Il poemetto La libellula, che inizia il secondo libro di poesie Serie ospedaliera, pubblicato dal Saggiatore in formato gigante nel 1969 e con la stampa che alludeva al ciclostile, apparve molto ridotto rispetto all’originale. Amelia avrebbe voluto stamparlo da solo, visto che nella prima stesura raggiungeva le cento pagine, ma non ci riuscí. Già sul Verri, dove comparve nel 1963, in seguito alla sua partecipazione al convegno di Palermo, fu accolto come un gioiello riassuntivo delle poesie precedenti e subito Amelia divenne la libellula blu che vola libera e anarchica su tutto. Il poemetto, datato 1958, ha come sottotitolo «panegirico della Libertà». Fu presentato dall’autrice con queste parole: «Il titolo La libellula vorrebbe evocare il movimento quasi rotatorio delle ali della libellula e questo in riferimento al tono un po’ volatile del poema. La libellula potrebbe anche evocare le parole “libello” e “libertà”; infatti il poema ha come centro la libertà e il nostro, il mio “libellarla”».
Aggiunse che la sua struttura potrebbe assomigliare al drago cinese che si morde la coda, al “rotolo” di preghiera cinese. Il riferimento è a Jung e a I Ching. La libellula, con il solito linguaggio arcaicizzante, inizia con i funerali di Pio XII e l’accostamento di suo padre Carlo e suo zio Nello, «con tutti i lumi del santo padre accesi». Il tentativo di definirsi al negativo, e comunque sempre dubbiosa, la spinge a servirsi di versi di Campana, Scipione, Montale, ma anche di Rimbaud, di Lautréamont e di Eliot. La metapoesia, che esisteva già in Variazioni belliche, deriva dalla musica dodecafonica e non da Blanchot, che teorizzò ne Lo spazio letterario la letteratura fatta con la letteratura, la metaletteratura.
A questo proposito ricordo le discussioni avute con Amelia quando scrivevo la mia tesi di laurea sulla metaletteratura italiana, usando i teorici francesi e gli scritti sul metaromanzo di Mario Perniola, che li aveva imitati. Nella tesi, pubblicata poi in parte su Nuovi Argomenti, parlavo di romanzi italiani da Pirandello a Gadda, mentre lei era interessata soprattutto alla ricucitura delle voci poetiche e a un citazionismo senza virgolette, anche dei suoi versi precedenti. Questo per dire quanto quei giovanotti della neoavanguardia avessero influenzato anche me. «Io sono una che / sperimenta con la vita»... «Io non so se scrivo per incanto o per travagliata / pena», dove l’incanto era questo linguaggio alto ritrovato e la pena era quella privata della sua psiche disastrata. «E il delirio mi prese di nuovo... mi spinse sulla porta della follia».
Neoromantica Amelia? Nemmeno per sogno. Lei sa «che nessuno sa chi ci ha messo la briglia in bocca... piú morta che savia... e io non so cosa cerco». Lo stato confusionale permane: «I miei vent’anni / mi minacciano Esterina / con il loro verde disastro». È verde l’adolescenza in Amelia ossessionata da «le trombe delle scale» della solitudine, fino ad arrivare alla «rovina» «finale».
Non si può leggere l’intera Serie ospedaliera tenendo presente soltanto la sua biografia, bisogna stare dentro la sua idea di poesia universale, raggiunta attraverso la metapoesia, quella per cosí dire dodecafonica, anche se la presenza dei suoi genitori, di Rocco Scotellaro «il contadino dalle mani lunghe» e di altri che risultano irriconoscibili è il sottotesto. La densità oracolare, nel senso della “auscultazione” di questi versi, è legata pur sempre al privato. La libellula nel testo non è mai nominata, a differenza della parola “libertà” che compare però una sola volta. Preferisco pensare a una libellula rossa, anche se ve ne sono di blu bellissime e il blu, come sappiamo, era il suo colore preferito. Mi hanno sempre colpito i loro accoppiamenti che possono arrivare a durare anche cinque minuti, facendole assomigliare a cavallucci marini, nelle loro leggerissime torsioni di piacere.
