Nel 1988 pubblicai in Cattivi soggetti un capitolo intitolato “L’uomo biondo”.
«Mi telefonò per dirmi se la sera precedente, quando avevamo mangiato assieme nella pizzeria di via Ripetta, ricordavo quell’uomo biondo, alto, con un completo gessato, che le avevo presentato. Caddi dalle nuvole. “Amelia, quale uomo biondo?”.
«“Cerca di ricordare, me lo hai presentato tu. Ma è possibile che ancora vivi sognando. La perdita della memoria non è un buon segno per un poeta”.
«“...”.
«“Un uomo biondo, con un completo gessato marca Zegna. Aveva un anello d’oro al dito. Mi ha stretto la mano mentre mangiavamo e poi è sparito”.
«“Io non ricordo. C’era sí un cliente biondo, ma non ci siamo presentati e poi quello era vestito malissimo e parlava romanaccio”.
«“Non essere stupido. Stammi bene a sentire. Tu adesso vai in camera tua, ti siedi e ti metti a ricordare. Ti ritelefono tra un po’ e vediamo”.
«Quando Amelia ritelefonò io ricordavo tutto. Certo, biondo, con le dita affusolate, un bell’uomo.
«“Bello? Non si direbbe”.
«“Be’, insomma, non era brutto”.
«“Era brutto, molto brutto, nonostante i capelli biondi. È l’uomo della Cia. Era già venuto a casa mia due o tre volte, aveva tentato di entrare, aveva addirittura buttato mele marce sul pianerottolo. Che ho lasciato marcire senza raccogliere, credendole bombe”».
«“Può darsi”.
«“Adesso vedi che ragioni. Bisogna fare attenzione. Nella vita a volte basta un dettaglio trascurato. Mio caro, al dunque te lo dimentichi e zac. Ci sono i nemici, che credi? Non sono tutti amici e compagni, come credete voi. Bisogna guardarsi intorno”. E scoppiò in una risata selvaggia».
Quando Amelia tornava a parlare dell’uomo biondo era vicina al ricovero, a quegli orribili elettroshock che la lasciavano senza memoria. Le giornate erano organizzate per tornare a quel punto di ingorgo, quando la realtà e l’immaginazione si confondevano e Amelia, sprofondando, perdeva il senso della realtà.
Quell’uomo biondo finí in una poesia di Documento: «Il tuo biondo cenere / mi riduce in ceneri // compari, scompari, poi / non sai nemmeno se // hai qualche interesse / a incoraggiarmi, nemmeno / fai cenno. // E io che ti ricordo / in ogni dettaglio, viventissimo / con significati grandi / o piccoli assieme, di // cui tu non sai niente!». E scrisse ancora: «Se sinistramente ti vidi / apparire come un sole nero / la tua biondezza... La tua figura sfocatamente / giustiziera».
Invece quell’uomo biondo tornò di nuovo anche quando Alberto Moravia ci invitò a un dopocena a casa di un giornalista francese de L’Express. Eravamo seduti sulla terrazza, sorseggiando una bevanda, quando comparve un uomo biondo e Amelia si alzò e senza salutare andò via. Parlando poi con Moravia, sostenne che l’uomo biondo poteva essere benissimo della Cia, ma non riusciva a capire per quale ragione volesse torturare una innocua poetessa come sua cugina.
Aldo Rosselli mi aveva raccontato di quella volta in cui aveva accompagnato sua madre, Maria Todesco, a casa di Amelia. Discutendo a cena del Pci e dei marxisti in generale, e vedendo che Amelia ne parlava benissimo, la madre s’infuriò: «I comunisti sottovalutavano Carlo e Nello, lo vuoi capire?». Amelia corse in cucina e tornò con un coltellaccio che voleva ficcare nella gola della vecchia signora, urlando che era stata la famiglia Rosselli al completo a consegnare suo padre nelle mani dei cagoulards. Nello non voleva andare a Bagnoles e Amelia Pincherle si era fatta avanti. Poi Marion aveva deciso di raggiungere Nello alle terme, andandosene proprio poche ore prima che quei porci li scannassero. Aldo si frappose e Amelia poggiò l’arma sul tavolo e uscí di corsa come una furia. Il cugino la seguí sul lungotevere. Sembrava volasse come una libellula zigzagando sotto i platani. Temendo che volesse riportarla a casa, Amelia si arrampicò su un vecchio platano e ci rimase per ore. Gridava contro la sua famiglia e contro quel satellite che vedeva sopra l’albero, l’ultimo ritrovato degli uomini dei servizi segreti di mezzo mondo per spiarla. A quelle urla si era formato un ingorgo di macchine. C’era chi le gridava di smetterla di fare l’uccello. Aldo aveva concluso: «Sembrava proprio l’attacco di un famoso racconto di Italo Calvino. Non sapevo piú che dire per convincerla a scendere. Non mi ascoltava. Tra un grido e l’altro guardava in alto e si spostava con l’agilità del leopardo da un ramo all’altro per non farsi fotografare dal satellite. Temetti che potesse sfracellarsi sul marciapiede del Tevere. Scese soltanto quando mi allontanai».
Eravamo sdraiati sulla sabbia di Sabaudia quando riferii a Moravia di quell’episodio. Poi però mentre Alberto scavava buche enormi, volli aggiungere la risposta di Amelia a una mia secca domanda.
«Ma Moravia chi era sotto il fascismo?» avevo chiesto e lei, fulminandomi con lo sguardo, aveva risposto: «Non lo sai? Chi era... un fascista, stava lí con i fascisti, non li ha mica combattuti come mio padre».
Moravia si alzò di scatto, come sotto gli effetti di una dolorosa puntura di vespa e, dentro una nuvola di sabbia, commentò ad alta voce: «Ma lo vuoi capire una volta per tutte che mia cugina è pazza?».
Mi pentii di averglielo riferito, ma io allora volevo sapere tutto della oscura vita quotidiana del mio grande amico sotto Mussolini, pensando già di scrivere la sua biografia, quella che poi avrei intitolato Una vita controvoglia. No, non era pazza Amelia, era una donna che visse gran parte della sua vita fuori di questo mondo e quando ripiombava nella rugosa realtà, soffriva. Le sue poesie erano costellate di quell’atroce sofferenza.
Tornammo silenziosi e nervosi nella villetta di Alberto a mangiarci, attorno a un tavolo di vimini, due merluzzetti, due. Feci anche l’errore di dirgli che per la sua biografia stavo rileggendo L’idiota della famiglia, la voluminosa vita di Flaubert firmata da Jean-Paul Sartre.
«No, non ci siamo» mi disse, «io Flaubert non l’ho mai amato e se proprio vuoi saperla tutta, non mi è stato simpatico nemmeno Sartre».
Non sapendo che pesci prendere, dopo quelle sanguinose gaffe, e forse per farmi perdonare, gli chiesi di elencare i difetti degli scrittori della mia generazione.
«Zoppicate... per me uno scrittore deve essere completo e voi siete troppo letterati».
E aggiunse seccato che era colpa mia e della mia generazione se i libri di narrativa italiana andavano male, avendo allontanato gli studenti per sempre dai romanzi, affezionati com’eravamo a romanzacci sudamericani, politicamente noiosi. Eravamo pari, potevamo finalmente riprendere la macchina e tornare a Roma, non prima di aver rotto, mentre faceva nervoso la vaisselle, i due piatti nel lavabo. Guidava, al solito, al centro della strada, facendomi sudare freddo.