Cosa ne è di un sogno rimandato?
Secca
come uva al sole?
o suppura come una piaga -
E poi spurga?
Puzza come carne andata a male?
O si copre di croste e di zucchero -
come un dolce sciropposo?
Forse semplicemente cede
come un carico pesante.
Oppure esplode?
LANGSTON HUGHES, Harlem [2]26-2
All'inizio del 1988 Basquiat fece una mostra alla Galerie Yvon Lambert a Parigi. All'inaugurazione conobbe un artista nero che si chiamava Outarra e che ebbe un ruolo rilevante negli ultimi giorni della sua vita. Faccia larga e modi gentili, Outarra viveva a Parigi con la sua fidanzata. Basquiat venne istantaneamente catturato da quest'africano che parlava francese, che veniva da un piccolo villaggio della Costa d'Avorio e la cui natura tranquilla era radicalmente diversa da quella dei graffitisti che conosceva a New York. Come era nel suo stile, decise di defilarsi all'istante per andare a vedere i lavori dell'artista. Insieme lasciarono la mostra e in limousine andarono allo studio di Outarra.
Tornati alla galleria la trovarono chiusa. Erano tutti al party dopo-inaugurazione. Il giorno seguente Basquiat, che non si ricordava dove abitasse Outarra, provò a rintracciarlo. Quando finalmente lo trovò, piombò nel suo studio come se avesse ritrovato un vecchio amico. «Facemmo le ore piccole a chiacchierare», dice Outarra, «parlavamo in francese. Mi disse che voleva comprare tutto quello che avevo in studio»26-3. Scoprirono una coincidenza che a quanto pare colpì molto Basquiat: Outarra veniva da Korhogo, il piccolo villaggio che due anni prima lui, Jennifer e Bischofberger avevano visitato durante il loro viaggio in Africa. Il giorno seguente Basquiat partì per Düsseldorf per la sua mostra alla Hans Mayer Gallery, e poi sarebbe andato ad Amsterdam. «Continuava a chiamarmi dicendomi di raggiungerlo»26-4, dice Outarra. Basquiat evidentemente aveva bisogno di compagnia lì ad Amsterdam. E dato che Outarra non poteva andarci, provò a organizzare un party di due giorni invitando, a detta di George Condo, «tutta Europa, qualcosa come tremila persone. Chiamò tutti quanti di persona. In realtà vennero solo in pochi, e lui li ricevette in pigiama»26-5.
Tornato a Parigi, Basquiat andò a una serie di mostre insieme a Outarra, una di Julian Schnabel, Tomb for Josef Beuys, mostra che seguiva la sua alla galleria di Lambert, e una di Cy Twombly. Basquiat fece un lavoro di piccole dimensioni per Schnabel: un portasigari dipinto con sopra il consiglio «Let's Squash It»26-6. Schnabel lo interpreta come un tentativo di Basquiat di recuperare il loro rapporto26-7.
Basquiat passò i mesi successivi a Parigi, alloggiato in un albergo al Marais, girando dappertutto in limousine. «Disegnava continuamente», dice Outarra, «e facevamo un sacco di discorsi esistenziali»26-8. Basquiat mandò pure delle diapositive di opere di Outarra a Baghoomian a New York. Ma il musicista Brian Kelly ebbe una diversa visione dell'ultimo soggiorno a Parigi di Basquiat. Kelly aiutava Schnabel ad allestire la mostra Tomb, e alloggiava nello stesso albergo di Basquiat. Il giorno in cui tornò da Amsterdam Basquiat bussò alla sua porta. Gli disse che era incazzato con il personale dell'albergo: le donne che rifacevano le camere, probabilmente spaventate dalle sue evidenti scorte di droghe, non volevano più rifare la sua. E il fattorino aveva guardato le sue nuove valige con evidente nervosismo26-9. Basquiat voleva mollare la stanza, che divideva con Kelle Inman. Scaricò la Inman, malgrado le sue innumerevoli suppliche, e portò una busta di droghe, cd, uno stereo portatile, blocchi da disegno, matite colorate e il suo grosso cappotto nella stanza di Brian Kelly, dove di fatto stava traslocando.
Ma non è che le sue abitudini piacessero a tutti. Vari amici passarono da lì, e vennero presi alla sprovvista dai frequenti viavai di Basquiat dal bagno chiaramente dovuti alla droga, e ancor di più dall'incredibile farmacia che aveva allestito sul copriletto di raso. «C'erano bustine trasparenti e pacchetti di stagnola pieni d'erba, hashish, eroina e cocaina», dice Kelly, «e anche se non era tantissima roba, non potevi non notarla»26-10. Basquiat sembrava infischiarsene del disagio altrui. Raccontò a Kelly dei suoi spacciatori ad Amsterdam, del fatto che fosse riuscito a beccare tutti «i posti giusti». Ma esaurì rapidamente tutte le riserve:
Nei tre giorni successivi prese tutte le droghe insieme. Era impressionante vedere come cambiasse in base alle droghe che prendeva, e anche con che velocità riuscisse a prenderne una dopo l'altra. Fumava erba e hashish insieme e mescolava insieme eroina e cocaina26-11.
