Roma, ottobre 2018
Uscendo di casa, l’ombra di Amelia mi balla davanti. Ed è come se mi guidasse in un luogo a lei caro. Rimugino sulla struttura di questo memoir, che somiglia a un sonoro rullo buddista, che Miss Rosselli amava far girare con i suoi versi. Scrivo con un linguaggio diaristico, inframmezzato da quello saggistico, spezzando il reale, proprio come faceva lei, cercando di fare innamorare il lettore di una delle figure piú magiche della poesia italiana.
La vita quotidiana di Amelia era quella di una donna sola che si alzava al mattino presto con le occhiaie, faceva colazione, preferibilmente con un tè, usciva per comperare soprattutto verdure al vicino mercatino, passava il pomeriggio nell’attesa di una telefonata amica per la sera. Rincasava tardi. Scriveva per lo piú nelle ore notturne, dormendo poco. Le giornate si ripetevano identiche a quelle di altre donne sole. Le eccezioni erano i farmaci e gli elettroshock in cliniche misteriose per i suoi amici. Ma lei era una poetessa. Aveva un’intensa vita interiore che a poco a poco si sostituí a quella reale, facendola a pezzi. Ecco perché non si può raccontare la sua vita esteriore. Diventerebbe un ingorgo di ripetizioni, come in un film underground. Quelle ripetizioni vanno immerse nel mare nero della sua vita interiore per riemergere come il corpo di una statua antica, da una sterminata antichità.
Mentre ragiono tra me e me, dubitando di tutto, incontro un amico, che mi chiede come mai sembro cosí stravolto, di che cosa mi sto occupando. «Scrivo di Melina» dico e quello, curioso, vuole sapere chi è, scherzando sui passaggi utili solo a far trascorrere il tempo dei giocatori di calcio. Gli rispondo con un sorriso e lo saluto. Attraverso l’arco delle vecchie mura aureliane, imbocco la Tiburtina. Davanti al supermercato Elite la questuante di pelle nera si è fatta un cane, che ogni tanto accarezza. Sarà qualche anno che chiede l’obolo, seduta su una cassetta per la frutta. È giovane, molto malmessa i primi tempi, mentre adesso sembra divenuta una sanlorenzina doc. Raggiungo i fiorai del Verano. Cammino tra i viali del vecchio cimitero monumentale. Pioviggina, ma non me ne curo finché la pioggia resta cosí fina. L’ombra di Amelia mi ha guidato fin qui. Dedico la giornata ai cugini Rosselli, mi dico, cercando la tomba di Aldo.
Li ho conosciuti entrambi nello stesso periodo, a metà degli anni Sessanta e solo rarissimamente li ho visti insieme. Al contrario di Amelia, Aldo aveva il culto dell’amicizia, era affettuoso, caldo, mentre Amelia si tuffava a corpo morto cercando amicizie amorose e poi all’improvviso spariva per un po’, tornando a cercarti dopo l’ennesimo elettroshock, come se tu fossi l’ultima sua Thule. Aldo aveva una invidiabile cultura angloamericana, alla quale Amelia aggiungeva quella francese. Due persone squisite, che hanno accompagnato la mia giovinezza fino a tardi, quando diventai padre e mi appartai. Amelia non aveva smesso di telefonare, né s’era mai dispiaciuta perché mi allontanavo, quando la mia vita assecondava nuove svolte sentimentali, o semplicemente quando cambiavo quartiere. Amelia preferiva la controra, come ho detto, quella della sua morte.
Mi perdo tra i viali finché non riconosco la cappellina dove si svolsero i funerali di Aldo. È chiusa. Mi riparo sotto la tettoia da una pioggia che è diventata insistente. Che strano tempo. A giorni quasi estivi si susseguono giorni invernali. Fin da quando sono sbarcato dall’Abruzzo a Roma, questo cimitero mi ha sempre attratto. Da liceale ci venivo per leggere i nomi dei defunti, per ammirare le tombe piú lussuose e quelle composte di una sola croce. Seguivo l’invito di Foscolo a passeggiare tra le tombe come se si trattasse di ricoveri di persone vive. Ci venivo la domenica quando, dopo aver dragato le ragazze meridionali, quelle che si riunivano davanti alla stazione Termini cinguettando nei mille dialetti del sud, lavoratrici domestiche per lo piú, disilluso dal magro bottino, mi avventuravo per San Lorenzo. Una borgata molto diversa da quella attuale, dove si respirava aria di paese, e finivo all’ingresso del Verano, dove pure si riunivano, nell’ampio piazzale pieno di fiorai, gruppi di ragazze che il loro giorno libero aveva rese allegre. I miei genitori sono seppelliti a Prima Porta, in una grande distesa di prati, la vera città dei morti, ma molto dislocata rispetto a Roma. Lí ci arrivo solo a novembre, per pregare davanti alle loro tombe e a quella di Sandro Penna, che quando mi incontrava esclamava ogni volta: «Renzino!». Adesso però sono invecchiato e le ragazze mi limito a guardarle. In altri tempi avrei attaccato bottone con la smilza turista giapponese con la mascherina sul volto che ho davanti. Saluta con un leggero inchino. Viene raggiunta da un gruppetto di sue coetanee e inizia la pioggia dei selfie.
