Nel 1939 tutta la famiglia Rosselli si riuní a Quainton, località piú sicura di quanto non fosse Londra. Marion ci rimase un mese e poi si spostò a Cambridge e nel 1940, frenetica, tornò in Francia sistemandosi a Nantes, presso l’amica Françoise. Parigi era infida. Un ictus le impedí l’uso di una mano e smise di parlare italiano con i figli. Con l’occupazione nazista Marion tornò con la famiglia in Inghilterra. Ma anche qui i nazisti bombardavano.
Bisognò ancora una volta fare le valigie, cercare scampo. Max Ascoli, un professore ebreo, li avrebbe ospitati a New York. I Rosselli si imbarcarono su una nave mercantile che lasciò il porto di Liverpool in agosto.
Melina aveva undici anni quando salí su quella nave con famiglie di ebrei che fuggivano dai nazisti. Avevano scelto un mercantile per non dare nell’occhio. Si sa che le merci sono sacre e inviolabili per tutti i capitalisti di questa terra. Per Melina era il suo primo vero viaggio, e non di piacere. Quando la madre li informò che bisognava andare a Liverpool e imbarcarsi per il Canada, Melina si chiuse in un silenzio ostile. Non capiva perché dovevano fare un viaggio cosí lungo, che cosa avevano fatto per dover fuggire. La madre aveva accennato a un suo amico americano che li avrebbe ospitati volentieri. Melina aveva annuito ma continuava a non capire. A undici anni era difficile vivere come se fossero degli appestati. C’erano dunque nemici invisibili che li cercavano per ucciderli, come avevano già fatto con suo padre e suo zio, le disse Aldo durante quel viaggio, sperando di stanarla dal suo silenzio. A New York si sarebbero divertiti, e molto, e anche lei sarebbe uscita dal suo monachesimo. Melina guardava suo cugino, assente. Era anche turbata da quel sangue mestruale che sua nonna e sua madre le avevano preannunciato.
«Cosí anche tu diventi una signorina» le aveva detto la madre e la nonna le aveva spiegato che lo sgocciolio sarebbe avvenuto del tutto naturalmente, che c’era da festeggiare lo “sviluppo”, che stava per diventare una vera donna. Del mestruo non bisognava temere.
Fu durante quel viaggio che nella sua vita interiore insorsero le voci nemiche. Fu su quella nave che cominciò a sospettare persino del comandante che, durante i pasti, le rivolgeva ogni tanto un sorriso. Melina all’inizio si rifiutava di mangiare, ma poi a poco a poco le tornò la fame. Avrebbe voluto sapere perché non potevano visitare la nave in lungo e in largo, perché dovevano rimanere tutto il tempo nella soffocante sala di lettura dove c’erano solo libri per adulti. Ce n’era uno sul porto di Liverpool, con le foto in bianco e nero degli accoglienti magazzini e di gente che andava e veniva, che prese svogliata a sfogliare.
Quel porto era stato per lei un luogo infernale. Benché fossero nel mese piú caldo dell’anno, faceva un freddo pungente e prima di salire sulla nave avevano dovuto pernottare in un albergo fatiscente, dove la gente guardava con sospetto quella madre cosí elegante, attorniata da ragazzini cosí ben vestiti. Melina spesso chiudeva gli occhi, un po’ per il freddo, un po’ anche per non vedere chi si muoveva frenetico lungo la banchina del fiume Mersey. C’erano dodici chilometri di darsena affollata di navi. La sua nave nell’Albert Dock li aveva caricati a bordo come se fossero stati merci. Quando finalmente raggiunse la sua cabina, insieme ai suoi parenti, compreso Aldo, sette in tutto, cadde sul letto inebetita e si addormentò. La nave andava lenta e sicura. Gli orari dei pasti erano comunicati dal cuoco di bordo. Non fu una crociera quella, e nelle cabine non c’erano gli oblò da cui sbirciare le onde e naturalmente niente piscina, cinema e altri passatempi. Nei primi giorni fecero anche esercitazioni di salvataggio. Melina si rifiutò, mentre Aldo obbedí.
