1. Roma, 11 febbraio 2016

A volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, arriva una voce che ci fa di nuovo sperare in un’improvvisa salvezza. Era una giornata nuvolosa. Ero stato invitato a partecipare nel primo pomeriggio a un piccolo convegno di poeti che in un teatro romano avrebbero ricordato una delle poetesse piú stimate e magiche del nostro Paese, a vent’anni dalla morte.

Mancava una mezz’ora all’appuntamento e io stavo seduto su una panchina di piazza Navona, accanto alla fontana dei fiumi, dinanzi al cavallo che sembrava scalpitare come volesse uscire dalle acque dove le sue zampe affondavano e precipitarsi sull’acciottolato della piazza, spaventando i turisti. Quel cavallo di pietra si muoveva nella mia mente come uno di quei giovani puledri che avevo veduto galoppare e ascoltato nitrire libero nei prati della mia infanzia marsicana. Il cavallo che avevo dinanzi, pur essendo del colore della pietra dove ero seduto, sembrava covasse una vitalità ancora piú forte di quelli che accarezzavo da bambino. Era come il cavallo alato, quello de I Ching, libro maniacalmente consultato dalla mia poetessa. Detestavo i turisti che, scattando i loro selfie, ostruivano la visione d’insieme di quella fontana barocca.

Avevo con me una vecchia edizione annotata de Il tempo ritrovato di Marcel Proust, il volume della Recherche che piú mi spingeva a evocazioni magiche. Avevo appena riletto il brano riguardante i due ciottoli, uno piú alto dell’altro, che Proust aveva calpestato, sfuggendo fortunosamente a un incidente automobilistico, proprio accanto all’ingresso della casa dei suoi osannati Guermantes. È uno dei brani piú citati della lunga Recherche, dove Proust torna sulla sua madeleine immersa in un infuso, che tanta luce azzurra gli aveva spalancato e che però non gli aveva cancellato il dubbio sulla sua capacità di diventare un romanziere. Animando una gran luce azzurra dovuta anche alla salvezza per lo scampato pericolo, i due ciottoli gli ricordarono, nell’ordine, il battistero veneziano di San Marco e insieme il martellare di un ferroviere, nonché il rumore di un cucchiaio su un piatto, proprio come voleva una teoria surrealista che suggeriva di accostare oggetti tra i piú diversi tra loro per suscitare la scintilla poetica. I sensi, sempre contrari all’intelligenza che cercava inutilmente di rasserenarli, aprirono magicamente ancora una volta il suo mondo interiore, al quale aveva sacrificato tutta la sua vita. Come è noto, nell’ultimo volume della Recherche, Proust rivisita disincantato i luoghi del suo romanzo, partendo da Combray e finendo nell’ultima matinée dei suoi Guermantes, ormai incartapecoriti, attraversando una Parigi in guerra.

Osservando l’allegria drogata di quella folla, io credevo che le guerre tutte televisive che avevamo attraversato si stessero avvicinando, provocando la terza, quella finale. Temevo, sia pure seduto come un vagabondo in quella piazza cosí teatrale, che un terrorista dell’Isis avrebbe potuto in quella giornata uggiosa farsi saltare in aria e uccidere la folla ignara. Nella disperazione vedevo la magnifica fontana saltare in mille pezzi, leggendo allarmato la rivendicazione di giovani che avrebbero goduto della cancellazione di quel gioiello a cielo aperto.

Spazientito mi alzai, attraversai via di Tor Millina e giunsi in via del Corallo. Davanti al portoncino verde che Amelia Rosselli apriva per raggiungere il suo piano alto, dondolai anch’io per aver messo un piede su due sampietrini diversi, uno piú rialzato dell’altro, sostenendomi con una mano a quel legno. E all’improvviso, dentro di me, si aprí la luminosa mansarda di Amelia e quella finestra da cui decise di spiccare il volo. Passando davanti ai tavolini della pizzeria Il Corallo, proprio all’imbocco di quella via, la stessa che la vedeva spesso seduta su uno scalino, appoggiata a una saracinesca abbassata, che parlava da sola, dapprima a voce bassa e poi sempre piú alta contro i droni della Cia che infestavano il cielo, e scorgendo una mela rossa in vetrina, mi tornò in mente quella che avevo comperato da un fruttivendolo lí accosto quando ancora era viva. Avevo suonato al citofono e dopo qualche tempo mi aveva risposto una voce rauca, chiedendomi chi fossi. Si fece ripetere il nome piú volte. Il portoncino si aprí e iniziai a salire le scale, titubante.

