione. Per i successivi sette anni affittò la galleria a Crispo, implicato in seguito in un celebre omicidio13-29.

Bischofberger passò dalla Pop Art al Minimalismo, agli artisti Pattern & Decoration esposti da Holly Solomon negli anni Settanta, comprando Robert Kushner e Kim MacConnel in quantità. Dice la Solomon: «Bruno venne a comprare tutta una mostra per poi rivendersela. Quello che non riuscì a rivendere subito, lo avrebbe rivenduto in seguito per cifre ancora più alte»13-30. Dice Bischofberger con orgoglio: «Amo comprare tutte le opere dei miei artisti in blocco. [D.H.] Kahnweiler faceva lo stesso con Picasso e Braque. Ho un inventario molto più grande di quello della maggior parte dei miei colleghi»13-31.

Ma simili prassi potevano avere un effetto deleterio sugli artisti implicati. Dice il giornalista Allan Schwartzman, che a inizio anni Ottanta dirigeva la Barbara Gladstone Gallery:

Erano opere che costavano poco. Bruno possedeva più opere di Pattern & Decoration Art di chiunque altro, e controllava il mercato. A quel punto però decise che Kushner e MacConnel non sarebbero stati i Johns e Rauschenberg del futuro, e li mollò13-32.

Bischofberger fu uno dei primi a iniziare a esporre gli artisti della Transvanguardia (Chia, Clemente e Cucchi), e non perse tempo nel saltare sul treno del Neoespressionismo, gestendo il nuovo boom dell'arte con la stessa abilità manifestata nella Cresta Run. Dice Schwartzman:

Nel momento in cui nacque il mercato degli anni Ottanta, Bruno c'era. Quello che fece fu individuare degli artisti che avessero il senso dell'estetica e del commercio e che fossero disposti a stare al suo gioco. Arrivava sempre prima degli altri, quando poteva comprare a un buon prezzo, e si dava da fare finché il valore non saliva. Se restavi un passo avanti, potevi fare un sacco di soldi13-33.

Dice un amico intimo di Warhol:

Il suo modo di condurre gli affari con Warhol era impeccabile. Ma Bruno era in grado di distruggere la carriera di un artista. Creava una bolla che poteva fare scoppiare in qualunque momento. Bruno era il re del successo in una notte. Era la quintessenza del gallerista anni Ottanta, bravissimo nel promuovere un artista. E vivendo in Svizzera comprava e vendeva opere di artisti americani alle loro gallerie americane, facendone aumentare costantemente il valore.

Scrisse Warhol nei suoi Diari, dopo essere andato a trovare Julian Schnabel insieme a Bischofberger:

Bruno sa proprio come viziare rapidamente un artista. […] C'è tutto un gruppo di ragazzi che fanno della pessima arte […]. Poi arriva Bruno e dice «compro tutto», e quei ragazzi si abituano ad avere denaro in abbondanza, e non so cosa faranno quando sarà tutto finito – oh, ma a quel punto ci sarà qualcosa di diverso, immagino13-34.

Bischofberger aveva come sempre ragione in fatto di soldi. Il suo accordo con Basquiat coincise con l'ascesa dell'East Village, e del movimento artistico ad esso correlato: il Neoespressionismo.