Basquiat riscaldava la cocaina e l'eroina in un cucchiaio di succo di limone, usava come laccio emostatico una cravatta, e spiegava a Kelly le sfumature che comportava il mescolare varie droghe. Kelly era sbalordito dalla resistenza di Basquiat: quella massiccia quantità di droghe sembrava quasi non fargli effetto. Gli chiese se riusciva a controllare la sua dipendenza e lui si mise sulla difensiva. Kelly gli consigliò di provare a smettere, e Basquiat si arrabbiò. «Ma cosa scatta nella testa della gente per portarla a dire cose del genere? Che ne sanno loro? Lo so che tu lo dici perché ti sta a cuore, ma la maggior parte delle persone non ne sa un cazzo di niente»26-12. Kelly insistette. «E che succede se ne prendi troppa tutt'insieme?». Basquiat disse a Kelly che una volta era andato in overdose, e si era ripreso per miracolo. «So quello che faccio», disse, «ci sono già passato». Dice Kelly: «Parlava della morte e dell'eroina come se fossero la stessa cosa. Come se avesse una relazione con entrambe»26-13. A Kelly disse anche che aveva in programma di smettere di dipingere, che voleva diventare uno scrittore, un musicista o un cantante:
Da come la metteva sembrava che il mondo dell'arte avesse avvelenato la sua vita. Disse che non serve talento per farcela nel mondo dell'arte, e che trovava la pittura noiosissima. Non lo interessava più. A guardare distrattamente i suoi lavori, alcuni disegni che erano sui blocchi che teneva in camera e poi i quadri che erano sul retro della galleria di Yvon, ero d'accordo con lui. Il suo modo di dipingere era diventato routine, elencare parole e pezzi di parole, scegliere i colori, ma in effetti non gliene fregava più nulla, e non solo dell'arte. Non gliene fregava più nulla della maggior parte delle cose26-14.
Basquiat farneticava su diversi progetti per il futuro, tipo andare in Africa, alle Hawaii, trasferirsi a Nord dello Stato di New York. Sembrava cercasse disperatamente di trovare il modo di reinventarsi, di liberarsi non solo dalla sua dipendenza dalle droghe ma da tutto il suo stile di vita tormentato. Ma soprattutto sembrava sentirsi totalmente solo. L'anno dopo la morte di Andy, disse a Kelly, era stato orrendo. Andy gli mancava in modo intollerabile, e diceva che i suoi «anni migliori» erano stati quelli passati con lui. Continuava la sua litania del dolore tra una dose di eroina e l'altra, infilandosi l'ago nel collo o nella mano:
Mi sentivo complice nello stare là mentre lui continuava a drogarsi, ma poi di colpo tornava lucido. Me lo ricordo mentre si asciugava con la tovaglia gocce di sangue fresco che gli uscivano fuori dalla pelle. Rimaneva zitto per un sacco di tempo. Poi iniziava a parlare di diverse cose, sempre con una voce limpida e pacata26-15.
Basquiat disse a Kelly che Bischofberger gli doveva ancora un sacco di soldi per le Collaborations e lo stava pagando a rate mensili. «Ma che cosa crede? Che non ne capisco niente di soldi?». Parlava dell'eredità di Warhol, e del come si erano comportati con lui dopo la morte di Andy. Diceva che Andy gli aveva promesso di vendergli il loft di Great Jones Street, ma che adesso Fred Hughes stava cercando di sfrattarlo.
Si lamentava del modo in cui la gente lo aveva usato, delle ragazze che erano state con lui solo per i soldi. «Le ragazze non riescono a vedermi per quello che sono realmente», disse a Kelly, affascinato da questo celebre artista che sembrava avere tutto ma che si sentiva come non avesse nulla:
Non mi facevo problemi perché si bucava, ma trovavo incredibile vederlo mentre si palpava la pelle con le dita cercando una vena, e poi infilava dentro l'ago. Continuavo a pensare che bucandosi stesse solo cercando di mandare a puttane la sua vita. Quello che avevo davanti era un ragazzo con delle buone braccia e delle buone gambe, una bella faccia e bei capelli. Aveva tutto, e se ne stava seduto sul bordo del letto nel cuore della notte totalmente assorto in quell'ago che si stava infilando dentro il braccio26-16.