Una sera dopo cena, nel bel mezzo della traversata, rientrò da sola nella sua cuccetta, dove dormiva con la madre e la nonna. Suo cugino Aldo dormiva in una seconda cabina con altri parenti. La luce artificiale illuminava a giorno il suo lettino, su cui si sdraiò per starsene in pace. Si era a poco a poco abituata al rollio della nave. Non sognava piú l’incubo delle onde alte come grattacieli, che sommergevano la nave e l’affondavano. La solitudine aveva cominciato a darle una nuova e inaspettata sensazione di sicurezza fisica, prima ancora che spirituale. Spostò il cuscino sugli occhi e per un momento non vide piú nulla.
All’improvviso le sembrò di essere diventata cieca, tanto il buio si era fatto fitto. Tolse di scatto il cuscino dagli occhi e si accorse che la luce si era spenta, facendola piombare in una notte nera. Sarà andata via la luce elettrica per un poco, pensò, tranquillizzandosi. Ma quel buio sembrava stabile. Allora si alzò e a tentoni cercò la porta d’uscita. Si fermò come paralizzata in mezzo alla stanza, senza voler andare né avanti, verso la porta, né indietro, sul suo lettino. Fu allora che insorsero dentro di lei voci di volti truci che sembravano grida. Dal corridoio della nave, la raggiungevano le voci dei passeggeri, che si chiamavano l’un l’altro, aprendo e sbattendo le porte. Non era certa che qualcosa di grave stesse accadendo davvero. Forse sognava e neppure si era mai alzata dal suo letto, o forse quelle voci erano solo effetto della paura di una ragazzina sperduta in mezzo all’oceano. Sentí bussare, ma non aprí. Riconobbe la voce di sua madre che la chiamava e le ordinava di aprire la porta, che era andata via la luce in tutta la nave e che per una notte sarebbero restate al buio. Allora si fece forza e aprí. La madre non le rivelò che era stato il comandante a spegnere le luci, dopo aver avvertito la minacciosa presenza di sottomarini nazisti. Con le luci accese, la nave sarebbe stata presa di mira e avrebbe finito per essere affondata. Le disse solo di un guasto momentaneo. La madre l’abbracciò e lei la respinse. Scoppiò a piangere e per tutta quella prima notte al buio immaginò di essere scoperta dai nemici del padre, quegli stessi che lo avevano cosí barbaramente ucciso. Uno di loro, biondo, molto giovane, le puntava il dito contro, ingiuriandola in una lingua sconosciuta. Aveva occhi di fuoco, neanche fosse il diavolo in persona. In un lampo la cabina si affollò di gente armata di coltelli. Melina svenne.
Nell’ultima parte della traversata, ormai in salvo, tornarono finalmente le luci e i discorsi immaginari sul Canada sempre innevato, sulle strade lastricate dal gelo, un vero e proprio scivolo se non si avevano scarpe adatte. E certo avrebbero incontrato feroci orsi e lupi e altri animali selvatici. Aldo e Amelia già rimpiangevano il sole d’Italia.
Scampati ai sommergibili tedeschi che infestavano l’oceano, arrivarono finalmente a Montréal, in Canada. Il Canada era in guerra contro il nostro Paese e gli italiani erano indesiderati. Ancora una migrazione. Da Montréal arrivarono a New York, dove erano attesi da Max Ascoli e Gaetano Salvemini. Dal 1941 i Rosselli vissero in un ricco sobborgo di NewYork, a Larchmont. Marion cambiò diversi indirizzi prima di sistemarsi in due stanze e cucina. Melina abitava finalmente con la mamma, da sola, visto che John era andato a studiare nel Massachusetts e Andrea viveva con la nonna. Una vicina, accogliendoli, li rassicurò dicendo che non c’era da temere, visto che a Larchmont non c’erano negri né ebrei. Melina esclamò fiera: «Ma noi siamo ebrei!».