Sono passati cinque anni dall’ultimo saluto ad Aldo. Entrai allora da un ingresso laterale, che immette nella sezione ebraica. Faceva molto caldo. Quella è forse la parte piú trascurata del grande cimitero. Le tombe sono nascoste da erbacce. Elsa Morante scriveva che il Verano è il polmone di Roma per via della sua rigogliosa vegetazione. Intravidi di lontano un gruppo di persone davanti a una cappellina. Riconobbi il figlio di Aldo Rosselli, dalla faccia di ragazzino, appena sbarcato da New York. Ci salutammo calorosamente. Una ragazza che lo accompagnava si schiaffeggiava i polpacci nudi, per via di fastidiose zanzare. Mordevano a sciami, sul volto, sulle mani. Finalmente arrivò una macchina lunga e scura. Quelli delle pompe funebri sistemarono la bara sotto il soffitto ovale della cappellina. Le zanzare non ci seguirono fin là dentro, per fortuna. Era d’obbligo coprire la testa con la kippà. Iniziò una nenia struggente. Non potei fare a meno di notare l’assenza di qualsiasi politico, anche di terza fila. Il nostro è un Paese senza memoria, del tutto spoliticizzato. Ci salutammo scendendo i pochi gradini come fossimo presi da una fretta indemoniata.
Negli ultimi anni Aldo entrava e usciva da cliniche site sui Colli romani. Ci vedevamo da ultimo nella sua casa zeppa di libri in via Milano, a discutere sul numero zero della sua rivista quadrimestrale Inchiostri. Fui piacevolmente sorpreso quando mi disse che era arrivato anche un articolo di Mauro Misul, il primo amore di Miss Rosselli.
Era ironico, affettuoso, il solo di quella eroica famiglia che avesse perdonato del tutto il silenzio di Moravia sull’assassinio di suo padre e di suo zio. I fratelli Rosselli non sono qui, riposano a Firenze, dopo un lungo soggiorno al Père-Lachaise.
Non resisto alla pioggia che ormai è fitta e fastidiosa. Torno indietro, correndo verso casa. Tornerò sulla tomba di Aldo un altro giorno. Mentre attraverso il grande piazzale zuppo di pioggia, all’imbocco di via de Carolis, mi fermo dinanzi all’obitorio. Quell’11 febbraio del 1996 il furgoncino con il corpo di Amelia, aveva oltrepassato il cancello e io ero accorso, trafelato, per vederla un’ultima volta. In Ragazzi a vita e altre storie di poeti avevo scritto: «Entro in salotto nel momento in cui un telegiornale mostra il volto imbronciato di Amelia. L’annunciatore comunica che la poetessa si è suicidata nel pomeriggio, buttandosi dal terrazzino della sua casa. Trascoloro. Corro in cucina. Marina, che ha sentito, ha la pelle d’oca. Mi abbraccia, come per difendersi dalla forza oscura che potrebbe dividerci per sempre. Mi metto a camminare avanti e indietro nel corridoio. Cado sul divano per raccogliermi ma non ci riesco. Il primo impulso è quello di telefonare a casa di Amelia. Il telefono squilla a lungo, poi cerco amici. Non trovo nessuno a quest’ora. È domenica sera, sono tutti fuori a cercarsi... Marina dice che ai suicidi fanno l’autopsia, che Amelia sarà finita certamente all’obitorio di piazza del Verano, non molto lontano dalla nostra abitazione. Se corro forse la vedo. Si è suicidata verso le quattro, le quattro e mezzo del pomeriggio. Fa buio... i lampioni rischiarano le cime degli alberi e il marciapiede è pieno di ombre... i fari delle macchine che vengono a una velocità sostenuta dal piazzale mi linciano gli occhi. Darei me stesso per vedere su questo marciapiede un piccolo corteo di poeti amici, ma davanti all’obitorio non staziona nessuno... Mi sento attraversato da tutto, come fossi un vetro trasparente. Compare un furgoncino bianco e azzurro, con due uomini che mi guardano senza curiosità. Prima che il cancello si richiuda entro e imbocco un corridoio, alla fine del quale c’è l’ingresso. Titubo per qualche minuto poi un giovanotto esce, dicendomi che non posso entrare, è vietato agli estranei. È uno che ha visto nuda Amelia, stesa su un tavolo... “Non è ridotta male. Ha il corpo di una ragazza” esclama...». Quella notte la sognai.
