Avevo due amici poeti con i quali non si poteva accennare ai versi di Amelia che subito iniziavano i rimproveri. «Ma, Renzo, Amelia è una pazza, punto». Erano Dario Bellezza e Giuseppe Mario Zeichen, alias Valentino, che avevo incontrato in mezzo agli anni Sessanta a una mostra di quelli che chiamava “assemblaggi”, in una galleria romana. Ho ancora una foto che ci riprende mentre discutiamo animatamente accanto a una sua gouache. Valentino non amava né Amelia né la sua famiglia. Aveva un odio sviscerato per i comunisti e i loro dintorni, amando, o almeno cosí si vantava con me, soprattutto i sottomarini mussoliniani, proprio quelli di Valerio Borghese durante la seconda guerra mondiale.
L’unica che parlava sempre bene di Amelia era, se ben ricordo, la mia prima moglie. La inserí in un’antologia di “donne in poesia”, che ebbe molto successo. Poi sarebbero venuti i suoi nuovi amici: Gino Scartaghiande e Carlo Bordini. Gino e Amelia volarono a Mosca per cercare “asilo politico” proprio quando si avvicinava il crollo del muro di Berlino e di tutto il comunismo sovietico.
Mi torna in mente un Capodanno di molti anni fa che volli festeggiare a via Pistoia, a San Giovanni, invitando la nuova generazione dei poeti, da Valentino a Dario, da Gregorio Scalise a Paolo Prestigiacomo, da Gabriella Sica a Marina Tornaghi, da Giorgio Manacorda ad Alfonso Berardinelli, a Franco Cordelli, da Gino Scartaghiande a Claudio Scaringella con Rossella, la sua prima vivace moglie. Ricordo che a Roma c’erano due raggruppamenti di poeti, quello che faceva capo al Beat ’72 e quello di Elio Pagliarani. Invitai anche Amelia, che però fece solo un’apparizione fugace. Giorgio Manacorda, uscendo per un attimo dalla sua smemoratezza, si è ricordato di quella festa.
«Avevo intervistato, credo per l’Astrolabio, una serie di poeti della nuova generazione e andai a parlare anche con Amelia in Trastevere. Feci l’intervista, la pubblicai, ma lei già dal giorno dopo mi tempestò di telefonate, volendo sapere tutto di me e poi si mise a gridare contro gli uomini della Cia. Bene, la rincontrai in un Capodanno proprio a casa tua. Lei era seduta tutta sola su un divano. Mi avvicinai e la salutai calorosamente e lei mi gelò chiedendomi severa: “Ma chi sei?”».
Ecco svelato il motivo della sua breve sosta.
Biancamaria Frabotta si è ricordata invece che «a un certo punto arrivò Laura Betti con una grande teglia di roba che volle ripassare al nostro forno. Erano tortellini rosa con la panna che piacquero molto. Ricordo poco di quel periodo, Renzo. In quella casa ci restasti poco tempo. Eravamo già in crisi da un pezzo».
C’era anche Simone Carella con la ragazza di Benigni. «Di Amelia ho però un ricordo vivido» scatta dopo un silenzio Biancamaria. «Eravamo in aereo, sedute vicino. Lei leggeva Paese sera e io un libro. A un certo punto Amelia lesse qualcosa su quel giornale che la turbò e si mise a gridare contro la Cia, allertando i passeggeri, che ormai ci guardavano come due pazze. Io non alzai gli occhi dal libro, imbarazzatissima. Non riesco a ricordare dove eravamo dirette. Poi certo ho ricordi d’incontri letterari, ma niente piú».
Scrissi versi per quel Capodanno che figurano in Album di famiglia, la mia prima raccolta, che è del 1990. La poesia si intitola “Capodanno” e dice: «Verranno alla festa maghi e cantori. / Prevarranno gli omosessuali, con la gioia / di chi so io. Gino vorrà baciare dio / se Dario glielo permetterà e Franco qualcosa / di piú basso vorrà. Gregorio verrà apposta / da Bologna, con la ragazza olandese e Valentino / converserà sul luogo dove tutti vorremo conversare. / Mancheranno alla festa gli stolidi e tra essi / piú d’un ipocrita si mangerà le mani. / Da Vienna e dall’Africa e dalle madri / piú sole del mondo torneranno gli amici per / stare insieme una notte. Poi tutti vorranno / aprire il bagno e vomitare in circolo. / Altri, magari, preferiranno ridarsi un’avviata / ai capelli. Non è detto che toccherà alle donne / lavare il castello dei piatti sporchi, non è detto».
