Il colore dei soldi: il mercato dell'arte degli anni Ottanta

Quello che le miniere a cielo aperto sono per la Natura, il mercato dell'arte lo è diventato per la cultura.

ROBERT HUGHES17-1 

L'ardito nuovo boom dell'arte di New York esordì ufficiosamente al suono staccato del martelletto di una casa d'aste nel maggio del 1983. Il pezzo era Notre-Dame dell'allora trentunenne Julian Schnabel, un dipinto con frammenti di un piatto incrostato di vernice che un collezionista privato si aggiudicò per la straordinaria cifra di 93.500 dollari17-2. Per molti quello fu un momento decisivo: il mercato dell'arte si era rimesso clamorosamente in forze dopo una lunga recessione. La reazione fu euforica: nei primi giorni di questo nuovo e prospero mercato nessuno avrebbe potuto prevedere quale risonanza e quali eccessi sarebbero stati raggiunti.

L'ombra della nuova brama d'arte si era intravista dieci anni prima quando, il 18 ottobre 1973, Robert ed Ethel Scull misero all'asta la loro collezione seminale di Pop Art da Sotheby's Parke-Bernet. Il pandemonio scatenato dal pubblico e dalla stampa, che fino agli anni Sessanta non aveva dato chissà quale importanza all'arte, è ben reso nel documentario di E.J. Vaughn e John Schott America's Pop Collector. Robert C. Scull – Contemporary Art at Auction17-3. 

Ed ecco qua, immortalata dal cinéma-vérité, una visione in cianografica degli anni Ottanta: il colore venale dei soldi, la smodata arroganza dell'intenditore borghese, il glamour istantaneo, il servilismo della stampa, gli artisti feriti e stupefatti, l'avido giapponese. A picchettare fuori dall'asta c'era l'Art Workers Collection, antesignana delle radicai Guerrilla Girls. La casa d'aste era piena zeppa di un pubblico sfarzosamente vestito che applaudiva ogni volta che veniva fatta una controfferta record. Police Gazette di Willem de Kooning venne aggiudicato per 180mila dollari e Double White Map di Jasper Johns, comprato originariamente dagli Scull per 10.500 dollari, arrivò a 240mila dollari. I soli neri che si videro erano i trasportatori dai guanti bianchi, che, come in un Minstrel Show17-4, animavano silenziosamente ogni opera d'arte – il bronzo Ale Cans di Jasper Johns (90mila dollari), ad esempio – sulla pedana dell'asta.

Il ricavato complessivo della vendita di opere della collezione di arte americana vintage meticolosamente messa insieme dagli Scull fu di 2,2 milioni di dollari. Quando le frenetiche offerte vennero chiuse, Robert Rauschenberg si avvicinò a Robert Scull e finse di dargli un pugno. «Non mi hai mandato i fiori», si lamentò con il compiaciuto amante dell'arte e degli artisti. «Io mi sono fatto il mazzo e tu ti sei fatto i soldi». La vendita aveva aumentato il valore dei lavori, gli spiegò Scull, spiazzato dalla reazione dell'artista. Ma Rauschenberg non sembrò affatto sollevato. «E allora tu compri il prossimo, ok? A questi prezzi», insistette, «e questi sono i patti». Scull disse in seguito ai registi:

Uno s'immagina che l'arte sia così raffinata, elegante, colta, ed ecco che di colpo la gente offre delle cifre smodate, come fosse una merce qualunque. Penso che qui alla Parke-Bernet sia solo arte senza cultura intorno. Qui dentro sono solo spietati e algidi soldi e affari. Qui dentro hai solo da firmare assegni. Niente perdite di tempo né discorsi sull'estetica dell'arte. Qui si parla solo dei soldi dell'arte17-5.

Barbara Rose inveì contro l'asta sulle pagine della rivista «New York»:

È dai tempi delle svendite da S. Klein per l'anniversario della nascita di George Washington che non vedevo manifestarsi tanta rozza avidità e dichiarata cupidigia […]. Una situazione in cui delicati oggetti d'arte, giacché unici e rari, si trasformano in un grosso mezzo di scambio internazionale, in perline da baratto dell'Età del Jet. È per questo che adesso le vendite all'asta attraggono quella stessa gente che un tempo infestava Las Vegas e Montecarlo17-6.

E quanto aveva scritto poteva riferirsi tranquillamente agli anni Ottanta.

L'asta degli Scull fu una prova in costume del boom che dieci anni dopo avrebbe travolto il mondo dell'arte. Nel 1983 delle versioni all'ultima moda degli Scull attraversavano l'East Village e SoHo nelle loro macchine con autista, innamorate dell'arte e degli artisti che la creavano, e presenziavano aggressivamente alle aste dove le stesse opere, enormemente apprezzate, venivano vendute (spesso dagli stessi collezionisti) a cifre sempre più astronomiche. Nel documentario di Vaughn e Schott, Scull dice a un giornalista del «Wall Street Journal»:

Conosci l'artista, gli commissioni opere, credi in lui […] all'improvviso vive ogni giorno con te […]. Quello che succede è che il possedere è una cosa che ti coinvolge, l'acquisire è una cosa che ti coinvolge, e quando si tratta di arte forse è il massimo coinvolgimento possibile. È chiaro che anche possedere una piccola quota della Ibm è una cosa che ti coinvolge […] ma con l'arte è tutta un'altra storia. È un'eccitazione del tutto diversa17-7.

