18. La visita

Prima di iniziare a scrivere questa storia, sono stato visitato da Amelia in un albergo di Lugo di Romagna, dove ero andato a parlare per l’ennesima volta del mio libro di ricordi su Pasolini. Il mio tour pasoliniano del 2015, in occasione del quarantennale della morte, durava da sei mesi e non pareva avere fine. In quella stanza dove figurava un ritratto di Leopardi – quello piú famoso dipinto da Lolli, nativo di Lugo –, sdraiato sul letto, completamente vestito, guardavo il soffitto alto e istoriato. Quando scesi con lo sguardo, davanti alla specchiera, avvistai la sua ombra. Aveva un’aria severa, di rimprovero. Era come se mi volesse dire: «Ma non è giunto il momento di scrivere di me? Ti sei dimenticato tutto? Già, tu sei sempre stato scordarello» e giú una risata che faceva rabbrividire. Le risposi che ci stavo pensando proprio in quel momento, rassicurandola. «Non temere, il mio prossimo libro sarà dedicato a te».

Da quando ho cominciato a scrivere, l’ombra di Amelia Rosselli, come sapete, è venuta piú volte a ballare nella mia immaginazione. La figura è intera e gli occhi azzurri cangianti, che tante volte mi hanno fissato con sguardo da entomologa e che io cercavo pur sempre di interpretare, mi danno un leggero brivido. Per questo subito ho pensato di smettere. Non vorrà, mi sono detto, che ripercorra la sua vita. E ho rinunciato per qualche tempo, finché non mi sono sentito libero e lei ha riso in quella maniera allegra e crudele di quando diceva una verità eterna.

Questa non è una biografia di Amelia, è piuttosto la rievocazione della sua persona, e al tempo stesso il tentativo di allontanare la sua ombra. So che si tratta di propositi tanto inconciliabili che non basterà di certo feuilleter i versi della poetessa nei luoghi in cui l’ho conosciuta. I versi di Amelia, sia pure sempre con un io in primo piano, tendono all’io plurale, spesso indossando i panni dell’interlocutore, facendolo parlare in prima persona. Niente a che vedere con la descrizione oggettiva del naturalismo e nemmeno con quel realismo che negli anni Venti-Trenta tornò di moda, alla Louis-Ferdinand Céline per intenderci. Era pur sempre il suo Proust che tentavo di ritrovare. Lei intrappolava il lettore facendolo spesso parlare e confondendo le acque piú volte nella stessa poesia. I critici hanno definito tutto questo surrealismo o inconscio parlante. Forse hanno ragione, ma per averla sentita parlare tante volte, mi sono accorto che lo stesso linguaggio parlato lo ritrovavo nei suoi versi. Le sue parole sgorgavano fulminate dal suo interno martoriato. Vivevo i nostri incontri sub specie aeternitatis. Non ho mai voluto farmi una foto con lei. Cosí la sua persona è rimasta intatta ai miei occhi. Non ho il piacere di ricordare. Ecco, vedete, adesso quella sensazione di libertà si è di nuovo affievolita e sta tornando l’idea di smettere, chiudendo qui questa mia fatica. La mia vita è zeppa di trame che poi qualcuno ha tagliato con le forbici. Forse anch’io soffro di una specie di schizofrenia se quel male non permette di chiudere nulla. Anche la storia dell’amicizia amorosa con Amelia è stata cosí. Era la sofferenza che si intravedeva dietro alla sua allegria che temevo piú di tutto, quella che chiamò «una lieta infermità».

