Riding with Death

Il 22 febbraio del 1987 Andy Warhol, che malvolentieri si era fatto ricoverare al New York Hospital per quella che sarebbe dovuta essere una normale operazione alla cistifellea, morì. E in un certo senso morì anche Basquiat. A detta di chi lo conosceva meglio, la morte di Warhol fu una cosa da cui non si riprese più.

«Vidi Jean piangere per Andy», dice Nancy Brody, «e non l'avevo mai visto piangere prima»25-1. Ecco quanto ricorda Fab 5 Freddy:

La morte di Andy mandò Jean totalmente in crisi. Piangeva un sacco e si mise una fascia nera al braccio. Lo incontrai al club pochi giorni dopo la morte di Andy, ed era veramente triste. Tipico da Jean-Michel. Era lì al Madame Rosa's che sembrava un idiota. Se ne stava al centro della pista a piangere in agonia, e con la testa appoggiata contro il muro. Non riusciva nemmeno a parlare. Gli misi un braccio intorno alle spalle e gli offrii da bere25-2.

Barbara Braathen racconta tutt'altra storia della visita che fece a Jean-Michel subito dopo la morte di Warhol. Era andata a Great Jones Street alle quattro del mattino, in parte perché c'erano diversi collezionisti in città che erano interessati ai lavori di Basquiat. «Fu così felice di vedermi. Gli dissi quello che gli dovevo dire e lui mi disse: "Possiamo parlarne, ma tu devi restare qui con me"»25-3. Basquiat mandò tutti gli altri via dal loft. Il giorno dopo la Braathen andò via giusto il tempo di cambiarsi i vestiti, e tornò con i collezionisti. Basquiat aveva lasciato un biglietto in cui diceva che sarebbe tornato in un quarto d'ora. I dipinti vennero scelti, e quando Basquiat tornò i collezionisti stavano andando in aeroporto. «Entrò di corsa dalla porta. Gli chiesi se li voleva conoscere, ma lui teneva la testa bassa. Corse in cucina, afferrò un grosso coltello e cercò di colpirsi da solo»25-4. La Braathen tentò di calmarlo. Una volta che riuscì a fargli mettere via il coltello, lui si accucciò in posizione fetale sul letto. La Braathen e la governante di Basquiat, Bianca, cercarono di consolarlo. «Fu una scena tristissima. Era lì che continuava a piangere e diceva: "Sono sempre solo. Sono sempre solo". Ed era una cosa che diceva da quando Andy era morto, l'unico pensiero che aveva era uccidersi». La Braathen rimase qualche giorno con Basquiat:

Il telefono era stato staccato, ed era come se fosse prigioniero. Mi ricordo che a un certo punto piangevamo tutti. La mattina del terzo giorno mi svegliai ed erano venute alcune persone che gli avevano portato dell'eroina. Gli chiesi che ci fosse di bello nell'eroina, e lui tirò fuori un libro di Burroughs e disse: «Qui, leggi questo libro»25-5.

Una volta la Braathen gli disse: «Intorno a noi abbiamo uno strato di atomi, e le droghe bucano quello strato. Devi fare molta attenzione o la tua anima ti scapperà via». «Il mio strato è spesso così», rispose Basquiat. Dice la Braathen: «Per tutta la sua vita, e sono sicura che cominciò quando era un bambino, sviluppò questo strato, questi strati, li rese spessi, per essere capace di affrontare quanto avrebbe visto»25-6. Strafatto di droghe, Basquiat riuscì a venire fuori da questo «esaurimento nervoso». Smise però di riconoscere la sua più recente gallerista, dicendole che lui non voleva vendere i quadri ai collezionisti, che finivano per rivelarsi a loro volta galleristi. «Mi disse: "Perché dovrei vender loro qualcosa?", e io gli risposi: "Per me". E lui: "E tu chi sei?". Fu una delle ultime volte che ci vedemmo»25-7.

Forse fu sintomo della discesa di status di Basquiat nel mondo dell'arte il fatto che non venne invitato al funerale di Warhol a Pittsburgh, cosa che prese come un'offesa personale, anche se poi, come migliaia di altre persone, presenziò alla cerimonia incredibilmente affollata del Primo aprile del 1987 alla Saint Patrick's Cathedral. Dice Jennifer Goode:

So che la prese malissimo questa storia di non essere stato invitato al funerale. Credo che a ferirlo fu il fatto che quelli di «Interview» non lo chiamarono né lo misero nella lista. Ma la cosa che più lo fece stare male, secondo quanto mi disse una volta, era l'idea che tutti i grandi artisti fossero morti. Alla cerimonia rimasi con Gerard e Nora perché non riuscii a trovare Jean-Michel. Ci saremmo dovuti incontrare lì25-8.