Avevo deciso di intitolare Melina questo memoir, ma poi la persona stessa che ho conosciuto, sempre in volo, mi ha suggerito di usare il nome della sua poesia: La libellula. «Passò anche Amelia, volava come una tunica», cosí Giovanni Giudici la ricorda ne Il ristorante dei morti, alla sua prima apparizione in una via del centro di Roma. Infine ho deciso che le sarebbe piaciuto Miss Rosselli, un omaggio alla sua voce straniera e poliglotta. Era una vera Miss e non solo agli occhi del popolino romano di cui si era innamorata da subito.
Stava scrivendo Serie ospedaliera quando ci conoscemmo. Ricordo la sua rabbia nei confronti degli editori che rifiutarono le sue indicazioni di formato, dopo le promesse di stamparla. Garzanti era diventato il mostro che le aveva fatto sapere che in due anni dalla pubblicazione di Variazioni non ne aveva venduto nemmeno una copia. «Che bugiardo» si lagnava, «se ne ho comperata una copia io stessa!». Alla fine trovò il Saggiatore che la accontentò.
Serie ospedaliera riguarda molto da vicino i suoi ricoveri con quegli elettroshock ormai richiesti da lei stessa, che la facevano tornare pur sempre con la memoria libera di ricominciare, come una tabula rasa, pronta a riempirsi di parole e di immagini. Nei suoi pensieri c’era ovviamente la “pan-musica” che doveva diventare la “pan-poesia”.
In una nota per l’editore scrive: «Il titolo è scelto in risposta al primo libro; grosso modo l’ospedale considerato come logica conclusione di eventi infatti “bellici” anche se questi sono quasi tutti interiori. Il termine “serie” è da intendersi nel suo significato piú semplice; cioè “serie”; vorrei con la parola serie dare carattere di “neutralità” all’alternarsi dei temi e delle forme (le poesie sono in stretto ordine cronologico). Però la parola serie può anche riferirsi alle serie matematiche, tendenti a zero a uno a X: si riferisce inoltre alle serie dodecafoniche. Vi è infatti nella seconda parte del libro una poesia dedicata alla musica. Gli eventi bellici sono quasi esclusivamente interiori e la Storia ne è fuori. Ormai c’è solo la gloria del mercante, la ricerca poetica non è piú considerata».
Per la prima volta compaiono poesie dedicate a Aldo Braibanti, a Massimo Ferretti. In quella per Braibanti, poème en prose alla Baudelaire, scrive: «Ma nel manicomio vi era chi gareggiava: anche per un vestito a brandelli puliti, immaginari: Immaginando la tua causa persa, sentii nelle viscere perdersi le lacrime che per te non tondeggiavano. E allora pulita mi misi a scrivere questi versi noiosi, tanto eri suicida.... Tu dormisti. Poi ti svegliasti, ribelle come sempre, d’una ribellione lucida ma grottesca... Forse tu eri magnifico, incendiato, di un vero caso, magnifico nel tuo barattare rondini per formiche».
E le sue poesie, come sappiamo, sono piene di rondini e formiche. Per il giovane poeta Massimo Ferretti, dapprima pasoliniano e poi convertito alla neoavanguardia, scrisse una “Brutta poesia per te”: «A rapidi colpi sicuri: ti porto la mia festa, il mio / festeggiare la vana gloria, in un incantesimo di mercanti / e una industriosa prole. I ponti giganti sono nani / quando scendo dal mio benedetto tetto, e avanzo, una / avanguardia sicura-(sicurissima nella pleba, un po’ / misteriosa per noi). // Ma nel trovarti-occupato a limare asfalti-, scendo / dal mio letto, raggiungo il tetto, e ti bastono. Oppure / vi rimango su, incerta se benedirti o carpirti, insomma / promiscuamente mischiata al cielo, che caprino come / il latte, non promette. // E non promette di storpiarti: o di ricopiarti, vuole / solo prendere la rivincita, e espropriarti». In una poesia che segue si può leggere: «Incerte le sue pretese, e il fiorame in / lutto ammonisce. Mitragliata da un fiume / di parole, arguisce, sceglie una via, non / conforme alle sue destrezze». Al solito è alla ricerca di un codice espressivo universale. La sua è, al postutto, un’avanguardia personale. «Disfatta dalla pioggia / e dai dolori incommensurabile mestruazione / senilità che s’avvicina, petrolifera / immaginazione».