Nella primavera del 1968, nel sotterraneo della libreria Ferro di Cavallo ogni sabato, come ho detto, poeti e critici della nuova generazione leggevano poesie e le commentavano, seduti in circolo. Era un caveau umido e poco illuminato. Sedevamo su cubi di legno, che erano poi gli scaffali vuoti della libreria del piano superiore, messi a nostra disposizione dalla libraia compiacente. Ero allora redattore della rivista Carte segrete, dove c’era una rubrica in cui venivano pubblicate le poesie piú belle. Amelia lesse nel caveau con i suoi capelli scuri un poco scarmigliati e il volto di ragazza imbronciata. Recitava a memoria i suoi versi, alzandosi in piedi e gesticolando, come se si trovasse davanti a una folla. Sembrava inavvicinabile come una cabina elettrica e avrebbe voluto scuotere la nostra posa da intellettuali pensosi. Recitava allora un personaggio che non le somigliava e tutti noi avevamo il mito del poeta accoppiato alla figura dell’intellettuale. Non che Dario Bellezza non leggesse le sue cose a voce alta, ma Amelia ci stupí proprio con il suo gesticolare che nel tempo si rastremerà in pura voce. Dario ci guardava come gente certamente contro il mercato, ma era come se ci prendessimo troppo sul serio. Non era vero naturalmente. La rivista Carte segrete pubblicò poesie di Amelia presentate da me. Dario, invece, si lagnò: «Insomma su Nuovi Argomenti sono un poeta e su Carte segrete sono un poetibile».

Amelia il giorno dopo, di mattina presto, mi chiamava per sapere per filo e per segno chi fossero quei ragazzi davanti ai quali aveva recitato le sue poesie. C’era tra di noi anche un ex prete, che dopo qualche seduta scomparve. Alfonso Berardinelli mi chiese: «Ti stai proponendo come ministro della cultura del prossimo governo rivoluzionario?».

Io ero contento di organizzare quelle serate, pensando a quelle del Café du Départ. Una volta scese in quel caveau Alberto Moravia. Uscendo smorzò il mio entusiasmo: «Se a Parigi ci fosse lu mere, sarebbe una piccola Bere» provocando la risataccia di Dario.

Le telefonate di Amelia mi raggiungevano a tutte le ore, a pranzo, a cena e la sera tardi. Ed erano affollate di domande. Arrivavo agli appuntamenti, al solito, un quarto d’ora prima. Mi piaceva studiare il set di quegli incontri straordinari. Eccola comparire da via del Babbuino, con una “vestaglietta” blu, a pois bianchi, magra e scattante. A me sembrava una collegiale. Stringendomi la mano rideva, ed era come se avesse percepito dal mio sguardo l’attrazione oscura nei suoi confronti.

Al tempo di quegli incontri Amelia aveva trentasette anni e io ventiquattro. Oggi posso dire che assomigliavo al suo Rocco. Venivo dal sud anch’io, ero un rivoltato e scrivevo poesie.

Una volta mi portò nella sezione del partito comunista, accanto a piazza Giordano Bruno. La sede era deserta. Poi comparve un vecchio che salutò con trasporto, presentandomelo. Aveva l’espressione di uno che avrebbe fatto volentieri a meno di vederla. Le ricordai che Breton e i suoi amici surrealisti, ingaggiati da una sezione parigina del Pcf, si videro proporre un’indagine sugli impiegati del gas: lo presero come un affronto e divorziarono subito dal comunismo. Tra quelle mura, Amelia credeva di stare al sicuro dai suoi persecutori. E io che le volevo bene senza saperlo, non la contrastavo. Sognavo un altro comunismo, visionario. Quando si trasferí in viale delle Mura Aurelie, a Cavalleggeri, in una strada in salita, mi pregò di aiutarla nel trasloco. Io e Antonio Veneziani caricammo sopra la mia 127 verde le poche carabattole che aveva nella vecchia casa. Ricordo un solo cartone di libri. Era un appartamento piú piccolo e ancora piú nudo di quello di Raffaello Sanzio, con un giardinetto. Su una scrivanietta la sua lettera ventidue, con i nastri colorati con cui scriveva i suoi versi. Conservo ancora i dattiloscritti colorati di quattordici poesie da Documento (1966-1973).