Come era sua abitudine, Basquiat arrivò in ritardo. Gerard e Nora gli avevano tenuto un posto, ma Basquiat, sconvolto dal dolore, rimase in piedi di lato. «Lo vidi alla cerimonia. Era assolutamente inavvicinabile», dice Michael Halsband. Subito dopo Jean-Michel allestì un suo santuario in memoria di Warhol nel palazzo di Park Avenue di Marcia May. Sarebbe rimasto fino a poco dopo la morte di Basquiat. «Dopo la morte di Andy Jean-Michel fece un disegno nell'ascensore», dice la May, «e scrisse: "A.W. lives – SAMO lives"25-9»25-10. Dice ancora la May:

Quando Andy morì fu come se anche la sua vita fosse finita. Mi disse che non aveva mai perso nessuno prima di allora. Fu allora che venne a trovarci e il portiere lo scambiò per il ragazzo delle consegne. In quel periodo lo vedemmo spesso. Era totalmente distrutto, totalmente. Rimase per un po' fuori combattimento. Era una specie di segno premonitore che anche per lui era arrivata la fine25-11.

La morte di Warhol mandò l'artista inutilmente nel panico sulla sua permanenza a Great Jones Street. Era convinto che la Warhol Foundation avesse in programma di sfrattarlo. «Dopo la morte di Andy diventò ancora più paranoico, e temeva che sarebbe stato cacciato via da Great Jones Street», dice Vincent Fremont della fondazione, «cercai di convincerlo che non era affatto così»25-12.

Anche se tutti gli sforzi di Warhol per tenere Basquiat lontano dalle droghe erano falliti, aveva avuto su di lui una certa influenza. Adesso, con nessuno che lo proteggesse, Basquiat si ritrovò in caduta libera. E precipitò in una costante orgia di droghe. Nel 1987 Nick Taylor passò un sacco di tempo a farsi insieme a Basquiat. Andava a Great Jones Street a «sniffare eroina», usando una cannuccia per sniffarla direttamente dalla stagnola. Taylor ricorda in particolare un grave incidente (a cui fa riferimento la Yablonsky nel suo libro) che racconta così:

Aveva questa droga veramente esotica che aveva preso da una spacciatrice che era stata beccata in Italia mentre portava la roba a New York in preservativi che trasportava infilandoseli dentro. Era eroina tibetana, una roba beige scuro. La sniffai e mi stonai per tre giorni. Ce n'era un intero un mucchio, tre o quattro pezzi, e ce la fumammo tutta in una volta. Fu irriducibile, non si diede tregua. Non aveva paura di andare in overdose. Era pazzo sul serio e capii che non aveva limiti, si sarebbe fatto di tutto quello che poteva. Ero spaventato per lui. Sapevo che gli sarebbe successo qualcosa di veramente tragico, e quella fu l'ultima volta che lo vidi25-13.

Arto Lindsay, uno dei più vecchi amici dell'artista, andò a trovarlo al loft alla fine del 1987:

Mi ricordo che prima che Jean-Michel morisse sentii delle registrazioni che aveva fatto. Erano delle cose stranissime, che avevano un'aria di solitudine, con un sacco di echi e di spazi. Della roba astratta, sembrava il suono del vento con del rumore che a tratti galleggiava intorno25-14.

Basquiat aveva tagliato i ponti con tutti. E nel frattempo si era complicato anche il suo rapporto con Bischofberger, soprattutto per via di una discussione sull'accordo che avevano per i compensi delle collaborazioni con Warhol. Dice la Goode:

Nel periodo che sono stata con Jean-Michel, io e Bruno eravamo amici. Bruno dava a Jean-Michel un mensile di venti, trenta o quarantamila dollari, soldi con cui viveva. E viaggiavamo insieme a lui, stavamo a casa sua in Svizzera. Fu dopo la morte di Andy: qualcuno chiamò dalla Factory dicendo che Bruno era lì a prendere i dipinti che Jean-Michel e Andy avevano fatto insieme. E Jean-Michel andò su tutte le furie, perché erano anche opere sue, e fu lì che ruppe con Bruno25-15.