In “Dialogo con i poeti”, accennando al poeta suicida Lorenzo Calogero, scrive: «Ironicamente fasulla, o v’è una verità? Ch’io / possa dire anche tua?... seppi che t’eri sparato / con un colpo secco alla nuca... E al tocco ti rividi, morto sul pavimento, sbandierare / nonsensi, stirarti la camicia ai quattro angoli / e alla terra sputando pedate conformiste».
Ancora il suo Rocco: «Nella camera stavi sdraiato sul letto stretto / ad apparirmi compagno...». «Ma tu non dinanzi anzi ti riposi steso / sul lettino d’ospedale dove c’incontrammo / fu un baciamano cortese».
Nelle ultime venti pagine di Serie ospedaliera campeggiano l’Abruzzo montano e il paesino di Capracotta, dove era andata tutta sola a villeggiare. È uno dei paesi piú elevati d’Italia con i suoi millequattrocento metri, nelle vicinanze delle piú note Roccaraso e Castel di Sangro, stazioni climatiche estive e invernali. È noto come il paese delle macellerie. A Capracotta la neve può raggiungere i cinque metri. Le devote abruzzesi vi si recano in autobus ancora oggi nei giorni del pellegrinaggio in onore della Madonna di Loreto, quando si svolgono suggestive cavalcate notturne.
«Si staglia netto il campo, e il / cielo (color pattume) rifiorisce / nell’altitudine, permettendoti / noie, silenzi, e gioconde risate / interiori, mentre il sole scava // Di sera s’alza un vento perspicace / ribelle di sua natura, ma umilmente / impiegato a spazzarmi gli occhi / di pulci //...Ma io nel mio armadio ho cose buone / friabili per la vista di queste / montagne inoperose che tutti dànno / al mio sovvenirmi della fame // Ho anche una tristezza nel ginocchio / che non si piega a tutte le passeggiate / ma infedele domanda grazia e anche / costanza».
«Di sera il cielo spazia, povera / cosa è dalla finestra il suo bigio / (ma era verde) ondulare. Oppure // colori che mai speravo di riconquistare / abbaiavano tetri al davanzale... // Non è la casa (cucita con le mattonelle) / a farti da guida; è il mistero / disintegro delle facciate aeree // che ti promette gaudio sottilmente».
E ancora: «Quando torni / in pensione ti metti in ginocchio. // O vorresti ma non puoi».
Sempre «seguita da mosche», le parole le sembrano «animali perplessi». E nel paese: «I bambini sono i padroni del paese... Vi sono solo donne in gramaglie, vecchie ninne-nanne / e il voler essere concittadini, come / gli altri... solo donne con il turbante o altre scimmiotterie / i bimbi giocano con l’arpa, tenendo in mano / un ramo».
I suoi versi abruzzesi le sembrano sterili, danno «il piacere di sapersi sterili». In tutta quella luce davanti alla Maiella il «lamento di sentire in sé piú / voci, le miserande». Gli ultimi versi dicono: «Cercare nel sonno che concede qualche mal / posto ristoro un’ombra gracile che fu quella / giovinezza persa fra stenti quando doravi / il libro d’ore».
Piú che Dino Campana, campeggia nel suo secondo volume ancora Eugenio Montale, ma anche Petrarca e Dante fanno la loro parte, per quel suo desiderio mai domo di riscrivere il sonetto antico. L’ossessione di Montale forse era dovuta all’assenza dell’io, che li accomunava. Il suo voleva essere un io diviso, alla Ronald Laing, un io plurimo. A ben vedere, anche le poesie abruzzesi, dettate dall’amore per la solitudine, rispecchiano la crisi del codice universale che investe la musica e la poesia insieme. Tutto il libro risulta intessuto dalla «obbligatoria crudeltà» della vita vissuta, aprendo a Documento il terzo fiore, abbandonando le afose ricerche di una poesia troppo alta per soddisfarla in clinica.