Un corpo gonfio, di una persona non piú giovane, cadeva da un terrazzino. Nel sogno ero appostato con il naso all’insú... il corpo era come fermo, volteggiava con una lentezza estrema, come quello di un astronauta nel vuoto. Ecco la testa con i capelli arruffati, poi i palmi delle mani aperti, la curva della schiena, come se il peso delle gambe e delle natiche costringesse il corpo ad accartocciarsi in posizione fetale. La visione era spezzata da un grido, che assomigliava di piú a una risataccia, di chi sa che non potrà mai toccare terra, che pur nel gesto estremo di buttarsi nel vuoto è convinta che rimbalzerà e riprenderà il volo. Soprattutto la pelle di quel corpo mi colpí, trafitta dagli ultimi raggi del sole. Aveva riflessi d’avorio, gli occhi sereni, d’aquilotto, il musino in un eterno broncio...
Dunque l’autopsia sul corpo di Amelia era obbligatoria, ma la sola idea di vederla dissezionata mi provocava il vomito. Volevano appurare se qualcuno, prima del volo, le avesse fatto del male, se l’avessero spinta, se fosse un suicidio o altro. Già, ma chi avrebbe potuto spingere una maga, se non la sua stessa volontà? Da quando nel 1966 Dario Bellezza me la presentò (eravamo a casa di Amelia dove Dario era un pigionante), ogni volta che penso a lei me la vedo comparire vestita da eterna collegiale, con una vestaglietta blu, sento la sua voce profonda che accenna al suo “sussidio” statale. Quelle tre s le pronunciava come solo Ungaretti sapeva fare, come fosse un verso di una sua poesia.
L’ombra di Amelia, che mi ha seguito fino al portone di casa, si allontana tra i pini e le palme del giardino. Entro in casa, mi siedo nella poltrobabbo di saviniana memoria, dopo aver sfilato dalla mia libreria il volume di Aldo sulla famiglia Rosselli. Si era deciso tardi a scriverlo. Alla prima lettura ero rimasto deluso, non era l’analisi dettagliata della vita di quei due eroi che io mi aspettavo. Aldo e Amelia nascondevano entrambi un sentimento inespresso nei confronti dei loro rispettivi genitori. Ma adesso quel libro mi affascina, sia nella parte della ricostruzione dell’amore dei nonni, sia in quella dell’assassinio. Mi sembrano due cammei. La Storia con la S maiuscola mi ha sempre interessato e quei due cugini avevano attraversato una Storia atroce, europea. A casa di Aldo, avevamo spesso parlato della “schizofrenia paranoide” di Amelia, che lei, per pudore, declinava in “morbo di Parkinson”. L’amicizia con Amelia durò da quando avevo ventidue anni fino a quando, nei primi anni Ottanta, nacquero i miei due figli. Non che tra il 1980 e il 1990 non ci vedessimo, di tanto in tanto, fino a quel 1994 in cui entrambi partecipammo al festival di poesia di Ostia, l’ultimo credo, due anni prima del suo suicidio. Cosí se penso agli anni Settanta, a tutto quello che accadde in quel decennio, non posso non pensare ad Amelia. Anche il Sessantotto fu una questione privata, in un Paese che non ha mai fatto una rivoluzione, solo orribili guerre civili. Cosí il volto di Amelia si mescola ai tanti volti di quel decennio insanguinato.
Voglio essere per l’ultima volta il custode di un mondo scomparso, evocatore di un’ombra, chiedendomi, perplesso, chi mai sarà il testimone del custode.