Al sorgere del sole Kelly vide Basquiat, appena fatto di cocaina, che si fissava allo specchio toccandosi compulsivamente le piaghe che aveva in faccia. Decisero di andare in galleria. Camminarono per le belle e zigzaganti vie del Marais, giù per la Rue Vieille du Temple, e Basquiat si fiondò dentro una pasticceria dove ordinò delle buste di éclairs, napoléons e croissants alle mandorle. Il pittore si divertiva. Camminava al centro della strada divorando i dolci, mentre le macchine suonavano i clacson e la gente lo fissava. «Guarda questo tizio nero con i suoi dreadlocks tesi in testa, ben vestito, che si ingozza di pasticcini, sporcandosi tutto e facendoli sgocciolare per strada». Quando finalmente arrivarono in galleria, si fece altra coca. «Anche Yvon era sconvolto», dice Kelly. Poco prima che ripartisse per New York, Kelly si fermò nella stanza di Basquiat:
Immagino che le voci sui suoi bagordi fossero circolate in fretta. La Tv era accesa ed era sveglio. La stanza era un bordello e c'erano posacenere pieni di canne mezze fumate, residui di cocaina e tutta roba del genere. C'erano dei vestiti bellissimi e altre cose che aveva comprato buttati come spazzatura. Feci prendere aria alla stanza, si moriva di caldo e odorava di chiuso26-17.
Pochi giorno dopo, quando Kelly andò lì per salutarlo, Basquiat era già partito. Era tornato ad Amsterdam per fare rifornimento di altre droghe.
Erano passati dieci anni da quando Basquiat s'era inventato SAMO, una religione che gettava fumo negli occhi dei fedeli, e in cui, a modo suo, l'ignoranza era beata. «Una volta a settimana facciamo un rito in cui il prete samoide ci mette una benda sugli occhi […]»26-18.
La tossicodipendenza – il fumo nei suoi occhi – lo teneva a distanza dalla verità sempre più dolorosa: il prezzo del successo era insostenibile. Ma nemmeno le droghe lo resero cieco davanti al fatto che, nella squallida realtà delle leggi di mercato, l'unica cosa interessante era il profitto. E più successo ottieni, meno la qualità della tua arte è realmente importante. Capì anche che il successo non poteva dargli l'amore che desiderava. Aveva perso Warhol e Jennifer. E in quell'ultimo anno comunicava a stento con suo padre. Basquiat cercava di anestetizzarsi con le droghe, ma non riusciva a rimuovere il fatto che quello straordinario successo che aveva sempre desiderato lo stava distruggendo.
Nell'aprile del 1988 Basquiat, Outarra e Kevin Bray, un giovane regista di videoclip che ultimamente aveva fatto amicizia con Jean-Michel, andarono a New Orleans per il Jazz Festival. Andarono in un negozio di articoli voodoo e comprarono degli amuleti. I tre giovani neri fecero pure la visita di rito al Mississippi, di cui Outarra racconta: «L'ultimo giorno Jean-Michel disse che aveva una sorpresa per me. E mi portò a vedere il Mississippi. Un gesto che era metafora di quello che ci accomunava, schiavi che ci viaggiano sopra arrivando dal delta»26-19.
Nel giugno del 1988 Basquiat fece il suo ultimo viaggio alle Hawaii, nel tentativo di disintossicarsi. Prima di partire chiamò Jennifer Goode e le chiese di andare con lui. La Goode rifiutò, ma Basquiat non voleva accettare la cosa. Dice la Goode:
Venne qui, e noi stavamo cenando. Non aveva un bell'aspetto, era distrutto, e gli dissi di nuovo che non potevo andare alle Hawaii con lui. Era una cosa che mi faceva stare male. Sarei voluta andare, ma stavo con un altro. Se Jean avesse accettato la cosa, sai, forse saremmo potuti partire tutti quanti. Ma non volle saperne26-20.
Dopo cena la Goode diede a Basquiat uno strappo a casa in furgone:
Iniziò a provarci con me. Iniziò a baciarmi. Gli dissi: «Jean-Michel, non posso». E così uscì dal furgone sbattendo lo sportello. Fu l'ultima volta che lo vidi. La notte che morì mi stava cercando. Lo faceva ogni volta che era arrabbiato o stava male. Gli dissi tutto quello che avevo da dirgli. C'eravamo detti tutto, e non ho rimorsi26-21.
A fine giugno Basquiat andò da solo alle Hawaii. Dalle telefonate che faceva a Kelle Inman sembrava entusiasta: aveva davvero in mente di mollare la pittura e di diventare uno scrittore. La Inman lo raggiunse qualche settimana dopo. Rimase sbigottita nello scoprire che anche se Basquiat aveva smesso di farsi di eroina, s'era messo a bere. Gli aveva mandato dei materiali per dipingere, ma non stava dipingendo. Passava le giornate a bere e ad ascoltare ininterrottamente le sue cassette di Jazz preferite26-22.
Tornando dalle Hawaii Basquiat fece tappa a Los Angeles. Aveva in programma di stare solo un giorno, e invece si fermò quasi una settimana. I suoi modi da tossico terrorizzarono gli amici. Basquiat piombò senza preavviso a casa di Matt Dike, che a quel tempo aveva la sua etichetta discografica ed era nel bel mezzo della produzione di un disco. Dike diede un'occhiata al pittore e capì che era ingestibile:
Entrò dentro inciampando e portandosi dietro una grossa sacca piena di cassette e di immondizia di tutti i tipi, e questo grosso stereo portatile da ghetto, e scaraventò tutto sul pavimento proprio nel bel mezzo della stanza. C'era merda dappertutto, sporcizia, erba, cartine26-23.