Mera e Don Rubell, i più grossi collezionisti di Basquiat, avrebbero fatto eco alle parole di Skull. «È un momento talmente straordinario quando ti connetti con l'energia di un artista. Andare negli studi degli artisti e sperimentare quest'aura è la nostra passione»17-8.

Non fu una sorpresa, con l'arrivo degli anni Ottanta, che Ethel Scull saltasse anche lei sul carrozzone. «Mi sembrò di essere tornata agli anni Sessanta», disse. Prese il ricavato della vendita di dieci quadri dell'aspramente contestato patrimonio che condivideva con il marito e fece quello che lui (morto nel 1986) aveva sempre fatto: si diede alle folli spese d'arte e comprò opere dei nuovi artisti di tendenza negli anni Ottanta: Jeff Koons, David Salle e Jean-Michel Basquiat. (Anche il figlio John ebbe una sua particina nella vita di Basquiat: era il proprietario di un servizio di limousine e di tanto in tanto faceva da autista a Basquiat per le inaugurazioni delle mostre).

Come collezionisti Robert Scull, proprietario di un parco taxi (Scull's Angels) fattosi da sé, ed Ethel, la sua consorte principessa, erano la quintessenza dell'americano medio. Al di là delle abitudini alto-borghesi, gli Scull rispondevano a quella che potrebbe essere definita un'innata obsolescenza. L'asta pop non fu il primo episodio in cui abbandonarono un movimento: nel 1965 lui aveva buttato nella spazzatura tutti i suoi quadri astratto-espressionisti17-9. Tom Wolfe fece un'eccelsa parodia degli Scull nel suo Bob & Spike:

Bob e Spike sono gli eroi popolari di ogni arrampicatore sociale che abbia mai battuto New York. Quel che Juarez era per il mestizio messicano, quel che John L. Sullivan era per gli irlandesi di Boston, quel che Garibaldi era per il contadino sardo, quel che i Beatles sono per gli impiegatucci inglesi da otto sterline la settimana, […] quel che Moishe Dayan è per i duri lavoratori dei kibbutz del Shephelah – ecco, tutto questo sono Bob e Spike per gli arrampicatori di New York. Con l'abbaglio della pubblicità i due hanno gettato luce sulla rotta da seguire: collezionare arte eccentrica […]. Dalla massa all'haute monde – proprio così!17-10 

Scrivendo a inizio anni Sessanta, Wolfe descrive anche quel «gioco» del «collezionare l'ultima novità» che rimase pressoché invariato vent'anni dopo: compra un'opera direttamente nello studio dell'artista, reclamizza l'acquisto che hai fatto, accendi la competizione tra collezionisti e gallerie. Wolfe omise l'ultimo trionfale gradino: rivendi l'opera all'asta con una mega-profitto. Gli Scull fecero una sfarzosa messa in scena di quanto lo spettacolo, e il colpo di grazia fu l'Über-vendita. Solo con il senno di poi si capisce che l'asta degli Scull fu un punto di svolta decisivo per il mercato dell'arte contemporanea.

Una serie di fattori contribuirono a creare quella straordinaria Età dell'Oro dell'arte che durò un decennio e che, alla fine del 1989, seguendo un complicato schema piramidale finì per distruggersi da sé. La macchina da guerra cominciò ad attivarsi nel maggio del 1980, quando le case d'aste batterono il record storico con vendite d'arte impressionista, moderna e contemporanea per la cifra straordinaria di 55,8 milioni di dollari. E, a dispetto del crollo che ci si aspettava, ogni successiva vendita fatta nei seguenti cinque o sei anni stabilì nuovi record di prezzi che salirono su nella stratosfera17-11.

Il mercato dell'arte, che nel 1983 per la sola New York City valeva due miliardi di dollari, rispecchiava quelle che su più ampia scala erano la cultura e l'economia americane. Gli sconvenienti eccessi degli anni Ottanta si estesero a ogni aspetto del mondo dell'arte, dai galà di inaugurazione alle aste oltre ogni limite e a una copertura stampa autoreferenziale17-12.

Durante il primo mandato di Ronald Reagan l'economia americana era clamorosamente riuscita a risollevarsi dalla recessione di fine anni Settanta. Il ristagno nazionale – finanziario, culturale e politico – sembrava infine terminato. L'economia reaganiana si fece sentire: da Wall Street al Museum Mile. Il nuovo ottimismo che pervase il Paese fu più che una semplice ripresa: fu un palpabile cambiamento dello Zeitgeist. Uno spettro si aggirava per l'America: lo spettro dell'imprenditoria. Il protagonista del Falò delle vanità17-13 di Tom Wolfe, Sherman McCoy – l'imprenditore come Uomo Qualunque – incarnava la nuova etica: la Cultura dei Soldi.

La critica definì gli anni Ottanta l'Età dell'Oro. I suoi magnati dell'industria appena sfornati e i rispettabili giovani Padroni dell'Universo erano l'equivalente moderno dei baroni predoni. Scrisse Debora Silverman su Selling Culture-. 

C'era una profonda sintonia tra il programma politico della Casa Bianca di Reagan e l'emergere di una nuova cultura aristocratica e consumistica che frequentava Bloomingdale's e il Metropolitan Museum. L'idealizzazione della nobiltà non-americana contribuì alla creazione di un nuovo stile culturale sintonizzato con la politica nata all'inizio del mandato Reagan: uno stile aggressivamente dedito al culto della visibile ricchezza e della distinzione17-14.