Basquiat pensava che Bischofberger gli avrebbe dato dei soldi per le collaborazioni in forma di forfait, ma il gallerista svizzero cominciò a pagarlo a rate mensili. Basquiat disse ad Anthony Haden-Guest che non aveva nessun contratto scritto con Bischofberger. Ma si lamentò amaramente di essere stato imbrogliato. Si lamentò anche dell'accordo che aveva preso con Bischofberger. Disse nel corso dell'intervista:

C'erano una quarantina di quadri che avevo fatto insieme ad Andy, che erano immagazzinati lì quando morì, e Bischofberger li voleva così tanto che mi fece pressioni perché glieli vendessi. Quando poi ci ripensai capii che non avrei dovuto venderglieli. Ne tenni due [di quadri, nda]. Ma avrei potuto tenerne venti. Poi lui continuò a chiamarmi e a richiamarmi. Come se avesse una gran fretta, sai com'è. E anche lui per me fu come morto25-16.

Racconta Vincent Fremont:

Volevo solo accertarmi che Jean-Michel avesse i quadri perché questo era l'accordo. Be', li ebbe Bruno. Disse che li avrebbe pagati a Jean-Michel. Tutto quello che so è che quando Jean-Michel venne in ufficio s'imbatté in Ed Hayes [legale del patrimonio Warhol, nda], cosa che mi spaventò perché Ed è il Signor Durezza. Per cui portai Jean-Michel al piano di sopra e gli dissi di iniziare a scegliere la sua metà delle collaborazioni, ma aveva un grave problema con i denti, e disse che non poteva occuparsene. A quel punto fu Bruno a prendere il cinquanta per cento che spettava a Basquiat. Il problema con Jean-Michel è che puoi sempre sfruttarlo se hai soldi in contanti o in assegni e sei disposto a seminarne qua e là25-17.

Dice Jay Shriver:

Aveva bisogno di soldi. E tutti entravano con soldi in contanti e uscivano con un quadro. Avresti potuto svuotargli tutto quanto lo studio sventolandogli davanti un assegno di trecentomila dollari. Ma Jean-Michel si dipingeva sempre come una sorta di capro espiatorio. Quando invece sapeva benissimo come evitare di essere sfruttato. Era un pretesto che usava perché le cose andassero male. Gli piaceva essere sempre la vittima di una qualche trama disonesta25-18.

Bischofberger ha una sua spiegazione in merito al contratto fatto con Basquiat per comprare le collaborazioni. A detta di Bischofberger Fred Hughes lo chiamò chiedendogli di fare in modo che Basquiat andasse a prendersi la sua parte di quadri. Ma Basquiat, ricorda Bischofberger, «era abbastanza disturbato e fuori di testa per le droghe. Disse: "Non voglio andare in quel posto. Per favore, vai tu per me"»25-19. Bischofberger dice che prima di tutto si fece scrivere una delega dall'artista per scegliere il cinquanta per cento dei lavori. Quando Bischofberger andò alla Factory, lui e Hughes fecero testa o croce, e «Fred vinse ed ebbe la prima scelta sui quadri». Ma Bischofberger sapeva di conoscere le collaborazioni meglio di Hughes: «Penso di essermi preso le più interessanti»25-20.

Bischofberger tornò a Great Jones Street con una lista e le Polaroid dei quadri che aveva scelto, e chiese a Basquiat di venderglieli. L'artista, dice Bischofberger, fu d'accordo. Ma Basquiat raddoppiò la cifra offerta da Bischofberger, perché disse che il valore delle opere di Warhol era aumentato con la sua morte (Warhol avrebbe approvato). «Mise tutto per scritto in un grosso pezzo di carta, di quella che usava per disegnare», dice Bischofberger, che fece un pagamento anticipato di circa quarantamila dollari e garantì che avrebbe pagato il resto in rate mensili da diecimila dollari. «Le trattative furono assolutamente corrette», dice, aggiungendo che, dopo la morte di Basquiat, pagò agli eredi il resto della somma, diverse centinaia di migliaia di dollari25-21.

Anche se Basquiat disse ai suoi amici che non avrebbe più lavorato con Bischofberger, il gallerista afferma che aveva un accordo con la Galerie Maeght de Long per co-rappresentare Basquiat. A conferma di ciò sostiene di avergli dato uno stipendio tra i dieci e i quindicimila dollari, per sei o sette mesi, pur non ricevendo lavori in cambio. «Era una persona irrazionale. Gli interessava solo la droga», dice Bischofberger. «Il nostro contratto rimase sempre valido. Logicamente lui non lo rispettò affatto. Ma per me rimase sempre un mio artista»25-22.