A quel punto Basquiat si preparò uno dei suoi famosi chili, che per la maggior parte andò a finire per terra. Dike si spaventò nel vedere che Basquiat aveva perso un dente, e della sua curiosa somiglianza con un quadro che aveva fatto tre anni prima e che era ancora appeso nella sua cucina:
Aveva i dreadlocks, gli mancava un dente e gli si vedevano le ossa, e c'era una siringa nell'angolo, e Jean era lì seduto a guardarlo come a dire: «Sì». Era una di quelle cose stranamente profetiche. Il giorno che venne qui aveva la morte scritta dappertutto. Dissi a Kelle che se continuava così sarebbe morto, che qualcuno doveva fare qualcosa. Ma volevo che uscisse fuori da casa mia. Mi stava facendo diventare matto. Lo tollerai per pietà per circa una settimana, e poi esplosi. Un po' me ne pento, ma che potevo fare26-24?
Dike diede a Basquiat dei soldi, poi chiamò Tamra Davis, amica di entrambi, chiedendole di aiutarlo. Dice Dike:
Fu una delle poche volte in cui Jean-Michel mi fece commuovere. Mi disse: «Tu sei l'unica persona che ha fatto qualcosa per me». Aveva tagliato i ponti con tutti e nessuno adesso voleva aiutarlo. E poi mi chiese di dargli dell'eroina. Di certo non volevo che andasse in overdose a casa mia. Disse che stava smettendo, e che s'era messo a imprecare e a bere rum per cercare di tollerare l'astinenza26-25.
Tamra Davis, giovane regista, aveva conosciuto Basquiat diversi anni prima alla galleria di Ulrike Kantor, dove l'allora marito esponeva. Erano diventati subito amici. Lo aveva visto spesso negli ultimi anni e aveva girato una delle poche videointerviste da lui concesse, ma adesso era sconvolta dalle sue condizioni disperate. Aveva già capito che c'era qualcosa che non andava quando Basquiat l'aveva chiamata appena arrivato a Los Angeles. Dice la Davis:
Quando tornò dalle Hawaii mi chiamò dicendomi tipo: «Ehi, indovina chi è?». C'era un qualcosa di raggelante nel modo in cui lo disse, come se fosse già morto. Per me fu una cosa dolorosissima, perché tutto il tempo che passai con lui gli feci da balia. Era in condizioni talmente disperate che tutto quello che potevi fare era trattarlo come un bambino e stare con lui. Talmente disperate che l'unica cosa da fare era portarlo in ospedale. Fu un momento difficilissimo, un incubo. Aveva perso un dente. I capelli erano tutti rovinati. Sembrava un barbone giamaicano. Si ingozzava di alcool. E fumava un sacco di canne. Era totalmente senza controllo26-26.
La Davis lo portò in giro per cercare di distrarlo, passando per diversi party e club:
Ma era ridotto come un secchio della spazzatura. Lanciò una bottiglia dentro il finestrino di una Cadillac. Si mise a dare calci ad alcuni tizi dall'aria da gangster che c'erano in un club. Poi ce ne andammo nel parcheggio del Country Store di Laurei Canyon e si mise a rollare canne, e c'erano montagne di Buds sparse sul cruscotto della mia macchina. Era il 4 luglio, e si mise a urlare dal finestrino alla gente che passava: «Sììì! Buon 4 luglio!». Sembrava il diavolo della Tasmania. Si comportava, secondo quello che m'ha raccontato un mio amico che l'ha conosciuto, proprio come Jim Morrison, a tutta velocità e totalmente senza controllo26-27.
Basquiat la supplicò di non portarlo da Oki-Dogs, un posto noto per lo spaccio. La Davis cercò di trovargli una stanza in un albergo, ma aveva un aspetto talmente tremendo che temeva sarebbe stato cacciato via, e così prese una stanza per sé, e lo fece entrare di nascosto in ascensore. «Era veramente un pessimo albergo, ma non voleva andare in un bell'albergo, tipo L'Hermitage, perché si sentiva orribile. Per cui ci fermammo all'Hotel Hollywood, che è uno squallidissimo posto su Sunset»26-28.
Basquiat aveva in borsa due blocchi di disegni quasi del tutto vuoti, dei pastelli, e una copia tutta piena di orecchie di uno dei suoi libri preferiti di Kerouac, I sotterranei. Continuava a insistere che sarebbe diventato uno scrittore, o che avrebbe aperto una fabbrica di tequila. La Davis portò Basquiat in giro, cercando di tirarlo su. Si misero a sedere lungo Mulholland Drive e ascoltarono la radio. Ricorda la Davis: «La stazione radio locale trasmetteva Candle in the Wind di Elton John, e ne parlammo a lungo. Ero sicura che non sarebbe andato avanti con questa storia per tutta la notte». Basquiat le disse quanto si identificava con questa canzone. «Questo sono io. Non sono una persona vera. Sono una leggenda»26-29.
