23. Ostia

I miei ricordi non rispettano sempre l’andamento cronologico. Ci sono ricordi che escono fuori dal tempo. Premendo involontari, hanno connotazioni, per cosí dire, atemporali. Uno di questi riguarda una gita sulla spiaggia libera di Ostia, che nella mia mente è rimasta senza data. Di gite al mare ce ne furono altre e devo averle assemblate insieme, anche se la presenza della Fiat Cinquecento mi costringe a situarla quando ancora abitavo dai miei genitori. Che strani i ricordi. Quando gli anni sembrano seppelliti tornano assoluti. Naturalmente lo inserisco qui, nella stramba architettura del libro che state leggendo, per la sua natura solare. Procedo come nelle intense interruzioni delle poesie di Amelia, che, ricorderete, definiva «strane» nei suoi Spazi metrici. La poesia inconscia e oscura era il suo buco nero e farla riemergere con onestà di intenti e fedeltà fu il suo obiettivo maggiore.

Andai a prenderla sotto casa, sul lungotevere, con la mia scassatissima Cinquecento e filammo verso il mare. Poggiò la sacca che aveva a tracolla sui sedili posteriori e si predispose serena al viaggio verso il mare. Era tornata da poco dalla clinica dove aveva subito l’ultimo elettroshock. Era una giornata di primavera inoltrata, con un sole già caldo. Il vento le scompigliava i capelli. Commentavamo il traffico che era sostenuto e soprattutto i tipi che affioravano dai finestrini delle macchine, fermi al semaforo rosso. Non vedeva l’ora di distendersi e abbronzarsi. Aveva una carnagione madreperlacea. Al solito mi colpivano la sua voce e il suo sguardo. Rideva anche quando diceva cose serie. Era il suo modo per far passare la malinconia. «A me non piace il mare» le dissi.

«Al dunque... neanche a me» mi rispose ridendo, «e tuttavia stiamo andando al mare».

«L’ho visto tardi, a tredici anni, quando ci trasferimmo a Roma. E all’inizio mi dava un’idea di libertà assoluta. Poi, mano a mano, soprattutto per le ustioni del sole, l’ho amato di meno».

«Sai che il sole è il padre e la luna la madre?».

«Ah, ecco perché non mi piace».

Si ammutolí, forse ripensava a suo padre, chi sa. Arrivati sulla spiaggia, quella libera, per carità, niente affitto di ombrelloni e sdraio, si tolse la vestaglietta chiara e rimase in costume. Era un bikini scuro. Dopo un po’ si alzò e corse a farsi un bagno. La seguii con lo sguardo. Dipendevo da lei in tutto e per tutto. Se mi avesse ordinato di affogarmi l’avrei fatto. Uscí imperlata dalle acque come Venere e si allungò, al rallentatore, sull’asciugamano a fiori. Mi sbirciava di tanto in tanto per vedere l’effetto del suo corpo sul mio volto. Aveva un corpo di ragazza, che mi attraeva e nello stesso tempo mi respingeva. Mi piacevano soprattutto le lunghe gambe. Ma non avrei allungato una mano neanche morto. Quel corpo per me era intoccabile. Mi sono chiesto piú volte perché non ho mai tentato di baciarla, che cosa me lo impediva. Certo non era mia madre e nemmeno una mia parente. Ma chi era allora? Una sorella maggiore? Ogni tanto, per rompere il silenzio che era calato tra noi, si voltava per scoprirmi mentre scavavo nervoso buche sulla sabbia. «Cosí ti abbronzi male» mi disse e aggiunse: «Ma non ti bagni?».

«È una lunga storia. Non sto a galla, Amelia. Mi posso immergere solo con la mascherina e non l’ho portata».

Rise dicendomi: «Sei l’unico uomo al mondo che non sta a galla, dunque».

Le raccontai di una zingara che aveva predetto a mia madre che sarei morto in acqua.

«Da allora ogni volta che infilo un piede in acqua sto male».

«Solo passeggiate dove si tocca, allora».

«Piú o meno».

Quel sole arancione mi ricordò un quadro intitolato Il sole dipinto di Bice Brichetto, che era anche amica sua. Il sole era visto da una ringhierina rossa su una tavola marrone. Mi aveva colpito soprattutto la solitudine di quella veduta marina. Volli parlarle delle gallerie romane che frequentavo con il fratello del pittore Franco Sarnari. Se la invitavano andava anche lei. Le piaceva Schifano, meno Sargentini, ma soprattutto le piaceva Francis Bacon, il pittore irlandese che aveva ammirato in una galleria di Londra.

«Che credi, anch’io andavo per gallerie a Londra e molto a teatro da ragazza».