L'ultimo gallerista di Basquiat fu Vrej Baghoomian, un espatriato iraniano che in passato aveva conosciuto l'artista tramite il cugino, Tony Shafrazi. Baghoomian era nato a Teheran. Il padre lavorò in Kuwait come ingegnere civile, fintanto che le compagnie petrolifere furono nazionalizzate. Quando aveva nove anni, la famiglia di Baghoomian lo mandò in un collegio americano in Libano. A quindici anni lui e il fratello maggiore vennero iscritti in un collegio inglese. I due ragazzi si abituarono presto ad essere picchiati da varie gang. «Diventammo dei tipi veramente duri», dice Baghoomian, «perché tutta la scuola era come un grande party dove tutti imparavano a giocare a poker e perdevano la verginità. Alla fine la scuola venne demolita»25-23. Baghoomian si trasferì nel Galles del Sud, e si laureò in Business Administration all'Università di Cardiff nel 1966. Ma la sua carriera nel campo degli affari venne momentaneamente accantonata, dice lui, per una sua ossessione per gli scacchi. Presto si rese conto che non aveva la stoffa per trasformarla nella sua attività principale, e iniziò a occuparsi di computer.

A inizio anni Settanta si trasferì in Iran, insegnò Inglese, lavorò per il Computer Department di Northtrop, e infine avviò una sua attività informatica, la Dec Punch. A detta di Baghoomian tra i suoi clienti c'erano Bell Helicopter, Lockheed, Drummond e l'Ambasciata degli Stati Uniti. In quel periodo Baghoomian sentiva regolarmente Tony Shafrazi, che si era appena laureato al Royal College of Art. «Mi sono sempre interessato all'arte, e visto che eravamo ottimi amici mi trasmise la sua passione. Più avanti, quando cominciai ad avere successo, iniziai anch'io a collezionare»25-24. Uno dei primi acquisti fu un Warhol. Quando nel 1978 scoppiò la rivoluzione in Iran, i contatti di Baghoomian con l'Esercito degli Stati Uniti lo misero nei guai, dice lui, e scappò dal Paese dopo che il Governo gli confiscò il passaporto. «Penso che cercassero di affibbiarmi l'etichetta di uomo della CIA. L'ultimo mese fu un inferno. Iniziai a vivere da clandestino»25-25. Baghoomian falsificò un nuovo passaporto modificando la B del cognome in P. Riapparve a Parigi, dove la B venne ripristinata. Da lì andò a Berlino, e infine, nel 1979, approdò a Los Angeles.

All'inizio cercò di avviare una società con interessi diversificati che includeva una galleria d'arte, una ditta di computer, un'attività di import-export e un'agenzia di assicurazioni. Ma i suoi finanziatori furono arrestati in Iran. «A quel punto Tony aprì una galleria cominciando ad allargare la propria attività, e aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse, qualcuno che fosse tagliato per gli affari»25-26, dice. Shafrazi si era appena trasferito nello spazio di Mercer Street. Le tattiche di sopravvivenza imparate da Baghoomian all'Università e più tardi durante la rivoluzione in Iran, gli tornarono utili nello spietato mondo dell'arte, dove divenne da subito una sorta di bandito. Nel 1983 Baghoomian si trasferì ad Astoria, nel Queens, e iniziò a lavorare come contabile per il cugino, ma parallelamente vendeva opere d'arte, e di tanto in tanto litigava con Tony per problemi di soldi.

Indipendentemente dal fatto che a quell'epoca facesse o meno cose illegali, Baghoomian ha sempre avuto una reputazione singolare. Con il suo modo di fare ammaliante e misterioso e il suo aspetto esotico, si era fatto presto etichettare come «venditore di tappeti» del mondo dell'arte. Sembrava appartenere a un mondo completamente diverso da quello dell'elegante cugino, Shafrazi, che divenne il beniamino dei media dopo avere vandalizzato Guernica e la cui galleria rappresentava, tra le tante star dell'arte dei primi anni Ottanta, Keith Haring e Kenny Scharf. Baghoomian non ebbe mai l'aria rispettabile, e fu sempre visto come potenziale e sospetto trafficante. (I suoi frequenti viaggi ad Atlantic City per giocare d'azzardo di certo non aiutarono la sua immagine). Dice:

Aiutavo Tony in tutto, che si trattasse di informatizzare la galleria o di costruire lo spazio di sotto. All'inizio mi sarei dovuto occupare dell'amministrazione. La sua galleria stava diventando un grosso affare che gli sfuggì di mano, perché Tony all'epoca non ne sapeva niente di amministrazione e di affari25-27.