Avevo riconosciuto la voce cavernosa di quando Amelia iniziava a star male, interrogandosi ossessivamente sulle minacce della realtà. Stavo quasi per desistere e tornare indietro, quando sentii una porta che si apriva. Mi feci coraggio e, rimanendo fermo sul pianerottolo, la chiamai. Vidi attraverso la porta aperta il corridoio e in fondo la luce che proveniva dalla finestra. La chiamai ancora, non rispose nessuno. Ero caduto in una trappola? Mi stava aspettando appostata sul suo letto tutta vestita, con un coltello in mano? Rabbrividii. Chiamai di nuovo. Eccola finalmente comparire in corridoio, quasi a sbarrarmi la strada. Aveva un paio di pantaloncini blu e una camicetta dello stesso colore. Con uno sguardo infernale sembrava mi studiasse, all’erta, con l’aria di sfida.

«Passavo qua sotto e mi son detto: perché non dare un saluto alla mia cara amica» dissi per alleggerire la tensione che si era creata. Aggiunsi che non volevo salire a mani vuote, e ricordando quanto le piacessero le mele rosse, ne avevo comperata una.

Quando le allungai il frutto, indicò il tavolo dove dovevo poggiarlo. Era come se evitasse accuratamente di contaminarsene. Ero salito da lei per avvelenarla? Le ubbidii. Il mio imbarazzo era alle stelle.

«Forse ti ho disturbata, scusami» dissi. Sembrava vivesse altrove, anche se dallo sguardo percepii come l’inizio di un sorriso. Fredda, distante, attendeva lo sviluppo di quell’incontro. Mi ero paralizzato, dubitando che mi avesse riconosciuto. Non sapevo letteralmente che fare. Ero salito per parlare. Non la vedevo da molto. E volevo appurare che cosa stava preparando. Non mi aveva nemmeno invitato a sedere. Era come se avessi sbagliato appartamento e mi fossi trovato dinanzi a una sconosciuta. Tutti quegli anni d’amicizia non erano serviti a niente. Mi guardai bene dal chiederle che cosa era successo. Se ne sarebbe dispiaciuta.

Mi feci forza e alzai la mano in un cenno di saluto, come quello di un bambino dinanzi a un rimprovero della mamma, improvviso e incomprensibile. Ero capitato nel bel mezzo di un dramma. E Amelia non sapeva se fidarsi di me o no. Ero un affiliato della Cia anch’io? Non mi accompagnò all’uscita. La porta rimase aperta e mi parve di avvertire il tonfo di quella mela nel cestino dei rifiuti.

Per le stradine lí accanto strologavo, senza venire a capo di nulla. Mi pentii anche di averla abbandonata, di non essermi offerto per lottare insieme contro i suoi torturatori. Inutile chiederle l’indirizzo della clinica che di lí a poco l’avrebbe ricoverata. Non gradiva visite. Quelle cliniche misteriosissime mi avevano ossessionato lungo i tre decenni della nostra amicizia dal 1966 al 1996. Le avevo immaginate come luoghi di tortura, con Amelia stretta dalla camicia di forza, sotto l’orribile effetto dell’elettroshock, che quei dottori ancora indegnamente praticavano, illudendosi che fosse un rimedio efficace per quella malattia, come i numerosi farmaci che le ordinavano di inghiottire.

Piú volte tornai indietro, fin davanti a quel verde portoncino. E se avesse commesso un atto irreparabile? Diceva che i veri poeti non avevano superato i trent’anni e lei ne aveva piú del doppio. Mi ripetevo quel suo “al dunque?”, detto in altre occasioni, che mi faceva, neanche a dirlo, salire l’ansia. Mi era apparsa come una figura ieratica, di un altro mondo, un’Andromaca severa, restando diritta in piedi, con la finestra dietro le spalle da cui entrava una luce metaforica. «Andromaque, je pense à vous» recitai uno degli attacchi piú belli della poesia mondiale, di quel Baudelaire pluricitato nelle sue poesie. Lo facevo per alleggerire l’ansia e ironizzare, imitandola.