Come scrisse John Taylor nel suo libro The Circus of Ambition: «La retorica di Reagan sguinzagliò la più grande celebrazione della ricchezza – ricchezza come virtù, come bene in sé – che il Paese avesse mai sperimentato in tutto il secolo Ventesimo»17-15. «L'avidità è giusta», dice Michael Douglas nel film Wall Street, cinica ode a quei tempi firmata Oliver Stone17-16. Questa «celebrazione» si manifestò in una miriade di forme di esibizionismo consumistico che spesso includevano l'arte, dal crescente numero di collezioni stile-museo messe in piedi apparentemente in una notte dai predatori di Wall Street, ai party sfarzosi dati dentro il Tempio di Dendur, al Metropolitan Museum, che a metà anni Ottanta era diventato una sorta di club sociale di serie A in quanto a ricchezza17-17.

Il mercato al rialzo di Wall Street andava a gocciolare – meglio: a sfociare – direttamente a SoHo, nell'East Village e nelle case d'aste. La Cultura dei Soldi veniva spinta a comprare arte: per le pareti delle società, per evadere il Fisco con donazioni ai musei17-18, per le loro appena ristrutturate tenute negli Hamptons. Se negli anni Sessanta tutto era arte, negli Ottanta tutto era in vendita. A un certo punto Eugene Schwartz disse: «Collezionare è l'unica forma di avidità socialmente encomiabile»17-19.

Era nata una nuova classe di collezionisti. Si chiamavano estimatori d'arte: investi adesso, fai vedere agli amici, e poi rivendi a un prezzo più alto. Disse a quel tempo Robert Hughes: «Se sei interessato a una schiacciante ma allettante dimostrazione di potere economico, anche la peggior specie di speculatori stramiliardari sa che l'arte è il mezzo migliore»17-20.

Gli Steinberg erano un perfetto esempio del fenomeno. Gayfryd Steinberg conobbe il suo miliardario marito, il re delle fusioni e acquisizioni Saul, a un dinner party dato, cosa quanto mai appropriata, dal gallerista Richard Feigen. La collezione degli Steinberg, che include un impressionante numero di capolavori del passato e che spaziava all'epoca dalla Salomè con la testa di San Giovanni Battista di Tiziano a un'opera minore di Renoir che decorava una stanza impolverata del loro sontuoso appartamento di Park Avenue17-21.

Nel 1989 Gayfryd diede un leggendario e fastoso party per il cinquantesimo compleanno di Saul, spendendo miliardi nella creazione di un pannello a grandezza naturale di quadri celebri. Qualche anno dopo Steinberg, che era entrato in politica per diventare membro del consiglio di amministrazione del Metropolitan Museum, trasformò il museo in una sala intrattenimento da tre milioni di dollari per il banchetto di nozze della figlia. Disse Feigen ammirando uno dei suoi più importanti clienti: «Steinberg è uno dei più grandi collezionisti del nostro tempo. È brillante. È piacevole. È divertente. È passionale, e in più ha un'immensa fortuna»17-22.

Gli Steinberg erano in buona compagnia. Durante la prima metà degli anni Ottanta il magnate della pubblicità inglese Charles Saatchi, che nel 1991 aveva fondato un suo museo, acquisì un potere straordinario nel mondo dell'arte facendo e disfando gli artisti, comprando le loro opere in blocco (come fece con Sandro Chia) per poi disfarsene di colpo qualche anno dopo.

Basquiat aveva la sua selezionata cricca di collezionisti, di cui facevano parte Elaine e Werner Dannheiser, Herbert e Lenore Schorr, Donald e Mera Rubell, Dolores e Hubert Neumann, Eli ed Edye Broad. Quello che tutti questi collezionisti avevano in comune era un'apparentemente insaziabile brama di novità: erano una sorta di Indiana Jones alla ricerca dell'ultima tendenza dell'arte.

Da un certo punto di vista la psiche del collezionista d'arte anni Ottanta coincideva perfettamente con quella di Basquiat: il collezionismo in sé poteva essere visto come una forma di arricchimento. Scrisse Werner Muensterberger in Collecting. An Unruly Passion: 

Come per un affamato che ha bisogno di saziarsi, la conquista di un oggetto in più non mette fine alla brama. Piuttosto, è il ripetersi dell'esperienza che spiega l'attitudine mentale del collezionista […]. Conquistare in qualunque modo possibile – comprando, trovando o anche acquisendo con astute e ingannevoli forme di latrocinio – opere d'arte è uno stabilizzatore dell'umore e fornisce al proprietario un potenziale senso di successo o di trionfo, talvolta anche di magnificenza, come quando si vince al tavolo da gioco o si riesce a fare un geniale acquisto in una sala d'asta17-23.

Mitch Tuchman, ex-caporedattore delle pubblicazioni del Los Angeles County Museum of Art, possiede più di un migliaio di pezzi di ceramiche Bauer. È anche l'autore di Magnificent Obsessions, per scrivere il quale intervistò parecchie dozzine di collezionisti. «Una delle cose che mi divertì fu la quantità di gente che parlò della propria collezione come di un arricchimento in sé, senza che ciò avesse ulteriori conseguenze», disse al «New York Times»17-24.