L'ingresso di Baghoomian in questo mondo coincise con l'esplosione dell'arte nell'East Village. «Vidi questa straordinaria energia. Accadeva di tutto. Amavo quell'eccitazione. Conoscevo veramente tutti»25-28, continua. Dopo aver lasciato Shafrazi, Baghoomian dice che sfruttò le sue nuove conoscenze, e nel 1984 si insediò in un ufficio tutto suo in un elegante spazio al 594 di Broadway, vicino a Houston Street, insieme al suo staff. Il gallerista racconta:

Era proprio la porta accanto allo studio di Mark Kostabi. Avevo già seguito i miei affari al di fuori della galleria, comprando, vendendo e facendo da manager a James Brown, l'artista. Adesso trovai un sacco di altri artisti che non erano a proprio agio con le loro gallerie, che avevano bisogno di un manager, o di un agente, o di un tramite. Jean-Michel non era felice con Mary Boone25-29.

Sin dall'inizio Baghoomian si pose come una specie di ultima spiaggia. Aveva conosciuto Jean-Michel nel 1983, quando ancora lavorava fuori dallo scantinato di Shafrazi e Jean-Michel di tanto in tanto gli aveva venduto qualche quadro. «Mi faceva una tremenda impressione», dice Baghoomian del suo primo contatto con l'artista. «Gli piacevo perché non ero aggressivo e non cercavo di fregarlo. Sono sempre stato corretto con lui. E la mia carnagione è un po' scura», aggiunge enfatizzando. «C'era una buona energia tra noi»25-30. Ma fu solo nel 1987 che Baghoomian chiese seriamente a Basquiat di poterlo rappresentare. A quel tempo Basquiat era alle strette. Non era passato molto dalla morte di Warhol. La sua tossicodipendenza era aumentata e negli ultimi mesi non aveva dipinto niente. «Penso che il cambiamento più evidente che vidi in lui quando iniziai a rappresentarlo fu che era veramente depresso. Era giù. Tutto in lui e nel suo studio era tetro. Aveva un sacco di demoni personali», dice Baghoomian, maestro nel comprendere gli altri. Tra le altre cose le finanze personali di Basquiat erano nello scompiglio più totale. «Non pagava tasse da tre anni»25-31, dice Baghoomian.

Malgrado la sua iniziale resistenza, Baghoomian riuscì presto ad averla vinta. Basquiat poteva pure essere un tossico senza speranze, ma era ancora una star dell'arte, e in quanto tale rappresentava un'importante opportunità per Baghoomian, che non aveva ancora sfondato in quel mondo. «Jean-Michel cominciò a diventare un'ossessione per me», dice Baghoomian, «non lo definirei uno dei miei figli. Continuavo a considerarmi un suo fan, ma era una specie di lavoro a tempo pieno»25-32.

Altra gente avrebbe adoperato parole differenti per descrivere il rapporto di Baghoomian con l'artista, che a quel tempo era ai limiti dell'incapacità di intendere e di volere. Dicono Don e Mera Rubell:

Il suo degenerare fu uno shock. Il suo problema con la droga era diventato talmente grave che il lavoro ne risentiva. Le droghe ebbero la meglio, e con loro una sua tacita ostilità. È una scelta quella di avere a che fare con le droghe. Così come è una scelta quella di accettare una così triste metamorfosi. E nessun gallerista volle più avere a che fare con lui a quel punto. Vrej alimentò i bisogni di Jean-Michel25-33.

Circolano storie di Baghoomian che accompagnava Basquiat in macchina dagli spacciatori, che puliva dove vomitava, che lo seguiva in giro per assicurarsi che non andasse in overdose. Dice Baghoomian: «Aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui. Tutta quella gente, Annina, Bruno, gli dissero: "Devi andare in clinica e disintossicarti", ma poi lo mollarono. Io cercai di esserci, e non lo mollai»25-34. Baghoomian sostiene di non essersi accorto inizialmente dell'entità del problema di Basquiat:

Conoscevo Jean-Michel da cinque anni e tutti erano lì che mi dicevano che aveva questo problema con la droga e io rispondevo: «Ma di che cosa state parlando?». Perché io continuavo a chiedergli se si facesse tutte quelle droghe, e lui mi diceva che fumava solo erba. Era evidente che mi mentiva. Non lo scoprii finché non andammo a cena fuori all'Odeon, un anno prima che morisse. A quel tempo aveva più o meno accettato che gli facessi da agente. Era in affari con me, e così gli davo un sacco di soldi. Me ne chiedeva ogni giorno. Così gli dissi: «Stammi a sentire, io ti sto dando tot dollari al giorno, e anche se sei un tossico, è una cosa senza senso»25-35.