Con quella mela in testa, come in un dipinto di Magritte, a passi svelti raggiunsi il Teatro Valle, che era rimasto occupato fino a due anni prima. Lo trovai aperto solo nel foyer, e proprio per ospitare il convegno che omaggiava Amelia a vent’anni dalla sua morte. Seduti nelle prime file i tanti poeti romani che avevano accettato l’invito cinguettavano tra di loro. Da Jolanda Insana, che sarebbe morta di lí a poco, a Valerio Magrelli, alla piccola folla di poetesse, fan indiscusse di Amelia. Li avevo conosciuti quando erano ancora giovani. Il Tempo aveva lavorato i loro corpi, come del resto il mio. Ce n’era uno, che avevo incontrato quando era un biondo ragazzo, che ammogliato e con figli mostrava il suo volto scavato, come se fosse passato da un dipinto di Renoir a un disegno di Grosz. Ce n’era un’altra che aveva il volto disfatto, continuava a fissarmi con l’aria di chi finge di riconoscere o non è piú in grado di farlo. Loro avevano incontrato Amelia quando era diventata una star della poesia e tutti la veneravano. Io l’avevo conosciuta molto prima, dopo che ebbe pubblicato il suo primo libro. Ricordo ancora la sua energica stretta di mano, la presa che durò piú di un attimo a casa sua, sotto gli occhi ironici di Dario Bellezza e la sua risata brutale. Proprio la mattina del convegno aveva danzato dentro di me la pupattola, come aveva saltellato bambina, nella strada parigina dove nacque. Di lei avrei raccontato nel mio intervento, liberandola davanti a tutti mentre parlavo.

Un giornalista di Rai 2 si avvicinò per farmi una breve intervista. Dissi che avevo sostato un minuto prima davanti al portoncino di via del Corallo e che avrei accennato all’infanzia parigina di quella grande poetessa europea. L’occhiuta organizzatrice del convegno mi fece parlare inspiegabilmente da ultimo. Devo confessare che la vista di quei poeti tutti insieme, invecchiati, ma sempre giulivi, come appartenessero a una setta, mi aveva allarmato. Il mio io interiore aveva sempre rifuggito l’io sociale, da orso marsicano quale ero rimasto. Il tempo era passato sui loro corpi come sul mio, come una ruspa impietosa. Per lo piú si erano limitati a citare qualche verso, seguito da un breve ricordo, mentre io pensavo a quella mela rossa di cui accennavo. La mela giganteggiava nella mia memoria come il suono del campanello dei Guermantes la prima volta che Proust l’aveva ascoltato e che l’aveva accompagnato lungo tutto il suo lunghissimo romanzo. La mela era diventata quella del giardino dell’Eden. Quel frutto era presente anche durante il mio breve intervento, dove annunciai che avrei scritto la sua vita come un memoir. L’ombra di Amelia sembrava assorta, seduta nelle ultime file, sbuffando di tanto in tanto.

Risposi al saluto di una mia ex, che voleva sapere se aveva fatto bene a non tingersi i capelli, ormai uniformemente bianchi. La sua fresca permanente li indorava, incorniciando il suo volto lungo e rugoso, simile a quello di mia madre. Annuii e corsi fuori dal teatro, mal sopportando quel cinguettio, inutilmente seduttivo. C’era, ad aspettarmi davanti al teatro, una ragazza mora, minuta, con due grandi occhi annuvolati, che mi strinse la mano. Disse di chiamarsi Amélie, di essere una lettrice affezionata di Amelia Rosselli, su cui aveva sostenuto la tesi, di aver seguito proprio tutti gli interventi, ma il mio le era sembrato quello piú intenso. Ci teneva a dirmelo, ecco. Prima di salutarmi mi chiese, con una voce rauca, se poteva chattare con me su Facebook. Si allontanò, a testa bassa. Tornai a piazza Navona mentre scendeva la sera.

All’improvviso un capannello di gente si radunò attorno a un gabbiano dallo sguardo regale che aveva appena staccato la testa a un piccione, meditando di divorarne le interiora. I turisti erano lí che sorridevano e facevano i loro selfie, senza considerare quella in atto una tragedia. Avrebbero fotografato cosí anche i corpi straziati da un attentato in quella piazza antica, se li avessero avuti davanti. Prima che il gabbiano procedesse nel suo pasto, mi allontanai con la volontà di fuggire il piú lontano possibile da quei mostri. Lo so, non mi venne in mente di dare un calcio all’uccello che zampettava vittorioso.

Presi il 492 a piazza Argentina e tornai a San Lorenzo, il mio quartiere. Ero in ascensore quando sentii la voce sibillina e poi ridanciana di Amelia: «Non mi hai creduto neanche tu... sempre distratto. Ma dove ti sei cacciato? Ahahah!».

Cercai inutilmente mia madre, come mi accadeva da bambino quando un’amichetta mi rigava le guance. Mia madre, morta da tanto, aveva fatto in tempo ad ascoltare quella voce al telefono, quando ancora abitavo da lei, in largo Lucio Apuleio. «Ma che vuole da te questa signora?» mi domandava dopo avermi ascoltato risponderle a monosillabi e per ore, notturne e diurne. Quella voce iniziò a raccontarmi gli ultimi attimi del suo folle volo.