Fin dagli Spazi metrici voluti da Pasolini alla fine del suo primo volume, e lungo l’intero arco della sua produzione poetica, Amelia sentí il bisogno urgente di informarci su come architettava i suoi versi, forse pensando allo splendido libro di Majakovskij intitolato Come far versi. Solo che il poeta russo raccontava di appuntarsi le frasi che lo avevano maggiormente colpito mentre viaggiava dentro autobus rumorosi, accanto al suo popolo. Amelia invece viaggiava per lo piú dentro il mare nero del suo inconscio, della sua disastrata vita interiore. La spingeva il desiderio di mettere ordine dove l’ordine proprio non c’era. Dunque il puntiglioso discorso metapoetico che rilascia in saggi e note per l’editore nasce dalla terribile paura di affondare nel suo «buco nero». I poeti di cui dice di servirsi in pratica sono i vertici della poesia mondiale, da Omero a Virgilio, da Cavalcanti a Dante, a Petrarca, all’Ariosto, a Leopardi, a Campana, a Montale, a Calogero e, per la poesia angloamericana, da Donne a Shakespeare, a Shelley, a Pound, a Eliot, a Joyce, a Frost, a Hopkins, alla Plath e poi, per quella francese, da Ronsard a Baudelaire, a Corbière, a Rimbaud, a Mallarmé fino a Proust, a Breton. Seduta davanti alla sua macchina da scrivere è sempre attorniata dalla pleiade mondiale dei poeti, anche quelli cinesi e greco-latini.
Soltanto una volta si scusò con un editore di mettere le mani avanti, improvvisandosi critica di se stessa, quando invece avrebbe dovuto lasciare ai critici di professione lo sbroglio della matassa della sua metapoesia. Pasolini credeva che dietro una bella poesia dovesse risentirsi l’eco della voce di tutti i grandi poeti del passato. La stessa cosa valeva per Amelia, solo che la paura della sua malattia la spingeva a una puntigliosa razionalità critica, denunciata da subito anche dai suoi psicanalisti. In altre parole, cosa aggiungono i ripetuti “spazi metrici”, quel suo voler coniugare a tutti i costi la dodecafonia alla bellezza dei suoi versi, nati tutti dalla sua frantumata vita interiore? Vi sarete accorti che finora non ho fatto altro che cercare la sua vita nei suoi versi, anche quando la recita è d’obbligo e sono citazioni senza virgolette. Era una straniera, certo, e neanche troppo isolata da noi se con l’aiuto di Bazlen e di Moravia era entrata da subito nel gotha della nostra poesia. Quando venne invitata a leggere al convegno di Palermo, si presentò come una «étrangère» trilingue, che guardava quei giovani come attardati provinciali. Ma era proprio cosí? La leggenda della sua malattia, che leggenda non era, la spingeva a sottovalutare i poeti della sua stessa generazione, andando contraddittoriamente, lei scoperta da Pasolini, nella tana del lupo.
Aveva subito altri lutti significativi, come quello di Bazlen e di Bernhard, continuando ad aspirare alla “pan-musica”.
A metà degli anni Sessanta, ricevette da Giuseppe Saragat, eletto presidente della Repubblica, un contributo una tantum per la sua opera letteraria. Attraverso l’interessamento di suo fratello gli ex azionisti, da Parri a Terracini, cercarono di farle avere una pensione. Dopo la perdita dei suoi psicanalisti fu costretta, in mezzo al decennio del boom economico, ad approcciarsi con altri dottori della psiche come Emilio Servadio. Dacia Maraini la introdusse nei salotti romani, dove lei, pur frequentandoli, si vedeva al solito come un animale estraneo all’ambiente borghese. In questo molto simile a Moravia, a Pasolini e alla Morante che quell’ambiente frequentavano criticandolo. L’unico poeta fuori dalla Storia era Sandro Penna, altro suo maestro. Un turbinio di incontri, di scrittori, musicisti e poeti interessati a lei, anche sentimentalmente. Uno tra tutti Paolo Volponi, che la corteggiò serratamente, ma Amelia era stanca di “amorastri”. Era ancora bella a trentacinque anni e splendeva con la sua innata eleganza. Aveva amoreggiato con uomini piú grandi di lei, alla ricerca pur sempre del padre che avrebbe voluto sposare. La parola “sterile” che si incontra nei suoi versi la dice forse lunga sui suoi desideri frustrati.