Basquiat prese per mano Baghoomian e lo portò fuori in strada. «Era imbarazzato. Disse: "Guarda, Vrej, per sei, sette anni sono stato un tossicodipendente. Mi sono fatto di una quantità di droghe che avrebbe ucciso chiunque. Ma mi sto disintossicando"»25-36. Baghoomian disse di essersi sentito in imbarazzo. «Che faccio adesso?», chiese all'artista. «Credo di esserti amico. Se non ti do i soldi tu mi scarichi. Se ti do i soldi tu te li spendi in droga. E così non so che fare». Basquiat, dice Baghoomian, promise che, non appena fosse tornato da due mostre che aveva già organizzato in Europa, sarebbe andato alle Hawaii a disintossicarsi. Il gallerista decise che era un dilemma con il quale avrebbe anche potuto convivere25-37.

Anche da moribondo Basquiat non aveva problemi con le donne. La sua compagna nell'ultimo anno di vita fu una giovane donna che si chiamava Kelle Inman, una bellezza eterea con il piercing al naso. L'aveva conosciuta una notte da Nell's, dove lavorava come cameriera, e lei gli aveva offerto il dessert. Anche se cominciò come un'avventura romantica, Basquiat a quel tempo non era in condizioni di fare sesso. Eppure il suo carisma era rimasto intatto, e ad agosto l'ingenua Inman, che sembrava una specie di bambina smarrita, andò a vivere nella vecchia stanza di Shenge. Lei, Baghoomian e Basquiat, ognuno outsider a modo suo, formarono una strana e disastrata famiglia.

È evidente che la Inman, che aveva appena compiuto vent'anni, non avesse idea della situazione in cui si stava imbarcando trasferendosi a Great Jones Street. Ricorda in lacrime durante un'intervista rilasciata una settimana dopo la morte di Basquiat:

Il primissimo giorno che lo conobbi gli chiesi se aveva problemi di droga, e lui mi disse: «Non è evidente?». E io: «E allora decidi se vuoi vivere o se vuoi morire. Non ci sono vie di mezzo. Sei vivo, ma sei morto». Quante volte ci siamo chiesti: possiamo sul serio prenderlo di forza e portarlo in una clinica? Era difficilissimo stargli vicino. Non si fidava di nessuno. La gente voleva sempre qualcosa da lui, voleva farsi con lui, voleva soldi. A quel tempo era una specie di funambolo, ma non credevo che sarebbe caduto. Un sacco di tempo fa mi disse che aveva intenzione di vivere fino a ottant'anni e che sarebbe tornato ad essere povero. L'unica volta in cui mi spaventai seriamente fu quando un giorno andai allo studio e lo trovai sconvolto per Andy25-38.

La Inman consultò anche un dermatologo che a un certo punto avrebbe dovuto curare Basquiat per il suo problema cronico alla pelle. «Mi disse: "Portalo qui con una scusa che così do un'occhiata alla pelle, e poi lentamente proviamo a ricoverarlo in una clinica"», racconta la Inman, «ma lui non volle nemmeno andare a farsi visitare per la pelle»25-39.