A quella festosa riunione Valentino sembrava preso da Alfonso Berardinelli, che aveva visto parlottare sul balconcino con Biancamaria. Lo appellava: “l’Adorno di Monteverde”, d’altronde Alfonso non si era mai occupato benignamente dei suoi versi. Con Valentino intrapresi diversi viaggi nelle città dove ci chiedevano di tenere le nostre letture poetiche. Ne ricordo uno in Liguria, quando sul treno dell’andata voleva vendermi calzini usati, ma di marca. Andavamo a leggere invitati da Giuseppe Conte, il poeta, non il presidente del consiglio. Poi ci fu un viaggio a Mosca e allora scoprii sulla sua carta d’identità che si chiamava Giuseppe Mario. In un mercatino del centro, dove brillava la statua di Puskin, c’erano diversi rivenditori di oggetti appartenuti all’epoca stalinista. Avrebbe voluto che li comperassi tutti. «Sono il tuo passato» mi disse ironico. Risposi alla sua provocazione: «Non son mai stato comunista cosí. Non mi sono iscritto al Pci. La dittatura sovietica mi faceva orrore. E il mio desiderio di una comunità perduta, come dice Blanchot, aveva a che fare con la letteratura, mio caro».
Entrammo nella squallida casa di Anna Achmatova, morta a Mosca nel 1966, poetessa che amavamo entrambi. «Ecco come i tuoi comunisti trattavano la poesia» fu il suo commento. «Proprio come i tuoi nazisti» gli risposi. In un giardino, davanti a un non folto pubblico, leggemmo da un palco i nostri versi. E la sera offrii la cena alle traduttrici, che ci rivelarono che quel ristorante per loro era proibito, troppo costoso. In albergo dopo la mezzanotte signorine compiacenti cinguettavano: «Sex?». Conservo una foto di noi due sulla spalletta del fiume che attraversa Mosca, due estranei.
Quando parlai di Valentino ad Amelia, mi disse che incorniciava il vuoto, mentre di Dario diceva che era un bravo poeta, nonostante l’avesse attaccata con ferocia.
Negli anni Settanta i poeti romani, una vera scuola rinverdita, rivaleggiavano con quelli milanesi, ricchi di case editrici. Nel 1983 firmai un’antologia, intitolandola con un verso di Pasolini: L’io che brucia e sottotitolandola: «la scuola romana di poesia». I poeti andavano da Sergio Corazzini a un giovanissimo Valerio Magrelli. C’erano, in quella antologia, anche versi di Amelia, di Valentino e di Dario, a dimostrazione che gli amici per me contavano, eccome. Nell’introduzione ad Amelia scrivevo: «Poetessa del lapsus, come la definí Pasolini, Amelia Rosselli è una vera ladra della lingua italiana. I suoi accostamenti di frase sono arditi e plurisemici proprio per questo attraversamento zingaresco della lingua della poesia. Il suo è un io schizoide, deleuziano quanti altri mai, alle prese con un tu osceno e divino. L’io diviso rosselliano si ricompone a tratti, come per un cortocircuito da illuminazione rimbaudiana. Con Documento si è confermata scontrosa poetessa d’amore. Il suo tu è un dio oscuro, di cui poco lascia a intendere, quasi un dio pre-cristiano».
Amelia lesse e annuí, precisando che il Dio a cui faceva riferimento era quello dell’Antico Testamento, un Dio ferocissimo, dispensatore di morte. Le piacque molto la scelta delle poesie del pittore Scipione.
Per questa pubblicazione si adontò Giovanni Raboni che a casa di Laura Betti, quando gli consegnai una copia del libro, ne lodò la fattura e i nomi, mentre dietro le spalle, con Laura, si irritò.
La scuola romana suscitò invidie insanate, una scuola che viaggiava con quella dei pittori come Mario Schifano e dei cantanti come Claudio Baglioni. Quell’antologia all’inizio doveva pubblicarla Mondadori – a Enzo Siciliano avevano assicurato che solo a Roma avrebbe venduto tremila copie – ma fu lasciata cadere proprio per l’astio di Giovanni Raboni.
Quando Valentino ebbe un ictus nella stradina accanto a casa sua e fu ricoverato in ospedale, non ebbi la forza di andare a trovarlo. Avevo notizie dalle sue amiche che si improvvisavano vedovelle e che lui non riconosceva. Mio figlio Alessandro mi ha ricordato che possiede un lungo filmato su un pranzo molto divertente di Valentino da noi. Mentre Dario e Amelia mi sono comparsi piú volte in sogno, Valentino no, non è piú tornato a trovarmi. Mi sono commosso quando Alessandro ha voluto aprire il Roman Poetry Festival del giugno 2019 con un omaggio proprio a Valentino, che gli aveva dato preziosi consigli, cosí come al figlio di Nico Garrone. Ha inserito nella sua clip lettere, cartoline, versi inediti a me indirizzati, oltre alle belle foto che gli aveva scattato nella casa estiva di San Panfilo d’Ocre. I poeti non dimenticano.