Avrei voluto raccontarle di Dario che era salito con me nello studio di Bice Brichetto a via Margutta, sapendola amica della sua nemica Elsa Morante, e di quando mi aveva accompagnato nello studio di un pittore di Pordenone, che abitava in una mansarda di Borgo Pio. Quel pittore segaligno e biondo, con gli occhi azzurri, dipingeva cose alla Bacon, imitazioni orribili, e quando eravamo usciti ci eravamo seduti sugli scalini di piazza San Pietro, per frenare le risate. Mi fermai in tempo.

Mi chiese all’improvviso se avevo scritto poesie nuove.

«Ne scrivo pochissime, a differenza dei miei coetanei. E tu?». La sua “s” blesa, di straniera, era una puntura di vespa.

«Non ne parliamo. Scrivo e butto nel cestino. Poche comunque. Mi dà fastidio scrivere. A volte mi sembra una cosa da ragazzi».

Mi tornò in mente la frase di Rimbaud: «Ah, la poesia, una cosa da ragazzi!» e gliela recitai. Rimbaud era uno dei suoi maestri di sempre. Non restammo molto tempo lí sdraiati. Mentre la guardavo con imbarazzo, per lei ero un libro aperto. Mi disse sorridendomi: «Che c’è?».

Non seppi rispondere altro che: «Sono ansioso. A volte perdo il senso della realtà».

«Ma, Renzo, lo dici a me?».

Lei era la regina dell’ansia. E quel senso della realtà lo perdeva spesso.

Bastò un uomo che passeggiava sulla battigia dando un’occhiata al suo interno coscia per innervosirla.

«In genere sono gli uomini sposati quelli piú sfacciati» commentai.

Si rivestí in un lampo e con la sacca a tracolla mi disse di tornare in macchina.

«Vuoi andare al Buco?» le dissi.

«Il Buco? Che cos’è?».

«È un posto a dieci minuti da qui, frequentato dai nudisti, in maggioranza gay».

«Per carità. No, no» rispose guardando la silhouette dell’uomo che da lontano ancora si voltava verso di noi.

«Torniamo a Roma, sono stufa del mare».

Eravamo stati sulla spiaggia non piú di un’oretta. Ci rimettemmo in Cinquecento. Al ritorno si chiuse in se stessa, ogni tanto voltandosi indietro.

«Ma la macchina che ci segue l’hai notata?».

«No, che ha?».

«Alla guida c’è quel signore di prima. Non fartene accorgere e sbircia».

A me non sembrava, aveva una faccia diversa.

«Ma dove vivi?» sbottò.

«Dentro questa macchina» risposi nervoso. Oltretutto a me non piaceva guidare in quel traffico.

«Non sei per nulla fisionomista. Ti difetta la memoria. Scendi dalla poesia, per favore».

Mi chiese di accostare, voleva scendere. Ubbidii, terrorizzato che volesse gettarsi sotto una macchina. Si sedette sul guard rail e una volta rasserenata dal transito di quell’uomo, rientrò in macchina. Adesso non era piú tanto sicura che io non fossi della Cia. Verso San Giovanni, cominciò a dare schiaffi al vetro del finestrino, come se volesse allontanare un’ombra che la spiava.

«Voglio scendere» mi disse.

«Ma, Amelia, ti tocca prendere un autobus».

«Fammi scendere» mi ordinò severa.

La vidi allontanarsi, come volando, con la sacca a tracolla dove aveva ricoverato l’asciugamano e il costume. La Cia e la sua poesia erano intrecciatissime. Non riuscivo a guidare. Mi accostavo troppo alle altre macchine, provocando insulti feroci. Mi fermai un paio di volte, prima di raggiungere casa dei miei. E ogni volta mi compariva lei sdraiata sull’asciugamano in tutto il suo splendore.

Molti anni dopo, a metà degli anni Novanta, ci ritrovammo seduti sui gradini del teatro di Ostia antica, in attesa di leggere le nostre poesie. Era stato Simone Carella a organizzare quel reading e insieme a noi c’erano Dario Bellezza e Valentino Zeichen accompagnato dalla sua ragazza, Mireille. Ho ritrovato su YouTube il video. Amelia aveva un volto gonfio, sfigurato dagli psicofarmaci, dentro una veste chiara, lunga e leggera. E anche Dario non stava bene. Si curava da tempo l’Aids. Dopo poco sarebbero scomparsi entrambi. Quando mi vide Amelia esclamò: «È diventato tutto insopportabile... Come sta Marina?» mi chiese. «E i figli?». Disse che ci eravamo tutti appesantiti, che quella era un’adunata di poeti seròtini.

«Tornerà il fascismo e vi troverà vegliardi» sentenziò.

A una mia domanda sulle sue poesie che di lí a poco avrebbe letto, rispose che non leggeva da tanto inediti, preferiva “collaudare” quelle già stampate. Il fotografo che l’aveva ripresa passò a me.

«No, cosí sembri goffo» disse voltando il viso verso il lungo tramonto e aggiunse: «Goffo e pesante come un certo albatros». Ancora Baudelaire nei suoi pensieri.