Pur odiando la madre, Melina non faceva che imitarla, anche nel modo di camminare. Voleva essere lei, voleva chiamarsi Marion. E quando finalmente divenne “signorina”, le parve di essere diventata una donna adulta come la madre. La nonna aveva comperato una torta e avevano festeggiato quel passaggio importante nella vita di una ragazzina. Quando Melina sentiva addosso gli occhi di uno studente, rispondeva con uno sguardo che voleva duro, adulto. Sono una donna ormai, mica un impiastro come te. Al ritorno da scuola, accompagnata da Aldo, sopportava gli insulti di ragazzi che a muso duro gridavano: «Tornatevene a casa, sporchi ebrei!». Melina non capiva l’astio di quei ragazzi, anche di quelli di colore. Lei e Aldo non sapevano che rispondere e filavano diritti a casa. Non confessavano di certo ai loro parenti quegli affronti, che appena ascoltati erano già dimenticati, salvo poi sognarseli di notte. A scuola non aveva fatto amicizia con nessuno. Seduta all’ultimo banco, per tutto il tempo delle lezioni guardava alla finestra, sognando di uscire. Le costava anche chiedere il permesso di andare al bagno quando si accorgeva del mestruo che colava. Ascoltava soltanto quando l’insegnante leggeva e commentava una poesia. Il suono di quei versi la riportava alla sua insorta passione per la musica, ostacolata dalla madre, che preferiva pur sempre che lei si concentrasse sui libri scolastici. Nella sua “verde adolescenza” Amelia spesso era presa da una allegria improvvisa, come raccontano le sue cuginette, anche se subito dopo tornava musona. Le piaceva danzare in tuta davanti alla nonna per farla sorridere compiaciuta della sua bravura.
Andai a New York nel 1973, per un convegno letterario dove i relatori piú famosi erano Franco Fortini, che portava con sé diverse copie di Questo muro per un editore americano, e Alberto Asor Rosa, che però appena giunto all’aeroporto seppe della morte del padre e tornò indietro. In quell’occasione visitai Little Italy, il Bronx e il Village, pensando ai tanti romanzi e film su quei luoghi. Non riuscii allora a visitare il sobborgo di Larchmont, di cui avevo sentito parlare da Amelia stessa, perché la mia prima moglie, Biancamaria Frabotta, aveva preso appuntamento con dei professori di Boston che ci avrebbero ospitati nella loro bella casa sul fiume. Femminista della prima ora, Biancamaria volle risalire la strada del romanzo Le bostoniane. Oggi con internet mi è stato facile passeggiare in quel sobborgo, sia pure solo con l’immaginazione. Clicco Larchmont, seduto davanti al mio computer, come Ludovico Ariosto davanti al suo mappamondo. Larchmont è a una trentina di chilometri a nord di Manhattan. Quando ci visse Melina, contava non piú di seimila abitanti, con palazzi solidi che andavano da un colore marroncino a un rosato slavato, con una strada delle scuole e una grande e bella public library. Naturalmente internet è interessata soltanto alla pubblicità degli alberghi, dai piú lussuosi ai meno costosi. L’impressione è quella di un quartiere borghese. Vi abitarono attori famosi come Maurice Barrymore, scrittori come Edward Albee, e quelle strade conobbero anche i passi perduti di Robert Frost. In una nota di una delle tante pagine online si parla anche del soggiorno in quel village della poetessa Amelia Rosselli. Negli States e in Europa, Amelia è tradotta e commentata ed è considerata una star internazionale. Ossessionato dagli elenchi degli hotel, chiudo.
Dopo aver letto i ricordi di Aldo Rosselli, all’improvviso ascolto la voce adulta di Amelia e rabbrividendo la trascrivo fedelmente, come fossi uno sciamano. Di che mi meraviglio? L’ho evocata e la sua voce è riaffiorata come da un pozzo profondo. Sono io adesso il medium, non lei, che tra il gioco del bicchierino e le frequenti consultazioni de I Ching, la sapeva lunga sull’evocazione delle ombre.