Il gallerista Richard Feigen ne è un perfetto esempio. «C'è della gente che beve o che gioca d'azzardo: io colleziono quadri», disse. E poi aggiunse: «Se hai avuto un'infanzia difficile, ti dedichi agli oggetti perché sai che loro non possono ferirti». Un conoscente di Robert Scull una volta lo definì un «quadri-dipendente» che «si spara l'arte nelle vene, un tossico»17-25.

Un mondo dell'arte in crescita esponenziale contribuì ad alimentare la dipendenza da collezionismo. Nel 1983 circa 35mila studenti d'arte si diplomarono in varie scuole17-26, c'erano quasi un milione di artisti dichiarati in America17-27, 90mila dei quali era stato calcolato vivessero e lavorassero a New York. Nel 197017-28 a New York c'erano circa duecento gallerie: per la metà degli anni Ottanta il numero era triplicato17-29.

L'incredibile domanda di nuove opere d'arte diede ai galleristi un potere di controllo sui collezionisti che non aveva precedenti. I collezionisti venivano messi in lista d'attesa per le opere di determinati artisti e a volte, per garantirsi la prima scelta, erano costretti ad acquisti in blocco che prevedevano opere minori. In «Art & Auction» Stuart Greenspan scrisse di queste «crescenti orde che facevano la fila per comprare la più nuova opera d'arte come fosse il biglietto per un concerto di Madonna»17-30.

Una nuova professione, quella del «consulente d'arte», saltò fuori per aiutare il crescente numero di collezionisti e di società (adesso erano oltre un migliaio quelle che avevano significative collezioni) che volevano investire in arte. Alcuni, come Jeffrey Deitch che nel 1979 fondò l'Art Advisory Service della Citibank, si affiliarono a istituzioni finanziarie. A inizio anni Ottanta le banche iniziarono ad accettare l'arte come garanzia in cambio di prestiti. «Se uno possiede una collezione d'arte del valore di dieci milioni di dollari, di solito gli prestiamo 5mila dollari»17-31, disse Deitch al «Wall Street Journal».

Intanto la macchina messa in moto dall'asta degli Scull aveva preso velocità. Le case d'aste e le gallerie fecero presto ad accorgersi che quello dell'arte contemporanea americana era diventato un vero mercato. I lavori degli artisti «emergenti» ora venivano messi all'asta, e per la prima volta le case d'aste iniziarono a competere direttamente con i galleristi. Questa giovane e ambiziosa stirpe in crescita non si fermava davanti a nulla nel suo aggressivo imporre sul mercato le sue nuove scoperte, indipendentemente dal fatto che si trattasse di David Salle, Eric Fischl, Julian Schnabel, Robert Longo, Keith Haring o Jean-Michel. Gli artisti stessi, come molti dei loro corrispettivi nel mondo della finanza o del mercato immobiliare, avevano degli obiettivi dichiarati: a differenza dei loro progenitori astratto-espressionisti, si dichiaravano arrampicatori ossessionati da fama e fortuna, tanto quanto da forma e contenuto.

I loro lavori prodotti in fretta avevano un nuovo avido pubblico. Il brivido della caccia, un qualcosa che fino ad allora avevano conosciuto solo i ricchi dal sangue blu, divenne sempre più lo sport di una generazione di collezionisti nouveau riche. «La caccia e la cattura di una grande opera d'arte è una delle cose più eccitanti della vita: tragica, emozionante e appagante come una storia d'amore»17-32, dichiarò l'allora direttore del Metropolitan Museum, Thomas Hoving.

L'amore per l'arte sembrò estendersi anche alle masse. Nel 1983 quattro milioni e mezzo di persone visitarono il Metropolitan Museum, circa in quaranta milioni visitarono in un anno i musei d'arte di tutta l'America. Accendendo il desiderio delle masse, i media videro la sempre più crescente bolla dell'arte come una eccellente fonte di notizie. Scrisse Hughes su «Time» nel giugno del 1985:

Il nuovo pubblico di massa dell'arte è nato sulla base di distorte leggende di eroico modernismo: il mito dell'artista come demiurgo, da Vincent van Gogh a Jackson Pollock. Le sue aspettative sono state alimentate da vent'anni di strombazzare quanto appagante sia investire nell'arte. Anche lui vuole i suoi eroi. Ma li vuole più simili agli eroi della Tv, feticizzati, tanti e rassicuranti. Se Pollock fosse John Wayne, i corrispettivi di Haring e Basquiat sarebbero i due come si chiamano di Miami Vice […]17-33.

Se l'arte come sport con un suo pubblico era in ascesa, lo era anche un fenomeno relativamente nuovo: la rampante speculazione nell'arte. Anche se l'investimento artistico a scopo di lucro non era un concetto nuovo (la celebre guida in materia di Richard Rush, Art as an Investment17-34, venne pubblicata nel 1961), gli anni Ottanta portarono i profitti ad altezze vertiginose. L'Espressionismo Astratto generò la figura della star dell'arte americana, la Pop Art inaugurò tecniche di vendita aggressiva, il Neoespressionismo fuse le due cose insieme. «Quando nacque il Neoespressionismo», disse Martha Baer di Christie's al «Wall Street Journal», «la gente si eccitò perché in un anno il valore di un artista poteva raddoppiare o triplicare»17-35.

«Non solo ci sono più persone che collezionano», disse Mary Boone, «ma ci sono più persone che collezionano per le ragioni sbagliate, come se questo fosse il modello più nuovo per fare soldi in fretta. Comprano arte come biglietti della lotteria»17-36.