A metà luglio Basquiat tornò a New York. Fu un'estate da cani in città, calda, afosa e opprimente. Incontrò Keith Haring, che stava facendo un lavoro per «Vogue» e se ne andava in giro per Broadway con una macchina fotografica. «L'ultima volta che lo vidi fu l'unica volta in cui mi parlò del suo problema con la droga»26-30, disse Haring subito dopo la morte di Basquiat. Haring fece una foto dell'amico sdraiato come un barbone, o un cadavere, su una grata della metropolitana. Basquiat incontrò anche il suo vecchio amico Vincent Gallo:
Vedendolo pensai che avesse l'Aids. Ero sconvolto dal suo aspetto. Aveva piaghe aperte su tutta la faccia. Aveva un aspetto veramente tremendo. Non andai a casa sua perché non volevo avere niente a che fare con un tossico. Lo vidi tre giorni dopo, e sembrava stare meglio. Era seduto fuori da Dean & DeLuca. Gli cadevano soldi dalle tasche, e andò a comprarsi dell'erba. Ma non è che ne comprò solo dieci dollari, dovette comprarne una bella busta, da cento dollari. Era il Jean di sempre. Sempre lì a gloriarsi di quanta droga riusciva a farsi. Mi disse: «Amico, ne fumo cento bustine al giorno. Più di quelle che si fuma Keith Richards, amico, sono una potenza». Passai un po' di tempo con lui. Era come se fosse morto da anni. È difficile da spiegare. Non è rimasta molta gente così vulnerabile. Si scordò il suo cappello preferito nella mia macchina, un cappello grigio di feltro, fatto in Texas. Dentro c'è scritto «Jean-Michel Basquiat». Mi disse che voleva comprarsi un clarinetto. Mi disse che avremmo fatto nuova musica insieme, «musica Jazzrap». Mi disse: «La sentirai per la prima volta il giorno in cui la suoneremo». Aveva sempre quella scintilla negli occhi, la stessa di dieci anni prima. Faceva tipo Giulio Cesare, alzando o abbassando il pollice a ogni domanda che gli facevo sull'Africa, sulle Hawaii, o su altri posti dov'era stato. Mi disse che l'Africa era bella. Mi disse: «Quando vado alle Hawaii mi dimentico della droga. Devo stare lontano da New York». Ma a farmi stare male fu soprattutto il fatto che Jean-Michel fosse un ragazzo di New York. Ce ne andavamo tutti i venerdì, i sabati e le domeniche sera a Wall Street, fino alle cinque del mattino, perché a quell'ora era deserta. Facevamo graffiti, facevamo cassette. Piangevamo al pensiero di quanto bella fosse New York. Continuavamo a dire: «È qui che voglio morire. Voglio che tutti questi palazzi mi crollino addosso in questo punto esatto». E adesso era lì che mi diceva: «Amico, io odio New York. Ti leva l'energia. Devo andarmene da questa città. New York è cambiata. Odio stare qui»26-31.
Ma Gallo racconta che Basquiat non aveva perso il suo interesse per le donne. Gli disse che era pazzamente innamorato di Lauren Hutton, e che aveva una storia con lei. E ogni volta che passava una ragazza carina diceva, come aveva sempre fatto: «Ho il cuore a pezzi, amico». «C'era un sacco di gente che era sempre lì che aspettava per piombargli addosso come avvoltoi», continua Gallo, «e credo che lui se ne rendesse conto. Non è mai cresciuto. Non gli è mai stata data l'opportunità di farlo»26-32.
Una delle ultime persone, oltre a Kelle Inman, a passare del tempo con il pittore fu Paul Martini. Jean-Michel aveva conosciuto Martini nel 1981, tramite Steve Torton. Martini aveva fatto da baby-sitter a Torton quand'era piccolo. Quando conobbe Basquiat insegnava Psicologia all'Istituto di Studi Cognitivi dell'Università di Rutgers. I due si incontrarono in vari club. Martini, intanto, che aveva sempre sbarcato il lunario vendendo erba, era diventato un importante spacciatore. Tramite un contatto pakistano forniva eroina a Linda Yablonsky, dalla quale, dice lui, «[William] Burroughs era di casa». A detta di Martini le droghe entravano nel Paese dentro statuette di argilla:
Quando Linda smise di spacciare, iniziai a vedere Jean-Michel tutti i giorni. Per una settimana fui il suo spacciatore. E me ne stavo seduto insieme a lui. Si iniettava roba per un'ora di seguito. Aveva le braccia che erano un disastro. Parlammo della possibilità che morisse di overdose. Si iniettava roba comprata per strada per qualcosa come settecento dollari. Prendeva la bicicletta e andava sulla Quarta Strada e sull'Avenue D. Comprava talmente tanta droga che pensavano fosse uno spacciatore. Di solito c'erano cinquanta buste di eroina sul tavolo. Restava quattro ore in bagno a vomitare e a spararsi eroina in vena, a spararsene ancora e a sanguinare. Una cosa da non crederci, non ho mai visto nessuno con una simile resistenza. Doveva avere il fisico di un cavallo26-33.