«Fin da piccola sono stata visitata da voci di ogni tipo, di cui ignoravo la provenienza e come tutte le bambine parlavo con i fantasmi. Man mano che crescevo quei fantasmi, all’inizio buoni e socievoli, diventarono cattivi e mostruosi. Non andava bene nessuna cosa che facevo, a cui pensavo, al punto che a volte li vedevo incarnati nei miei parenti che mi rimproveravano la mia mattità. Ma ero io che parlavo in quel modo maleducato o erano i fantasmi a parlare in vece mia? Iniziai a vivere in un mondo parallelo, fatto di persone reali ma che non parlavano come nella realtà. Era gente di cui dovevo sospettare, non dicevano mai la verità e quando mi accusavano o mi cercavano, lo facevano perché volevano farmi del male. Ero seduta sul divano con i miei cuginetti, ma non stavo mai con loro e quando mi chiedevano perché avessi quella faccia tesa, non sapevo che rispondere. Se avessi raccontato loro che in quel momento ero in una valle dove il vento fischiava forte, e che mi ero rifugiata dentro una caverna piena di insetti giganti, non mi avrebbero creduto. A volte questo mondo altro si sovrapponeva del tutto a quello reale e mi mettevo a gridare. Mi bastava la carezza di mia nonna per farmi tornare nella realtà, per farmi bere il tè e spiccicare qualche parola graziosa. Mi succedeva anche quando tornavo da scuola, per strada. La strada che avevo davanti sprofondava ed ero sempre in quella valle ventosa e mi avvicinavo invece che a casa nella caverna mostruosa. Chiudevo gli occhi, poi li spalancavo, li strabuzzavo, per togliermi di mente quelle immagini ossessive. La ragazzina della valle poi non ero io e mi chiedevo impaurita chi fosse e cosa volesse da me. Quando gli uomini adulti cominciarono a guardarmi il petto e a voltarsi, credevo che fossero tutti emissari di quell’orribile caverna e correvo all’impazzata verso casa. Se qualcuno poi mi fissava negli occhi bloccandomi in una strada deserta, mi mettevo a gridare prima di aver capito cosa volesse da me. La mia nemica è stata la mia mente e quando scoprii la musica mi buttai in quella passione senza indugi. La musica non mi faceva immaginare niente, la ascoltavo e basta e quando mia madre mi sgridava perché mi voleva piú scolastica e positiva, non le davo retta e senza darle spiegazioni continuavo ad ascoltare musica. A volte mi chiedevo se anche le mie amichette di scuola fossero sprofondate nella loro mente, ma dai loro occhi ingenui non sembrava e quando mi guardavano interrogative ridevo. Ridere era la mia liberazione dagli intoppi della vita.
«Che buffi i ricordi, tendono al miele, mentre in realtà la vita mostra sempre la sua durezza. Mia nonna ci ricordava l’Italia leggendo Dante e lo commentava con una voce dolce e serena. Immersi nell’ambiente linguistico americano, facevamo fatica a seguirla. Ci invitava a sedere accanto a lei, quando apriva la Divina commedia e iniziava a leggere. Era piú un disturbo linguistico che altro quell’Italia cosí lontana e che io conoscevo cosí poco... Come appartenere a una lingua che non parlavamo quasi mai?
«Dal 1942 frequentai la Mamaroneck Senior High School, insieme alla cugina Paola che veniva con me a fare equitazione. Paola mi voleva bene ma io ero scontrosa anche con lei. Avevo difficoltà fin d’allora ad avere rapporti di amicizia con le ragazze. Mi sembrava che non potessero aiutarmi a uscire da quella tensione che suscitavano le voci dentro il mio corpo, a non avere piú soltanto il mio io dentro di me. Le voci, che all’inizio erano una o due, divennero presto diverse e in contrasto tra loro. Fiorivano per tutto il corpo. C’erano voci che sgorgavano dal petto, altre dalle mani, altre dalle cosce ed erano tutte in contrasto tra loro. Non sapendo a chi obbedire, le lasciavo parlare, perdendo il senso della realtà, dimenticandomi chi fossi. Ero come un vaso vuoto, riempito da voci spesso accusatorie, contrastanti, incomprensibili, che tuttavia mi facevano pensare di rifugiarmi da qualche parte per non sentirle piú. Non ne potevo parlare nemmeno con mia cugina, altrimenti quella lo avrebbe riferito a mia madre, a mia nonna e io non sapevo spiegare del tutto quello che mi succedeva.