L'iperinflazione creò anche un prospero mercato di seconda mano – o di rivendita – fatto di gente smaniosa di incassare su dei lavori che non facevano altro che passare di mano in mano. Larry Gagosian eccelleva in questo gioco, e il suo attuale successo lo si deve alla provata abilità nel far circolare arte di lusso, chiudendo spesso l'accordo con non più di un fax inviato al momento giusto o una diapositiva. Dice il gallerista Andrew Temer:

Come gallerista negli anni Ottanta dovevi soddisfare quella che sembrava essere un'insaziabile domanda. Il telefono squillava in continuazione, mattina, pomeriggio e sera. Era come il Selvaggio West. Potevo comprare un quadro al mattino e nel pomeriggio ricevere un'offerta da un altro Paese che era tre volte quanto avevo pagato poche ore prima. Ecco quant'era malato. Molti galleristi erano come agenti di borsa, e non c'era differenza tra collezionisti e galleristi. Da un certo punto di vista ogni collezionista era un gallerista17-37.

Dice il veterano del mondo dei galleristi Ivan Karp:

Diventò una parentesi di totale isteria che stravolse tutto lo scenario del mondo dell'arte. La gente che comprava non sapeva riconoscere cosa avesse valore. Comprava e basta. Comprava quello di cui aveva letto e lo pagava cifre scandalose. Schnabel era l'unico nome che alcuni conoscevano. Era stato detto loro che se compravano un quadro per cinquemila dollari, dopo un anno e mezzo sarebbe valso cinquantamila dollari, e in certi casi andò così17-38.

(Invece i prezzi all'asta dei quadri di Basquiat salirono del cinquecento per cento tra il 1982 e il 1984, anno in cui Christie's vendette la sua prima opera per 20.900 dollari)17-39.

L'influsso del denaro giapponese – soprattutto dopo l'International Plaza Agreement del 1985 che rivalutò lo yen aumentandone, da lì al 1987, il valore quasi del cento per cento rispetto al dollaro – alzò ancor di più la posta in gioco17-40. «I prezzi salivano di settimana in settimana», dice il curatore Klaus Kertess che a fine anni Settanta aveva fondato la Bykert Gallery. «Un gran bel numero di giapponesi che non avevano uno spiccato senso del valore delle opere d'arte pagò dei prezzi scandalosi, a volte dieci volte tanto il valore reale»17-41. Quando Christie's mise all'asta I girasoli di van Gogh, nel 1987, furono un compratore giapponese, Yasuda Fire, e la Marine Insurance a comprare il quadro per 39,9 milioni di dollari: una cifra tre volte più elevata dell'originario record mondiale17-42.

Le case d'aste svolgevano un ruolo fondamentale nell'inflazione istantanea. Dice Feigen:

Erano le case d'aste a stabilire i prezzi. Si comportavano come megafoni nel mercato dell'arte. Noi galleristi eravamo costretti a star loro dietro. Diventammo beni usa e getta. Si aveva l'impressione che negli anni Ottanta il mercato dell'arte si fosse trasformato in un mercato finanziario. Sotheby's si vide trasformata in un'organizzazione di servizi finanziari, e l'arte divenne uno strumento finanziario17-43.

Nel 1983 il magnate dei centri commerciali A. Alfred Taubman rilevò Sotheby's e cambiò definitivamente le regole del gioco. Invece di vendere ai galleristi, Sotheby's li tagliò fuori dal giro rivolgendosi direttamente al crescente pubblico di compratori d'arte. A un certo punto Taubman disse al «Wall Street Journal»: «Vendere arte ha molto in comune con il vendere birra alla spina. La gente non ha bisogno della birra alla spina così come non ha bisogno di comprare quadri. Siamo noi a dar loro la sensazione che la cosa sarà un'esperienza che li renderà felici»17-44.

Taubman istituì anche nuove controverse pratiche che trasformarono il mettere l'arte all'asta in un'impresa lucrativa per tutte le parti in causa. «Prese quella che da molti era considerata un'istituzione che intimoriva, e la trasformò in una sorta di vendita al dettaglio», dice Temer, «in cui la gente comprava azioni e cercava di ricavarne qualcosa»17-45. Per tutelare i venditori Sotheby's dava ai proprietari una garanzia di vendita dell'opera. Se non veniva venduta, il proprietario veniva comunque pagato per la cifra garantita. Il che voleva dire che potenzialmente non c'era alcun rischio nelle compravendite d'arte, perché si guadagnava anche se l'opera non veniva rivenduta, e anche in questo caso il valore comunque saliva. Per tutelare i compratori, le case d'aste in effetti cominciarono a comportarsi come banche, prestando soldi ai potenziali offerenti. E così andava bene per tutti. Come spiegò Hughes nell'articolo di copertina di «Time» del novembre del 1989:

Il sistema dei prestiti, dal punto di vista di chi mette all'asta, è doppiamente bello. Inflaziona i prezzi indipendentemente dal fatto che chi abbia preso i soldi in prestito vinca o meno il quadro: come uno speculatore con azioni del credito immobiliare, le fa salire. Il prefinanziamento garantito dalle case d'aste crea un pavimento artificiale sul quale il gallerista che stabilisce un prezzo costruisce un soffitto. E poi, se chi ha avuto il prestito non riesce ad aggiudicarsi l'opera, chi ha fatto il prestito lo riscatta, cancella il debito in cambio del pagamento delle tasse, e può rivendersi l'opera al suo nuovo prezzo inflazionato17-46.