A detta di Martini Basquiat si faceva spedire la droga in mezzo alle tele dei suoi quadri. Oppio dall'Iran, cocaina dalla Bolivia:
Mi ricordo il Capodanno del 1987. Stavo andando in Belize con un amico italiano a festeggiare. Jean mi diede due lunghi sigari con dentro oppio iraniano. Era indubbiamente una persona eccessiva. Per un bel po' riuscì a lavorare ottimamente sotto effetto di droghe. Per un bel po' usò le droghe, e poi le droghe usarono lui26-34.
Ma adesso Martini si accorse che l'artista era cambiato:
Tornato dalle Hawaii era tranquillo. Era premuroso. Non doveva stare per forza al centro dell'attenzione. Parlammo del come sarebbe andata se fosse nato dieci anni prima, avrebbe fatto il chitarrista e non l'artista. Una delle cose che gli dispiaceva era il non avere vissuto il fermento politico degli anni Sessanta26-35.
A detta di Martini Basquiat non voleva più lavorare da solo:
Non voleva essere lui a fare tutta quella gigantesca quantità di cose da dipingere e produrre per le mostre. Era ottimista. Aveva progetti per il futuro. Stava iniziando a intravedere delle buone ragioni per vivere26-36.
E infatti, la settimana prima che morisse, Basquiat, Baghoomian e la Inman andarono a dare un'occhiata a una casa che Basquiat voleva comprare a Liberty, a New York. Basquiat disse anche a una serie di persone, inclusi Valda Grinfelds, Steve Rubell, Paul Martini e Rick Temerien, che aveva scoperto di avere un figlio a New Orleans che si chiamava Noah. E a Temerien, che era il proprietario del Madame Rosa's, il club dove Basquiat fece il dj il suo ultimo anno di vita, fece vedere anche una foto26-37. Il bambino non fu mai rintracciato, e negli anni successivi alla morte di Basquiat nessuno ha rivendicato la paternità.
Ma la dipendenza dalla droga di Basquiat alla fine si dimostrò più forte di lui. Dice Martini:
Quando te ne fai così tante non è possibile smettere senza una disciplina paramilitare. Quando tornò non voleva più bucarsi. Ma non era pronto. Arrivato in città volle sniffare. Tenne duro qualche ora, e poi a casa ripiombò in quello che era il suo mondo26-38.
È possibile ricostruire gli ultimi giorni di Basquiat dai racconti di quelle poche persone che continuarono regolarmente a entrare e uscire dalla sua vita. Basquiat inizialmente aveva prenotato dei biglietti aerei per se stesso, Outarra e Kevin Bray per partire, domenica 7 agosto, per Abidjan, in Costa d'Avorio. Ma aveva spostato la prenotazione al 18 agosto. L'idea era di andare al villaggio di Outarra per un rito di purificazione. Il nuovo amico aveva organizzato con gli sciamani del posto l'allestimento di una cerimonia che lo avrebbe curato dalla sua dipendenza. «Avevamo preparato tutto»26-39, dice.
Ma l'11 agosto, esattamente una settimana prima del viaggio che sperava lo avrebbe salvato, Basquiat era in pessime condizioni. Quella mattina aveva avuto una brutta conversazione telefonica con sua sorella Lisane. Durante la giornata fece tutta una serie di viaggi all'East Village per comprare qualche grammo di eroina. Per qualche amico l'ultima immagine del pittore è quella di Basquiat che pedala diretto ad Alphabet City sulla sua piccola bicicletta rossa. Jay Shriver passò da Great Jones Street quel pomeriggio, e trovò Basquiat intontito dalla droga. «Stava dipingendo, ma cadde dalla sedia due volte»26-40, dice Shriver. Basquiat riuscì comunque a fare un'apparizione quella notte all'M.K., dove c'era un party per Bryan Ferry. Kelle e un altro amico, Kirsten Vigard, andarono con lui. Dice la Inman:
Non era in gran forma. Ma era bello vederlo uscire. Mi accarezzò la schiena, mi strinse la mano e disse: «È una cosa che mi fa stare talmente male». E io gli dissi: «Anche a me». E lui: «Ti amo», e io: «Anch'io»26-41.