«Mi vuoi prendere in giro, vuoi scherzare, eh».

Tornò muta, assente, con gli occhi vivi dentro un corpo che già non le apparteneva piú. Poi comparve Dario sugli scalini, con un vestito scuro, niente foulard, nessuna civetteria come le frequenti comparsate in televisione da Maurizio Costanzo. Anche lui sembrava preso da un altro pensiero. Che aveva l’Aids l’avevo scoperto anni prima, quando il suo amico Antonio Veneziani mi chiese i soldi che gli mancavano per comperare una costosa medicina alla farmacia di Termini, precisando che non era per lui.

«La tua ex moglie non ha voluto intervistarmi per l’Unità» mi disse Dario, stringendomi la mano e sedendosi accanto ad Amelia. «E glielo avevo chiesto per via della Bacchelli. Egoista, come sempre».

Ecco sopraggiungere Franco Cordelli: «Ma tu ti tingi i capelli?» mi domandò e aggiunse: «Sei il solo qui ad averli ancora quasi tutti neri». Rispondendo a Valentino che scherzava sul nostro look attempato, Maurizio Cucchi commentò che ormai sembravamo degli homeless. Dario lesse una poesia sull’operazione che aveva subito di recente al retto. Riuscí a essere spiritoso su un fatto molto doloroso. Mi chiese che ne pensavo. Preso alla sprovvista dissi che mi sembrava divertente. «Ah» sospirò, «altro che divertente!».

Amelia riuscí anche quella sera a mettere sull’attenti il suo pubblico. Il suo carisma era rimasto intatto.

Lessi una poesia su un fatto di cronaca avvenuto nella Marsica. Un giovanotto extracomunitario era stato sgozzato su un montarozzo del Fucino. Una donna era accorsa con un asciugamano per fermargli il sangue. Vivian Lamarque si complimentò, ma Valentino mi avvertí che mi ero discostato dalla poesia imperiale romana, quella che riteneva la nostra linea. Mettendo fine a quell’inane parlottare, Dario mi prese sottobraccio invitando il resto della banda a cercare Simone Carella, che distribuiva ai poeti l’obolo del Comune, alias il gettone di presenza. «Sempre la stessa cifra» si lagnò.

«Siamo poeti di Stato, no?» commentai. «Già, ma di uno Stato fascista che non ama per nulla i poeti».

Amelia montò su un taxi insieme al poeta Tomaso Kemeny. Dario mi salutò con una voce atona. Il Dario ridanciano, pettegolo, maligno era scomparso. Seppi poi che durante il rientro Amelia aveva aperto la portiera della macchina, che per fortuna viaggiava piano, e si era buttata sul ciglio della via del Mare, credendo che anche Tomaso fosse un agente della Cia.

Accompagnai a Roma Attilo Lolini, che stava male anche lui, mentre avrei dovuto riaccompagnare Tommaso Di Francesco, che però si era allontanato.

«Che è capitato a Dario e a Amelia?» disse Lolini, una volta in macchina. Gli riferii la frase proferita da Amelia accomiatandoci: «Siamo diventati poeti seròtini. Non c’è ricambio».

Lolini, che ricordava Amelia entrare e uscire da una clinica psichiatrica di Siena, commentò: «Altro che seròtini, près des crhysanthèmes!».

Si riaccese per un attimo il fuoco d’artificio loliniano, che definí impietosamente “petesse” le poetesse presenti e assenti. La Valduga era pur sempre la Lattuga e Raboni Raponi. Erano innocui sberleffi per una società letteraria ormai agli sgoccioli e non si vedeva chi avrebbe preso il nostro posto. Noi non ci consideravamo all’altezza della generazione che ci aveva preceduto, quella antecedente alla neoavanguardia, ma l’ultima generazione stava indiscutibilmente peggio di noi.

In un altro reading, sempre a Ostia, Victor Cavallo, il presentatore, che era anche un attore, appena salii sul palco, prima che cominciassi a leggere, mi chiese a bruciapelo: «Paris, ma tu sei ancora comunista?» facendo ridere la magra platea. Avevo in programma di leggere una poesia dove mio figlio raffigurava il comunismo geometricamente come un cane che vive imprigionato dentro un prisma.

Ormai nei festival tutti battevano le mani e non si capiva quali erano le poesie che piacevano di piú. Tuttavia, dopo il primo festival, quello di Castelporziano, che vide ventimila giovani spettatori che, a forza di canne, volevano diventare attori anche loro delle serate, delusi dall’assenza di Patty Smith, Amelia aveva sostenuto che le poesie andavano testate anche dinanzi a un pubblico rumoroso. Bisognava cogliere l’occasione che dai futuristi in poi non si era piú ripresentata, mentre il suo Montale dichiarò sulfureo in una intervista che la poesia andava letta in silenzio, ognuno sprofondato nella poltrona del proprio salotto.