Il sistema dei prestiti ebbe il suo momento di gloria nel 1987, quando dalla vendita all'asta di un'opera venne raggiunta una nuova cifra record per il mondo dell'arte: 53,9 milioni di dollari per gli Iris di Vincent van Gogh. A comprare il quadro fu Alan Bon, che prese in prestito più della metà della cifra – 27 milioni di dollari – da Sotheby's17-47.

Queste pratiche aiutarono la trasformazione delle case d'aste un tempo signorili nell'equivalente dei casinò di Donald Trump ad Atlantic City. Le vendite serali diventarono importanti eventi sociali, dove ricchi collezionisti si dilettavano nell'ostentare i loro trofei: le mogli. Scrisse John Russell del «New York Times»:

I posteri probabilmente si stupiranno di quanto, nel maggio del 1989, [le case d'aste] avessero imitato sale da gioco, concorsi di bellezza e surrogati di mercati all'ingrosso, con un che di arena da corrida, ring, combattimento di galli, combattimento di cani e lotta libera. Era come se l'inconscio collettivo del mondo recentemente arricchitosi fosse uscito allo scoperto e anche il minimo istinto di avidità, cupidigia e ostentazione venisse lasciato in libertà17-48.

Il collezionista Asher Edelman fu ancora più schietto: «L'ambiente delle aste è un porcile. La gente viene alle aste per ostentare quante ricca e importante. Trovo sia meraviglioso. Crea una gran bella forma di patronato. E così do il benvenuto ai porci nel porcile»17-49.

Se la vendita degli Scull del 1973 presagiva il boom dell'arte degli anni Ottanta, la vendita di uno Schnabel di dieci anni dopo gli diede il via. C'era il gesto senza precedenti del mettere all'asta da Sotheby's Parke-Bernet un quadro che aveva solo quattro anni. C'era la gallerista di Schnabel, la celebre Mary Boone. C'era il quadro, un esempio di Neo-espressionismo da manuale realizzato dalla prima vera star dell'arte degli anni Ottanta: Julian Schnabel. E c'era il prezzo inflazionato di quasi centomila dollari, già frutto evidente di una montatura. «"Sfuggito di mano" è la frase sentita con sempre più frequenza mentre i prezzi delle opere d'arte vendute dai galleristi o alle aste vanno su, su, sempre più su»17-50, scrisse Grace Glueck un mese dopo la vendita dello Schnabel che si svolse in una settimana di aste in entrambe le case raggiungendo la cifra record di 67 milioni di dollari. Disse Martha Baer di Christie's:

Per noi fu un periodo frustrante. Ci rendevamo conto quotidianamente che era al di fuori di ogni controllo e che aveva un che di sgradevole. Le opere d'arte ci venivano letteralmente lanciate perché le vendessimo. A stento riuscivamo ad alzarci dal banco17-51.

E ad essere richiesti erano soprattutto gli scarti dei nuovi artisti. Lucy Mitchell-Inness di Sotheby's raccontò al «New Art Examiner»:

L'ottanta per cento delle telefonate che ricevevo era per le opere di giovani artisti: Schnabel, Basquiat, Salle, ecc. Molti dei lavori non sarebbero nemmeno dovuti uscire dagli studi. Non erano terminati. I galleristi erano avidi e indisciplinati in merito, e gli artisti erano semplicemente avidi tanto quanto i galleristi17-52.

Dice Richard Feigen:

Non andò a vantaggio di nessuno l'avere artisti come Basquiat i cui lavori venduti dai dieci ai trentamila dollari adesso venivano rivenduti per prezzi a sei zeri. Quanto accadde a lui non avrebbe potuto essere così rapido in un'altra era. Richard Bellamy o Leo Castelli avrebbero richiesto una parte consistente delle sue opere prima di farlo diventare una star. Basquiat finì nella lista degli artisti più quotati e fu la domanda a renderlo famoso. È come prendere un bambino di sei anni che è un prodigio al pianoforte e metterlo sul palco della Carnegie Hall, avviando la sua carriera così presto da bruciarlo17-53.

Ma la pacchia non sarebbe durata a lungo: come tutta l'economia anni Ottanta, che crollò il Lunedì Nero dell'ottobre del 1987, il mercato dell'arte si preparava al tracollo.

I sicofanti di Basquiat erano diventati un salasso costante, e l'artista spesso si andava a rifugiare nelle suite di vari alberghi. La Lhotsky ricorda una notte che passò al Ritz Carlton all'inizio del 1983. Basquiat le aveva parlato andando via da un party organizzato per il film The Loveless di Kathryn Bigelow, una storia di motociclisti in cui Tina Lhotsky aveva una parte. Le aveva dato appuntamento nell'atrio dell'albergo, passando al tassista uno di quei suoi biglietti da cinquanta dollari che teneva infilati in tasca. Arrivati di sopra, nella suite, si era subito spogliato e aveva spinto la Lhotsky verso il letto. «Fu una cosa animalesca. Come i castori che saltellano per il bosco», racconta lei, «a quel punto Jean-Michel fu una sequenza di eccitazione, azione rapida, immediata gratificazione, iperenergia, risultati»17-54. La Lhotsky vide dal letto che Basquiat cominciò a sfogliare la vasta schiera di libri d'arte che aveva sparso nello suite: Picasso, Cy Twombly, Michelangelo e da Vinci. «Stava disegnando una tempesta e studiava i libri. Mi disse che stava rubando idee ai Maestri, perché come altro pretendi di imparare qualcosa. Mi sembrò che prendesse soprattutto dal libro di Picasso»17-55, alla Lhotsky piaceva scoprire i «segreti commerciali» di Basquiat. Venne loro fame e Basquiat ordinò costolette da un take-away. Ricorda la Lhotsky:

Arrivarono in una gigantesca scatola di cartone, e lui sembrava stranissimo mentre le rosicchiava sul letto. Tenne le costolette al caldo mettendole sul termosifone. Erano buffissime, piazzate lì in questa suite d'albergo17-56.