Poi Basquiat si mise a girare da solo. Cercava Jennifer Goode. Non la trovò mai. Kevin Bray s'imbatté in Basquiat al club, e rimase turbato dal vederlo completamente fuori. Più tardi, sempre quella notte, Basquiat tornò al loft di Great Jones Street con qualche amico. «Lo seguii in bicicletta fino a casa perché era completamente fatto», ricorda Bray, «di solito se parlavi con Jean-Michel quando era fatto, in qualche modo era sempre lucido. Ma quella notte non ragionava più»26-42. Non riuscendo a parlargli Bray gli scrisse un biglietto: «Non voglio restarmene qui seduto a guardarti mentre muori… Sì, mi devi un favore»26-43. Bray lesse il biglietto ad alta voce, ma Basquiat era troppo lontano per sentirlo. A detta di Martini aveva bevuto un sacco di vodka prima di farsi altra eroina. La stanza da letto di Basquiat era calda come una fornace. Sia Tamra Davis sia Matt Dike, che erano stati lì il mese prima, si ricordano che era insopportabile. «Non dimenticherò mai quella notte e il caldo che c'era. Era il posto più caldo dell'Universo»26-44, dice la Davis. «L'aria condizionata era rotta e fu nel periodo di quella cazzo di ondata di caldo», conferma Dike, «non avevo mai sentito così caldo in vita mia. Mi sembrava che a stare lì dentro mi stessi suicidando»26-45.
Il giorno dopo Bianca sentì Basquiat tossire ripetutamente, ma pensò fosse una cosa normale. Fu solo più tardi, quello stesso giorno, che la Inman scoprì il suo corpo privo di vita. Bianca gli toccò una mano. Era ancora calda. Dice di avere avuto una visione del «suo spirito che era già andato via»26-46. Quando il personale medico arrivò, intorno alle sette della sera, tentarono di rianimarlo. Basquiat venne portato d'urgenza al Cabrini Medical Center sulla Diciannovesima Est. All'arrivo, alle 7:23, venne dichiarato morto26-47.
Outarra, già in Africa, inizialmente pensò che la notizia della morte di Jean-Michel fosse uno scherzo, che Basquiat avesse inscenato una cinica «farsa pubblicitaria». Quando capì che era vero, lo comunicò agli sciamani che stavano aspettando Basquiat per curarlo. Dice Outarra:
Fecero una cerimonia per la sua morte. Venne fatta di notte, e vi fu un sacrificio animale. Fu una specie di rito voodoo. Indossarono delle maschere, pregarono e fecero delle danze mistiche intorno al fuoco per tutta la notte26-48.
Mentre Gerard Basquiat stava reclamando il corpo del figlio all'obitorio della città, i maghi africani ne stavano liberando l'anima con un rito antico.
Vrej Baghoomian, che era in vacanza a San Francisco, apprese la notizia della morte di Basquiat dalle sue terrorizzate assistenti, che erano state chiamate da Kelle:
Mi chiamò mio fratello e mi disse di telefonare in galleria. Erano circa le sei del pomeriggio ora di New York. C'era un messaggio che diceva che era successa una cosa terribile e che stavano andando tutti di corsa allo studio di Jean-Michel. E così chiamai lì e parlai al telefono con Kelle, Helen e Vera. E fu proprio mentre il personale medico, la Polizia e gli altri stavano cercando di rianimarlo26-49.
Baghoomian chiamò Gerard Basquiat. «Andai a casa sua», disse Gerard una settimana dopo la morte del figlio:
Quando arrivai lì c'erano un paio di persone davanti alla porta, e mi dissero che era stato portato al Cabrini. Mi precipitai all'ospedale e al banco dell'accettazione c'erano un paio di suoi cosiddetti amici. E a quel punto capii, capii tutto. Avevo sempre avuto paura per Jean-Michel. Credo di essere sempre stato terrorizzato dall'idea di perderlo26-50.
Suzanne Mallouk si ricorda che Gerard Basquiat, qualche anno prima che Jean-Michel morisse, aveva detto di sentirsi in colpa per il rapporto che aveva con il figlio. «Lui e Nora venivano spesso al Madame Rosa's quando lavoravo lì come barista», dice, «e una volta disse: "Per favore, dimmi se sono stato un buon padre per Jean-Michel. Devo saperlo"»26-51. Gerard Basquiat disse che qualche mese prima aveva pensato di parlare con il figlio della sua tossicodipendenza, dopo che «qualcuno» lo aveva chiamato per metterlo all'erta:
Lo vidi subito dopo all'Odeon. E non gli parlai di droghe. Jean-Michel probabilmente si sarebbe voltato dall'altra parte. Gli dissi solo che dovevamo metterci a sedere e parlare di un sacco di cose, e lui mi disse: «In questo momento sono impegnato con una mostra»26-52.
Ma alla fine non fecero mai quella conversazione. Gerard ammette di essersi pentito di non essere intervenuto:
Probabilmente sono l'unica persona che avrebbe potuto fare qualcosa, e mi dispiace non averla fatta. Ma conosco molto bene Jean-Michel. Se gli dici di non andare alla porta, lui ci va a sbattere direttamente contro. Ho un sacco di sensi di colpa, perché ci sono cose che forse avrei dovuto fare e che non ho fatto. Da padre sarei potuto andare a casa sua in qualsiasi momento e avrei potuto suonare il campanello dicendo: «Ehi, c'è qui tuo padre. Come va?». Non l'ho mai fatto. Ho sempre rispettato la sua privacy. Non mi sono mai immischiato. Un sacco di gente nemmeno sa che sono il padre di Jean-Michel. Non sono stato come John McEnroe sr, sempre lì in prima fila a guardare il figlio giocare a tennis. Sono sempre stato il tizio sullo sfondo26-53.