Nel 1966, dopo la vacanza a Sperlonga presso un’amica pittrice, Aldo Braibanti le presentò il giovanissimo Dario Bellezza che, scappato di casa, cercava una stanza in affitto. E lei trepidò quando lo accolse. Quel nuovo inquilino, con il ciuffo ribelle, non aveva niente a che vedere con i turisti inglesi ospitati negli anni precedenti, non avendo risentito del benessere del boom economico.
Quel ragazzone vestito di nero era un poeta innamorato, come lei, di Arthur Rimbaud. Finalmente la sua solitudine sarebbe scomparsa. Facevano colazione insieme, cenavano spesso nelle trattorie di Trastevere. Andavano a fare la spesa nel mercatino rionale e ad Amelia non pareva vero di presentarlo ai commercianti amici. Anche Dario all’inizio era preso da lei, ma quando cominciò a ospitare nella sua stanza le marchette pescate a piazza Navona, dovette fare i conti con l’ostilità di Miss Rosselli. Quei ragazzotti poi iniziarono a rubare in casa preziosi libri che rivendevano ai bancarellari. La convivenza si fece impossibile anche per le droghe che Dario non disdegnava. Amelia era gelosa degli amori di Dario? Il poeta maudit sosteneva di sí. Quando, invitato da Dario, entrai per la prima volta nella casa del lungotevere, mi accorsi subito della freddezza che affiorava dai loro volti. Messo al corrente da Dario dei loro dissidi, mi schierai subito dalla parte di lei. «Ma sei già innamorato di una pazza? Guarda che quella è una fattucchiera» mi diceva allarmato.
Miss Rosselli firmò articoli su L’Avanti, Paese Sera e La Stampa fino al 1978, per avere qualche soldo in piú. Sarebbe interessante poter leggere in un solo volume quella produzione, per conoscere meglio il suo rapporto con la società letteraria non solo romana, visto che i “pezzi”, anche quelli che riguardavano i poeti angloamericani, avevano sempre un piglio polemico.
Ad esempio, venerdí 13 giugno 1975 Amelia scriveva su La Stampa: «Di Leonard Cohen sono usciti sinora negli Stati Uniti ben sette libri tra cui due raccolte di poesie, ed egli ha fama di cantautore, che oltrepassa i confini del suo paese. Come scrittore è soltanto ora che viene reclamizzato in Europa benché fosse già uscito nel 1972 un suo romanzo intitolato Belli e perdenti, considerato uno dei migliori del dopoguerra americano. Ci attendevamo dunque qualcosa di piú della solita opera commerciale (la scelta dei romanzi da tradurre in Italia viene effettuata sulla base del successo di vendita o meno nel paese d’origine). L’autore – musicista, poeta e romanziere – forse avrebbe travolto i limiti dello stile scolastico-tradizionale dell’élite europeizzata (i cosiddetti scrittori ortodossi), e contemporaneamente anche quelli della scuola beat americana, sperimentale fino a un certo punto, ma scucita nei contenuti... E invece il romanzo Il gioco favorito, benché dedicato a un pubblico medio, ha i difetti sia del romanzo d’aspirazioni strettamente letterarie, sia di quello piú commerciale. I suoi temi stereotipati (famiglia benestante di ambiente ebraico; ricordi di infanzia e prime esperienze sessuali; primo anno d’università; relazioni con diverse donne; dialogo con il migliore amico; vago clima di scurrilità e ribellione negli anni post-puberali; arrivo nella grande metropoli) vengono trattati con leggerezza e mediante tecniche grosso modo impressionistiche, in cui lo sforzo narrativo è minimo e il lampo di memoria è tutto. Qua e là affiorano pagine d’indubbia bellezza descrittiva; interessante anche la problematica religiosa (ebraica), però appena sfiorata. Ciò fa supporre che il Cohen se volesse potrebbe benissimo fornire opera originale e profonda; ma queste poche pagine sono scritte come per caso, e subito l’autore torna a piú normali formule narrative, a temi sicuri, già catalogati. Ne viene fuori un romanzo confessionale e teatrale quel tanto da poter dire dell’autore che egli è un ribelle. A cosa si ribelli non è specificato; il Cohen mira a essere in pur dando mostra d’essere out. Mira ad attrarre un pubblico giovanile sognatore e scontento, e allo stesso tempo a rassicurare con qualche guizzo tecnico l’ambiente letterario piú ufficiale. Aggiunge alcuni melensi frammenti di poesie al testo, che poco danno da sperare per la raccolta preannunciata dall’editore Rizzoli per l’autunno. Il gioco favorito è del lontano 1963. Varrebbe forse la pena scorrere gli altri romanzi non ancora tradotti: La scatola di spezie del mondo del 1961, Fiori per Hitler del 1964, Parassiti dei cieli del 1966. Questo per chiarire la propria impressione: dall’unico romanzo quest’anno sottoposto alla nostra attenzione dall’editore Longanesi non possiamo trarre altro giudizio se non quello che si tratta di un’abile messa in scena stilistica, e d’un banale impianto narrativo. Aggiungiamo a titolo d’informazione che l’autore è nato a Montréal nel 1934. Concludiamo riasserendo che il suo talento letterario è indubbio, ma manipolato in vista d’una facile digeribilità».