Basquiat si era rinchiuso nella sua stanza da letto dall'aria asfissiante: «Non dipingeva. Se ne stava al piano di sopra, sdraiato sul letto, a fare solo disegni su dei fogli di carta. Non voleva uscire, non voleva vedere nessuno. Ogni giorno gli chiedevo se era quello che aveva scelto per morire»25-40. Lui disse alla Inman che non aveva amici, e che gli artisti che hanno realmente qualcosa da dire non vivono a lungo. «Era ipersensibile e piangeva continuamente». La situazione si fece rapidamente intollerabile e più di una volta la Inman cercò di lasciarlo. Ma Baghoomian la convinse a restare: «Cercai di fermarla. Le dissi che aveva bisogno di qualcuno, e che io potevo stare lì solo venti ore al giorno. Lei non aveva nemmeno uno stipendio. Era solo una ragazza con un gran cuore. Alla fine era diventata una specie di famiglia»25-41. Trattare Basquiat come una sorta di figlio non era l'unica cosa che interessava Baghoomian. A quel tempo si considerava l'unico suo gallerista, e la cosa significava affari. Programmò una personale dell'artista per l'aprile del 1988 al Cable Building, così come due mostre in Europa, una a Parigi da Yvon Lambert e una a Düsseldorf da Hans Mayer. Chiamò anche Gerard Basquiat e gli parlò dei problemi di droga del figlio. «Lui si defilò. Ignorò la cosa. Disse: "Non gli dica nemmeno che mi ha chiamato". Immagino non riuscisse ad affrontare il problema»25-42. Per cui Baghoomian si rimise a fare da padre-gallerista: «Nel senso che molte volte mi sono ritrovato a dovergli fare da padre»25-43. Il che voleva dire continuare a dargli soldi, circa quattrocentomila dollari all'anno, la maggior parte dei quali finirono in droghe. E voleva dire anche cercare di rianimare la sua carriera al tramonto. Baghoomian andrebbe apprezzato per la sua tenacia. Al fine di rimettere al lavoro il suo pittore malato, assunse per lui un'ex-star dell'arte dell'East Village, Rick Prol, come assistente di studio. Dice Prol:

Andai a una delle prime inaugurazioni di Vrej al Cable Building, e chiacchierando con Jean-Michel gli dissi che mi stavo guardando in giro per trovare un lavoro per mantenermi. E lui mi rispose dicendomi che anche per lui era così. Ero sconvolto. Avrebbe dovuto fare una mostra da Maeght de Long, e disse che non aveva dipinto per tutta l'estate. La sua mostra al Cable Building aveva il suo scopo, ma aveva anche una sua imponenza25-44.

Non passò molto tempo che Prol ricevette una telefonata urgente da Baghoomian:

Mi disse che Jean-Michel aveva una mostra in arrivo, e mi chiese se volevo lavorare con lui. Mi disse: «Farebbe bene a entrambi». Stava insinuando che Jean-Michel aveva realmente bisogno di aiuto, ma che lavorare per lui avrebbe aiutato anche me. Ci stava andando giù pesante. Era lì che mi diceva che bel periodo che avrei passato, e mi parlava come se non fossi un pittore, come se fosse per me una grande occasione lavorare con Basquiat. Ma è un venditore, e la gente come lui se ne frega di avere a che fare con Kenny Scharf, con me, o con chiunque altro. Si preoccupano solo di chi hanno tra le mani e di che cosa gli può far fare soldi. Vrej è viscido25-45.

Prol era stato messo in guardia su Jean-Michel da un amico comune, il graffitista Daze. «Mi disse: "Stai lontano da Jean-Michel. Ti tirerà addosso soltanto merda"»25-46. Ma al di là dei secondi fini che avrebbe avuto il lavoro, Prol ne aveva bisogno e accettò la proposta. Ogni notte, racconta, Baghoomian si faceva vedere a Great Jones Street per supervisionare la situazione. Dopo che andava via Basquiat lo prendeva in giro:

Mi pagava quindici dollari all'ora. Di solito arrivavo alle sette del pomeriggio e lo svegliavo. Poi di fondo dovevo starmene seduto lì a non fare niente, per il novantanove per cento del tempo si trattava di aspettare che Jean-Michel si svegliasse. E Vrej stava tutto il tempo a spingermi a farlo alzare e lavorare. Quando lo dissi a Jean-Michel s'incazzò e Vrej mi disse che non avrei dovuto dirglielo25-47.

Prol lavorò con Basquiat per quasi sei mesi, aiutandolo a dipingere i quadri per la sua ultima mostra:

Non era molto loquace. Sembrava in una dimensione tutta sua. Non lo vidi mai del tutto fuori per la droga o stordito. Era questa la cosa assurda. I quadri erano semplicissimi, ma mi diceva esattamente cos'è che dovevo fare. Mi lasciò dipingere alcuni pezzi per come voleva lui, ed era sempre ipercontrollato. L'idea era di dipingere a mano tutto quanto. Ma c'erano delle zone piatte che andavano semplicemente riempite. È come quando de Kooning dice: «Dammi una bella pennellata qui»25-48.