Ma all'indomani della celebre, tragica morte del figlio, Gerard passò in primo piano:
Dovetti identificare il corpo tre volte. La prima volta in ospedale, la seconda all'obitorio, e la terza alla cappella Campbell. Aprii la bara. Fu una cosa terribile, da farti saltare il cervello. Andammo all'obitorio, e l'odore… Jean-Michel morì il venerdì, e andammo all'obitorio la domenica. Non rifarò mai più una cosa del genere in vita mia. Poi dovemmo andare al cimitero. Era la prima volta che, da adulto, andavo a un cimitero. È un bel cimitero, con dei begli alberi. Veramente un bel posto. Organizzai il funerale. Facemmo una lista. Fummo costretti a dire di no a un sacco di gente26-54.
Il corpo di Basquiat venne esposto alla Frank E. Campbell. Dice suo padre:
I dreadlocks avevano le punte bionde. Indossava il suo completo preferito. Era tutto perfetto. Sembrava sereno, e ne sono contento. Ho seppellito mio figlio. Sono stato costretto a seppellire mio figlio. Ho visto il meglio e il peggio di lui e tuttavia sono ancora forte. C'è della gente che è riuscita ad accettarlo e altra gente che non ci riesce. La madre di Jean-Michel ne è uscita distrutta. È invecchiata di vent'anni. È un relitto. Ed è una persona debole. È di certo molto debole. In cambio del successo di Basquiat abbiamo dovuto affrontare tutto questo, e io sono ancora in piedi26-55.
Poco prima del funerale Jeffrey Deitch ricevette una telefonata dal padre dell'artista che gli chiedeva di fare il discorso funebre. Rimase tutta la notte sveglio a buttare giù i suoi pensieri26-56. Malgrado fosse stato uno dei primi sostenitori di Basquiat, scegliere il consulente artistico della Citibank per parlare alla ristretta cerchia di parenti e amici al funerale del 17 agosto sembrò un cinico corollario del mito di Basquiat. E mentre Deitch commemorava l'artista come giovane uomo, sulla folla raccolta nel dolore non smise mai di piovere:
Jean-Michel aveva un modo talmente preciso di vedere le cose, una mano talmente sicura, già da adolescente, che bastava che disegnasse solo poche linee o facesse solo pochi segni con un Magic Marker su un muro, e le immagini, per quanto diradate, erano indimenticabili, ed erano esclusivamente sue […]. Quando conoscevi Jean-Michel capivi perché le sue linee e i suoi segni erano così potenti. Era una persona diversa dalle altre, dalle molteplici qualità: intelligenza, passione, simpatia, generosità. Una persona con talmente tanto carisma e forza che il solo aspetto fisico, poche parole concise, qualche linea disegnata sulla carta, erano sufficienti a comunicare così tante cose […]. Jean-Michel ha lasciato non solo ricordi ma una leggenda26-57.
Nato a Brooklyn, Basquiat adesso è sepolto lì. Sulla dimessa lapide c'è scritto soltanto:
JEAN-MICHEL
BASQUIAT
ARTISTA
DEC 1960 – AUG 1988
Pochi giorni dopo la morte di Basquiat, la Vrej Baghoomian Gallery era vuota. Le pareti erano state ridipinte e i pavimenti ricoperti di poliuretano. Baghoomian se ne stava seduto nel suo ufficio dietro una scrivania ricoperta di diapositive dei lavori di Basquiat. Il telefono continuava a suonare: a chiamare erano giornalisti smaniosi e anche produttori cinematografici. Baghoomian era preparato: il 15 agosto aveva diffuso un comunicato stampa di due pagine in cui annunciava che «Jean-Michel Basquiat è morto nel sonno», riassumendo per sommi capi la breve ma intensa carriera dell'artista. Di colpo René Ricard fece irruzione nella stanza. Sembrava fatto e impazzito dal dolore. Disse che la bottiglia di champagne che pensava di versare sulla tomba di Basquiat era esplosa. «Jean-Michel era eletto da Dio», declamò, «era un santo nero. Ci sono stati Martin Luther King, Hagar, Muhammad Ali e Jean-Michel». Curioso mix di commercio, pathos e iperboli, la scena surreale parve l'epilogo perfetto della morte della star dell'arte degli anni Ottanta26-58.
Non passò molto tempo dalla morte di Jean-Michel Basquiat che Nancy Brody andò in Great Jones Street con Jennifer Goode. Il loft dove la Goode aveva passato così tante ore a guardare Basquiat dipingere e disegnare era stranamente vuoto. Dice la Brody: «Jennifer prese dei vestiti e un pezzo di carta»26-59. Scritto con l'inconfondibile grafia di Basquiat, diceva solo: «Sweet Bird of Youth»26-60.