La Lhotsky dice di essere stata picchiata da Basquiat, quantomeno in un'occasione. E, come la Monforton e molte altre delle sue amanti, scoprì che le aveva passato la gonorrea. Lui le diede i soldi per curarsi:

La cosa che più mi ricordo di Jean-Michel è quanto fosse difficile per lui gestire tutta la faccenda del passare dalla strada alla celebrità, e poi il fatto che tutti gli stessero addosso come sanguisughe. Era una cosa che lo faceva dare di matto. E non riusciva a capirne il senso. Jean-Michel era stato talmente maltrattato che ripeté lo schema, e cominciò a maltrattare. Ma di contro era così carismatico. Me lo ricordo con quelle sue tasche sempre piene di soldi accartocciati. Pagava sempre per tutti perché si sentiva in colpa17-57.

Quell'aprile Basquiat fece una personale che, sebbene piccola, si dimostrò a modo suo un punto di svolta per il giovane artista. Fu un evento iperselettivo organizzato da Paige Powell, direttrice pubblicitaria della rivista «Interview», con cui Basquiat aveva avuto di recente una storia. La Powell aveva deciso di diventare più che la semplice amante di Basquiat. Stava cercando di gestire la carriera del giovane artista, con pari difficoltà da parte di entrambi. La Powell è stata una di quelle poche persone nella vita di Basquiat ad avere avuto il coraggio di parlare al padre della dipendenza da eroina di Jean-Michel, cosa che Basquiat non le aveva mai perdonato. Ma adesso sarebbe stata importante nel fare da tramite tra Basquiat e Andy Warhol. Fu grazie al suo rapporto con Paige Powell che Basquiat finalmente legò con il suo mentore. In un anno sarebbe diventato il collaboratore artistico di Warhol, e nell'agosto del 1983 si sarebbe trasferito nel loft di Great Jones Street di proprietà di Warhol, dove avrebbe abitato per il resto della sua vita.

La Powell aveva conosciuto Basquiat nel 1982, un giorno in cui Jay Shriver, un assistente della Factory con il quale usciva, la portò nello studio di Crosby Street. Longilinea, con la sua faccia un po' lentigginosa, cento per cento americana e l'aria perbene, Paige Powell aveva un debole per le persone estreme, con grande disperazione degli ultraconservatori genitori. Racconta lei mortificata: «Mia mamma fa parte di tutti quei club di bridge e una volta andò a un party, e uno dei suoi migliori amici le disse: "Oh, ci dispiace così tanto che tua figlia stia con quel drogato nero"»17-58. La Powell rimase folgorata all'istante da Basquiat per quel suo mix di spontaneità e stravaganza. Ricorda:

Era estate quando cominciai a uscire con lui. Faceva caldissimo e lui venne a bussare da me con addosso un abito di lana e una cravatta a farfalla. Una volta andammo al cinema, e lui tornò con otto diversi coni gelato, e disse: «È per farti scegliere». Jean-Michel aveva così tanto stile. Ogni due settimane cambiava taglio di capelli. A volte sembrava una di quelle piante decorative. Era iperaffascinante, se lo voleva era in grado di conquistare praticamente chiunque. Emanava un'energia fortemente sessuale e creativa. Era davvero straordinario. Sono sinceramente convinta che fosse un genio17-59.

La Powell, che a un certo punto disse di avere preso realmente in considerazione l'idea di sposare Andy Warhol e adottare un bambino insieme a lui, non perse tempo nel cercare di coltivare l'esotico giovane artista. Disse ad Andy che Basquiat aveva bisogno di aiuto, ma l'osservazione che Warhol fece sulla situazione di Basquiat fu: «Be', perbacco, lui vuole solo diventare famoso». Dice la Powell: «Andy gli sfuggiva perché aveva paura»17-60.

Aveva paura anche degli amici di Basquiat. Una volta la Powell portò uno degli amici graffitisti di Basquiat, A-1, alla Factory. Lei stessa racconta: «Andy diede completamente di matto. Disse: "Paige, non portare mai questi tizi nel mio studio perché si metterebbero a spruzzare su tutti i miei quadri". Questo per dire quanto fosse paranoico»17-61. E così la Powell si prese la responsabilità della carriera dell'artista, e organizzò una piccola mostra dei suoi lavori nel suo appartamento sull'Ottantunesima Ovest:

Jean-Michel aveva mandato una mini-troupe per fare le riprese. Aveva invitato gente tipo Julian e Francesco Clemente, e tutti quegli altri artisti. Avevo fatto stampare gli inviti da Tiffany. Pensavo fosse una grande idea rispettare tutte le formalità. In realtà A-1 voleva esporre le sue cose, e Jean-Michel insistette perché ci fosse anche Rammellzee. E c'erano Morton Neumann e tutti quei grossi collezionisti, tutta gente che era interessata ai lavori di A-1 ma che non sarebbe mai andata nel Bronx per vederli. Fu molto divertente17-62.