Basquiat, dice Prol, non perse mai il controllo dei suoi lavori. Era abbastanza insistente su cosa Prol poteva fare su ogni tela. A detta di Prol, il resto del lavoro da assistente di Jean-Michel consisteva nel dargli sostegno psicologico. «Aveva bisogno di appoggio emotivo, per esempio dovevo spronarlo ad accendere la sua competitività, o a ostentarla in mia presenza, o a fare del suo meglio»25-49. Prol lo aiutò a fare più o meno sei tele:

Dovevano essere tutte abbastanza grandi. Io dipingevo lo sfondo, e il giorno dopo andavo lì e lui c'aveva disegnato sopra e mi chiedeva di riempire le parti da colorare, che erano pochissime. Avevo la sensazione che rispetto ai primi lavori questi fossero veramente tirati via e che non c'avesse lavorato un granché. Ma nonostante questo avevano una loro semplicità e immediatezza che mi piaceva25-50.

Prol fece lo sfondo per Riding with Death25-51 poi vide l'artista dipingere la figura scheletrica su un altrettanto scheletrico cavallo: «Aveva davanti un libro di da Vinci aperto. Ma il disegno che fece era completamente diverso da quello. Lo dipinsi di rosso e lui mi disse: «No, no, no, dipingilo con questo colore». Mi fece fermare e disegnò un altro po'25-52. Prol era colpito dal fatto che, a dispetto dell'evidente declino, Basquiat avesse ancora residui di quella che un tempo era stata la sua notevole energia:

Era come se si immergesse nel quadro che stava dipingendo. Poi vedeva una porta o qualcos'altro e ci disegnava sopra un topo. A quel punto se ne andava, e il tutto aveva questa gran qualità di sembrare spontaneo. Iniziai a conoscere tutti i materiali di cui si circondava. Aveva Krazy Kat e altri libri del genere. E usava anche i suoi primi lavori come materiale. Immagini che ritornavano o riapparivano infinite volte25-53.

Basquiat chiese a Prol cosa pensasse dei pittori neo-Geo che a quel tempo erano sulla cresta dell'onda. Quando Prol disse che alcune cose gli piacevano, Basquiat lo chiamò traditore. Jean-Michel era particolarmente infastidito dal successo di Peter Halley, Jeff Koons e Meyer Vaisman, che i media avevano consacrato nuove star dell'arte. Prol osservava come l'artista si stordisse continuamente:

C'era gente che continuava a venire. C'era un tipo dall'aria di bullo che gli procurava la droga, e insieme andavano al piano di sopra. Vrej non poteva non sapere quanti soldi spendeva in droghe. Jean-Michel passava comunque tutto il tempo a inebriarsi25-54.

La mostra che aprì nell'aprile del 1988 al Cable Building fu l'ultima di Jean-Michel a New York fatta fintanto che era vivo. Chi conosceva l'artista rimase turbato dalle condizioni in cui era. La faccia era completamente ricoperta di ferite. «All'inaugurazione di Vrej aveva perso metà dei denti»25-55, dice Don Rubell. Diego Cortez ricorda che Basquiat di colpo lo prese da parte e cercò di dargli delle spiegazioni:

Jean-Michel fece in modo di incrociarmi e mi disse: «Andiamo giù a bere qualcosa». E così lasciammo la mostra. Beveva Margarita e aveva un aspetto orribile. Parlava come se tutto fosse andato a puttane e del fatto che odiava la sua vita, odiava tutto, e che io ero stato molto gentile, l'avevo aiutato e l'avevo apprezzato. Era veramente triste e faceva tenerezza. Fu l'ultima volta che lo vidi25-56.

Cortez non fu l'unica persona con cui Jean-Michel cercò di fare pace. Durante l'inaugurazione Basquiat fece un ultimo disperato tentativo di riconquistare Jennifer Goode:

Per una qualche ragione arrivò alla conclusione che dal momento che ero lì alla mostra sarei tornata con lui. E mi ricordo che mi prese una mano e non la voleva lasciare. Era proprio come un bambino, che saltava su e giù, e sarebbe stato bello se io fossi andata lì con quell'intenzione. Mi prese una paura tremenda all'idea di doverglielo dire. Mi portò giù all'ingresso e io gli dissi che sarebbe dovuto restare sopra, alla sua inaugurazione, ma lui mi rispose: «Fanculo la mostra». Disse: «Vuoi essere la mia ragazza?». E alla fine gli dissi: «No, non posso». E corsi via. E quella fu l'ultima sua mostra a cui andai25-57.

Dopo di che ci fu la cena di festeggiamento da Mr Chow's, proprio come ai vecchi tempi. Ma quei tempi erano visibilmente finiti.