«Durante gli anni del ginnasio e del liceo, d’estate, andavamo a lavorare nei campi nel Vermont, con tutti i miei cugini. In mezzo alla natura imparai ad andare a cavallo, anche se mi annoiavo presto e a volte volevo scendere quando l’animale era in corsa. Non riuscivo a fare niente che mi soddisfacesse fino in fondo; i lavori pesanti come tagliare gli alberi mi prostravano. Mi piaceva mungere le vacche invece. La tenerezza delle loro mammelle gonfie e arrossate e quegli occhi grandi e dolci cosí materni mi rasserenavano. Ma la natura, al dunque, mi innervosiva come la città. Non stavo bene in nessun luogo, men che meno nella mia mente e quando mi sedevo a guardare il paesaggio, sentivo bisbigli dentro di me che mi facevano chiudere gli occhi e riaprirli con una velocità impressionante. Si trattava di voci fastidiose come punture di zecche, quelle che pungevano le mucche e le facevano sanguinare, nonostante la lunga coda in movimento cercasse di allontanarle. Sgranavo gli occhi per vedere meglio il paesaggio ma sembravo diventata cieca. Il mondo per me, anche quello selvaggio, aveva una consistenza di gomma, come i muri dello stanzone dove dormivamo.
«La domenica ci infilavamo nei boschi trotterellando, cercando di salire sugli alberi. Io mi arrampicavo fino in cima per sfuggire alle voci e alla comitiva che, al postutto, mi innervosiva. Se qualche ragazzo mi fissava, preferivo fuggire, gli occhi adoranti sembrava mi insultassero. Mi calmavo il pomeriggio inoltrato quando seduti in circolo la direttrice ci obbligava a parlare della nostra esperienza in quello che per lei era l’Eden. La mia malattia si accentuò in quelle strade. Non era tanto il ricordo di mio padre assassinato dai fascisti ad avermi cambiata, molto di piú quel viaggio misterioso e pericoloso sulla nave mercantile e la permanenza in quel sobborgo. Che cosa mi era successo di cosí grave da spingermi a chiudermi, a parlare con me stessa, a stare sola, a non volere nessuno nelle mie vicinanze? Avevo paura che il vaso di cristallo che ero diventata si frantumasse e cadesse per terra in mille pezzi.
«A tredici anni, nella lunga vacanza estiva, sentii per la prima volta il suono di un violino. Ho già detto quanto mi piacesse ascoltare la musica, soprattutto quella classica, quanto mi rasserenasse. Me lo mise in mano la nostra direttrice Elsie Powell, che iniziò a insegnarmi l’uso dell’archetto. Quel suono cancellò le parole e il loro tono e mi sembrò di aver scoperto finalmente un linguaggio universale. Mio nonno era stato un musicista, aveva composto barcarole, appassionato della musica fin da ragazzino, anche se non ebbe successo, rammaricandosene per tutta la vita. La direttrice che con me presentava la sua faccia buona, con la mamma ne mostrava una cattiva. Disse a mia madre che ero sempre tesa e nervosa, insomma la mia fragilità non era stata intaccata nemmeno dal meraviglioso suono del violino. Erano tutti preoccupati per me proprio quando mi sembrava di cominciare a essere felice. Iniziai allora a interpretare quello che c’era sotto le parole di chi mi avvicinava. Persino mia cugina, che davanti a me era sempre gentile e disponibile, dandomi sempre ragione, appena mi voltava la schiena diceva che ero un tipo poco raccomandabile. A me piaceva dire la verità in ogni occasione e la gente non la gradiva. Mi stancavo facilmente anche a prendere lezioni di violino, anche se la musica mi sembrò finalmente la mia vera patria. Era quella una lingua universale, che tutti capivano senza traduzioni o particolari sforzi o cosí mi sembrava. Mentre mi applicavo al violino, le voci, che provenivano dalla caverna del mio corpo adolescente, si attutivano e scomparivano del tutto. Succedeva la stessa cosa a lezione di danza, quando indossavo la mia tuta e volteggiavo felice.
