Gli spettri erano giunti dalle scale fin sul pianerottolo della sua mansarda. Sentiva dentro di sé le loro voci ben impostate, come fossero attori consumati, già all’ingresso del palazzo. Erano piú d’una, ma una l’aveva riconosciuta. Era ferma, secca, dava ordini ai suoi scagnozzi di forzare la serratura. Amelia si era barricata in casa, aveva finito la bottiglia di latte e quel poco pane che era rimasto era diventato durissimo. I medici le avevano tolto i farmaci che la calmavano e lei era ripiombata nel mare nero della sua schizofrenia. Non beveva e non mangiava per timore di avvelenarsi. Anche la finestra che dava sul balconcino l’aveva rinserrata, lasciando pigolare inutilmente i passerotti che sfamava con le briciole che faceva cadere, di tanto in tanto, per loro. Aveva trascorso l’attesa dell’irruzione degli spettri di sempre al buio. Non mi fanno camminare, aveva detto a suo cugino Aldo per telefono, i piedi mi dolgono. Non riesco nemmeno a scendere dal letto. Aldo l’aveva ascoltata, al solito, senza contraddirla. Sapeva bene che, appena la malattia si riacutizzava, era come se sua cugina si paralizzasse e bisognava pensare a ricoverarla nelle cliniche romane o nelle tante altre, anche in Svizzera, in Inghilterra e in Germania, dove un elettroshock l’avrebbe calmata. Aldo conosceva bene quei feroci trattamenti medici, per averli subiti. Sperava solo che fosse una cosa passeggera. Non aveva previsto la gravità del momento.
Era la controra, nel bel mezzo del pomeriggio, quando la solitudine morde di piú. Alla sera si trova sempre qualche amico con cui chiacchierare, passeggiare, bere, ma la controra è terribile per chi, come lei, viveva da sola da sempre. Il sonnellino ristoratore non la riguardava. D’impeto, scesa dal letto, e raccogliendo le ultime energie, gridò aiuto e spinse una sedia davanti alla porta. L’uomo biondo che aveva creduto di intravedere dallo spioncino aveva una cravatta nera e una mela rossa in mano, di quelle che altre volte, per strada, al ristorante, aveva tentato di offrirle per farla cadere nel suo tranello. Era come se la scena di Eva che porge la mela a Adamo si fosse rovesciata; era Adamo adesso a regalarle il frutto proibito. Il suo corpo era teso come il tendine di un arco. Vedeva già le manette ai polsi, la mano sulla bocca, una fascia nera sugli occhi, le strattonate violente per costringerla a uscire. Era venuto a prenderla per condurla in chi sa quale foresta, per spararle finalmente in testa, una foresta simile a quella di Bagnoles-de-l’Orne, dove sette giovani fascisti avevano abbattuto, dapprima a colpi di pistola e poi a coltellate furiose, suo padre e suo zio, quando lei aveva solo sette anni.
Tornò a gridare aiuto, ma i casigliani a quelle grida ci erano abituati e non ci fecero caso piú di tanto. Quante volte l’avevano vista in vestaglia da notte sul pianerottolo, trascesa? Tante, e se all’inizio uscivano per consigliarle di rientrare, adesso avevano preso quelle grida come qualcosa a cui non fare piú caso. Il suo cuore, aveva scritto, era «una raffica di mitra», tanto batteva forte. Questa volta ce la faranno, si diceva. Afferrò un coltello poggiato sul lavandino del suo cucinino. Voleva combattere, sbarazzarsi di quell’americano biondo della Cia che non la smetteva di spiarla dal satellite e che, una volta localizzata, era venuto a prenderla. Ammutolí di nuovo. I rumori del chiavistello le imperlarono la fronte. Poi piú nulla, come se avessero avvertito presenze di condomini sulle scale e, prima di sfondare la porta, stessero confabulando tra di loro sulle mosse successive.
Amelia tornò a guardare dallo spioncino, ma adesso scorgeva soltanto la porta chiusa del dirimpettaio. Era come se avessero rinunciato a entrare. Forse si preparavano, piú tardi, a prendere la rincorsa e aprire la porta a spallate. La sedia li avrebbe bloccati ancora per un poco, ma sarebbero entrati comunque. Non si chiedeva piú nemmeno perché la perseguitassero. Erano i suoi invisibili nemici di sempre. Si era iscritta da ultimo al Psi per farli retrocedere nel loro intento, ma era pur sempre la figlia di antifascisti uccisi da gente come loro, e dunque? Il presidente Pertini le aveva proposto di fare la senatrice a vita, per proteggerla, evitandole ulteriori persecuzioni. Ma lei aveva risposto un secco no.
Da quando i fascisti erano stati sdoganati e Fini, in televisione, sembrava una persona per bene, non aveva piú pace. I fascisti della Cia, travestiti da democratici, le facevano piú paura di quelli dichiarati. Sapeva, da quando era venuta ad abitare a Roma negli anni Cinquanta, che la Cia tramava contro i comunisti. Era dunque giunta la sua ora. Poggiò il coltello dove l’aveva preso e si rassegnò ad aspettare di vederli comparire armati davanti alla porta sfondata. Ma perché non parlavano piú? Erano forse addivenuti a miglior consiglio? Come avrebbero fatto a trascinarla sulle scale, a fargliele scendere gradino su gradino a spintoni, tenendola per le braccia? Lei si sarebbe opposta con tutte le sue forze, gridando, anche irridendoli e svelando il suo disprezzo con la sua risata brutale. Gli assassini piú feroci hanno una loro logica, si diceva.
Tese l’orecchio. Nessun rumore. Mai, neppure nel palazzo le avevano creduto. Per loro era pur sempre la straniera, la matta, che abitava all’ultimo piano. Chi sa se qualcuno di loro, sentendola urlare per le scale, si sarebbe affacciato o avrebbe chiamato la polizia. Già, la polizia. L’aveva avvertita tante volte nel passato e ogni volta arrivava l’umiliazione di doversi difendere. Non l’avevano mai presa sul serio scrivendo i loro verbali di merda.
Mentre sembrava che avessero smesso di provarci, che si fossero ricreduti, colpiti da un sano realismo, quelle furie tornarono a spingere la porta. Non aveva dunque scampo. L’avrebbero infine catturata e torturata, dopo aver rubato tra le sue carte, quelle che riguardavano il loro spionaggio, un vero dossier, che teneva nascosto sotto il letto. Aveva appuntato la loro caccia in maniera dettagliata e una parte del dossier l’aveva pubblicata su Nuovi Argomenti, ma senza suscitare l’interesse che aveva sperato.
I casigliani continuavano il loro sleep, sonnecchiavano. Il respiro si fece affannoso, il terrore di diventare preda la prese alla gola. La finestra le parve la sua unica via di fuga. La aprí e, una volta sul balconcino, scavalcò l’inferriata e si lasciò cadere dal quinto piano giú nel cortile, evitando la tettoia che avrebbe potuta salvarla. Si illudeva che fosse un volo per poi risalire, a volo d’angelo. Ma non fu cosí. Non ci fu risalita. Cadde tra i rifiuti del cortile fracassandosi la testa e le ossa. Quei loschi figuri dovevano ormai vedersela con un corpo morto.
Si narra che i suicidi sostino a lungo sulla terra. La sua ombra uscí dal suo corpo e guardò in su. Affacciati alla ringhiera l’uomo biondo e i suoi scagnozzi guardavano soddisfatti il suo corpo disfatto. I discendenti dei cagoulards, che avevano accoltellato suo padre e suo zio, sessant’anni dopo, avevano raggiunto il loro scopo.