La Powell vendette un quadro a Neumann. Anche Warhol comprò un quadro che si chiamava Famous17-63. «E poi iniziai a vendere tutti i suoi lavori, così continuò a darmene degli altri. Faceva questi grandi trittici»17-64.

Basquiat si accampò nel lussuoso appartamento della Powell per un paio di mesi. «Lo trasformò in studio. Dipingeva tutto il tempo. C'erano disegni e vernice sul pavimento e alle pareti. Lavorava ininterrottamente»17-65. Una notte Basquiat fece fare alla Powell un tour dei luoghi della sua infanzia:

Mi portò a fare il giro di tutte le scuole che aveva frequentato. Una era la St. Ann's. Erano tipo le cinque di mattina o una cosa del genere, parcheggiammo la macchina e poi andammo a casa sua e poi al White Castle. Andammo nel posto dove suo padre aveva un negozio di computer [sic]. E andammo a vedere le case di alcuni dei suoi amici di quand'era bambino, una cosa un po' da matti17-66.

Stephen Torton, momentaneamente richiamato dopo il suo recente licenziamento, costruì i telai per la mostra:

Facevo tipo quindici o venti telai al giorno, tutti quanti a mano. Mi piaceva pure l'idea di essere lo schiavo bianco di un artista nero. I quadri con i cardini furono una mia idea. Era l'unico modo per trasportarli in ascensore. A lui piacevano le tele grandi, così iniziai a unirle tra loro con dei cardini. Riuscivo a mettere insieme cinque quadri alti sei metri, uno dentro l'altro17-67.

La Powell mise in vendita i quadri piccoli a un prezzo tra i duemila e i tremila dollari, e i trittici grandi tra i seimila e gli ottomila: «Per un po' vendevo qualunque cosa. Galleristi e collezionisti chiamavano in continuazione. Lo cercavano. Critici d'arte, gente che voleva parlargli. Una cosa incontenibile. Lui cercava sempre di sottrarsi in modo da poter mantenere la sua privacy»17-68. A detta sua, che all'epoca continuava a frequentare Shriver, Warhol fece del suo meglio per scoraggiare quella relazione tifando invece per Jean-Michel. «Jean-Michel voleva sul serio avere una relazione con me, e io non volevo averci niente a che fare per via delle droghe. Ma Andy, in quel suo malato modo di fare, cercava di esasperare Jay perché non sopportava l'idea che il suo assistente principale uscisse con me»17-69, racconta la Powell. Scrisse Warhol nei suoi Diari il 18 maggio del 1983:

Oh, e Paige è sconvolta – Jean-Michel Basquiat è indiscutibilmente un eroinomane – e lei piangeva e mi pregava di fare qualcosa, ma che si può fare? Ha un buco nel naso e non poteva più usare coca, ma evidentemente voleva comunque continuare a drogarsi con qualcosa, suppongo voglia essere l'artista più giovane ad andarsene. Paige gli ha fatto fare una grande mostra uptown il mese scorso ed è lei la ragione per cui l'abbiamo visto in giro in ufficio – fra loro c'è qualcosa17-70.

La Powell poteva pure essere a modo suo ingenua, ma non era del tutto inconsapevole: capì in fretta che, tra le altre cose, Basquiat la vedeva come un buon tramite per arrivare al suo capo. Racconta lei:

Fece una mostra con me perché pensava che Andy sarebbe venuto a vederla. Penso che iniziò a usarmi per avvicinarsi a lui. Quando Andy venne a sapere che avrei fatto questa mostra, diventai una sorta di candela d'accensione tra i due. Feci da messaggero. Jean-Michel mi dava dei regalini per Andy, e Andy ricambiava con qualcos'altro. E così diventai il tramite della loro amicizia17-71.

Basquiat iniziò ad accompagnare il duo nelle sue notti brave in città. La Powell era talmente contenta di vedere Warhol prendersi cura del suo amante che rimase del tutto all'oscuro di quanto succedeva sotto gli occhi di tutti. «Di colpo fu come se Andy se lo fosse portato via»17-72, raccontò subito dopo la morte di Basquiat, in un'intervista fatta nel suo appartamento di Manhattan, con i ritratti dei due artisti morti appesi sul letto:

Andy lo sedusse, ma non fu una cosa sessuale. Andy si nutriva letteralmente dell'energia degli altri, soprattutto se erano spontanei e originali. Jean-Michel amava le grandi celebrità, ed è questa una delle ragioni per cui si attaccò a quel modo ad Andy. La prima cosa che fece fu organizzare una cena con Bianca Jagger e Calvin Klein, e il giorno dopo Jean-Michel corse nel mio ufficio a raccontarmelo. Per lui erano cose importanti. Ed è per questo che Andy riuscì per certi versi a conquistare Jean-Michel17-73.

La Powell stette a guardare Basquiat che finalmente realizzava il suo sogno: stabilire un legame con Andy Warhol.

Warhol, la Powell e Basquiat instaurarono un piacevole triangolo che durò mesi, con Warhol che si divertiva a mettere in scena il teatrino dell'innamorata-pazza Powell e del drogato e respingente Basquiat, raccontando poi allegramente tutti i frustranti dettagli del melodramma al suo Boswell, Pat Hackett. Basquiat viene menzionato ben 115 volte nei Diari di Warhol.