«Ho trascorso tre anni di felicità accanto a mia madre. Volevo essere anch’io al dunque seduttiva come lei. Aiutavo in casa quando ce n’era bisogno. Mia madre era tutta per me. Mi sembrava di averla finalmente vicina, lei che in Europa non c’era mai. Creavo sospetti, come fossi una ragazzina troppo scontrosa, per nulla amabile.
«A scuola un giorno la prof mi mise in mano un libro di poesie di Robert Frost, di cui subito mi innamorai. Aveva sofferto di depressione, la madre gli era morta quando aveva undici anni, la sorella minore morí in un ospedale psichiatrico come sua figlia. Aveva avuto una lunga vita, costellata di tragedie. Fu il mio primo poeta. Mi sembrava di non sentirmi piú fuggiasca, perseguitata, sia come antifascista che come appartenente a una famiglia ebrea e quacchera. Musica e poesia mi consolavano. La primavera mi incantava. Anche se non avevo molti amici, mi sentivo nel mio dentro amica di tutti e anche la storiaccia di mio padre sembrava l’avessi alle spalle. Ma i miei nervi erano sempre tesi e nonostante avessi dentro di me tutto il mondo, mi sentivo solissima, pronta a esplodere per un nonnulla. La vita di quella verde adolescenza newyorkese è certo legata al ricordo, che ama soltanto gli sprazzi di luce, nascondendo le tenebre. Anche la memoria, al dunque, ha una natura schizofrenica. I ricordi modificano la vita, hanno pietà delle ferite purulente. Mi colpí delle poesie di Frost quella intitolata “La strada non presa”. L’aveva scritta nel 1916. Finiva cosí: “Divergevano due strade nel bosco! E io... io presi la meno battuta... E di qui tutta la differenza è venuta”.
«Alcune frasi del poeta rimaste famose, come questa, mi colpirono nel profondo: “Quando ascoltate qualcuno che parla, sentite parole, certo, ma sentite anche dei toni... come metti su carta questi toni... come esponi il tono, la poesia è quando un’emozione ha trovato il suo pensiero e il pensiero ha trovato le parole... essere poeta è una condizione, non una professione...”.
«Mi ero subito interessata alla faccenda del tono della voce, del come trascriverlo. Anche la poesia dunque era una faccenda musicale. C’era poi una poesia intitolata “Polvere di neve” che mandai a memoria: “Il modo in cui un corvo / Di sopra una cicuta / Scrollò sopra di me / Una neve minuta / Diede al mio cuore un tale / Mutamento di umore / Da salvare un mio giorno / Ormai senza valore”.
«Al dunque Frost era il poeta degli opposti che cercava inutilmente un equilibrio. Poi lessi Pound, gli imagisti mi piacquero di meno di Eliot. Intanto proseguivo le mie lezioni di violino. Con la gioia di mia nonna che riviveva in me la passione di quel suo marito matto».
Nella primavera del 1945 un altro ictus colpí Marion. Si recò in Florida per curarsi, i figli rimasero con la nonna. La musica per Melina era il superamento di quelle lingue, tre, che parlava male; divenne la lingua internazionale con cui credeva di potersi esprimere liberamente. Musicò una poesia di Blake. Intanto la fine della guerra risospinse i Rosselli in Italia, ma dovranno attendere la guarigione di Marion prima di partire.