Memorabile, ero presente anch’io, una sua lettura al teatro Porcospino con Moravia, Siciliano e Pasolini. Era uno spazio ricavato per il teatro nei sotterranei di una chiesa sconsacrata di via Belsiana, al centro di Roma. Era lí che si sperimentava il teatro di parola, teorizzato da Pasolini, contro il teatro di Carmelo Bene e delle neoavanguardie. Pasolini vi rappresentò la sua traduzione del Vantone di Plauto. Ugualmente memorabile fu anche la sera in cui diedero una pièce esilarante di Carlo Emilio Gadda riguardante “l’eterna melodia del Foscolo”. Seguivano discussioni sul teatro molto appassionate. Ricordo un atto unico di Moravia in cui un ragazzo borghese, criticato per tutto il tempo dai suoi parenti per il suo anticonformismo, disse una sola parola: «Merda!» in faccia agli spettatori.
Nel 1968 Amelia si divideva tra la sezione del Pci e le dimostrazioni del Movimento degli studenti. La vedevo spesso in bicicletta seguire quelle rumorose e violente dimostrazioni, in pantaloni e cappellino con la visiera. A volte compariva col suo Ciao, zigzagando ai lati del corteo come una libellula. Avvertiva quel Movimento di possibili infiltrazioni della Cia. Quei giovani le sembravano al dunque troppo ingenui, troppo spontanei.
Alla fine degli anni Sessanta diede concerti per il Pci ma collaborò anche con Carmelo Bene al suo Pinocchio e al suo Majakovskij, sia con musiche che nei panni di attrice. Di Bene però pensava che fosse un vero pazzo e se ne distaccò quando non la pagò, come fecero diversi altri attori.
Provò continuamente a pubblicare le sue prose scritte in francese e in inglese con case editrici internazionali. Nel 1963 Amelia avrebbe voluto pubblicare, per esempio, con Les Lettres Nouvelles di Maurice Nadeau. Diverse sue lettere testimoniano l’intenzione, i contatti con Guillaume Chpaltine e l’insuccesso finale. Ora sotto il nome Le Chinois à Rome - Ecrits français sono raccolti alcuni di quegli scritti.
Incontrò piú volte Renato Guttuso, nel cui studio dapprincipio si recava ogni mattina con la scusa di imparare a disegnare. Ma Guttuso la teneva alla larga, ormai respingeva quel suo amore solipsistico.
Miss Rosselli era diventata una poetessa di successo, invitata a leggere i suoi versi in Italia e in Europa. Nello scantinato della libreria Ferro di Cavallo di via Ripetta le feci incontrare la nuova generazione di poeti e critici, da Giorgio Manacorda ad Alfonso Berardinelli, Giulio Ferroni e Franco Cordelli, da Gregorio Scalise a Tommaso Di Francesco. Era in quel caveau che la nuova generazione aveva preso, per tutto il Sessantotto, a leggere e a commentare versi, contravvenendo al diktat del Movimento che considerava anche la poesia un privilegio borghese.