25. «La poesia non si addice alla vita normale»

Tentata dal suicidio Amelia scrisse: «Ci son momenti che veramente dobbiamo rintanarci in casa e non accettare inviti mondani e nessuno per un bel pezzo, perché si sta meglio in se stessi... in altre occasioni hai la solitudine che non è il momento di avere, e allora costa cara, è difficile uscirne, anche. Ma questo lo prevedevo da giovane “vedrai che in vecchiaia ti costerà, pagherai il debito”. Perché è anche una situazione di felicità: la solitudine ti permette di fare quel diamine che ti pare!». Il debito lo pagherà fino all’ultimo centesimo.

«Qualche tempo prima del suo suicidio, ero seduto con Giulio Einaudi in una pizzeria vicino casa sua, la pizzeria Il Corallo. Non eravamo seduti fuori e dunque non era estate, eravamo a metà tra fuori e dentro. Mentre parlavamo passò Amelia che si voltò e ci guardò con un’aria severa. Si avvicinò al nostro tavolo e rimase diritta in piedi con gli occhi spostati. Ci guardava e non ci guardava. Giulio mi disse ad alta voce: “Non dar retta, non dar retta”. Imbarazzato la pregai di sedersi. Non rispose, due minuti di completo silenzio, minaccioso. E si allontanò. Quei minuti ci sembrarono ore. Ricordo ancora la faccia severa e quegli occhi spostati».

Interpellato al telefono, Mario Fortunato ricorda anche le tranquille conversazioni sulla cultura inglese. Gli sembrava contenta di parlare con un intenditore dei suoi poeti preferiti. «Una volta parlammo a lungo di Silvya Plath e di Ted Hughes. Le piaceva discorrere amabilmente anche dell’ambiente britannico».

Quando chiesi se sapeva qualcosa sui suoi “amorastri”, quelli con Mario Tobino, con Guttuso e Carlo Levi, Mario mi rispose: «Mi pare di ricordare che Einaudi mi disse di Carlo Levi e del suo amore per lui, ma faceva tutto lei, insomma. Io poi della schizofrenia ne so qualcosa per via di un mio parente che soffriva dello stesso male e si suicidò».

Alla fine della telefonata abbiamo parlato della recente voga italiana delle biografie. «C’è la domanda, Renzo, vedrai che non avrai difficoltà a pubblicare il tuo libro, anche se Amelia è pur sempre una poetessa d’élite. Però era bella, con gli occhi azzurri e poi con quella storia famigliare potrebbe interessare».

All’inizio di febbraio del 1996 tornò in clinica. Ci rimase una sola settimana, firmando le dimissioni. Quando la vedevano uscire in camicia da notte sul pianerottolo di casa, guardando verso il basso, gli inquilini la convincevano a rientrare. Turbava i passanti quando si sedeva su un gradino, appoggiando la schiena su una saracinesca abbassata e cominciava a gridare contro la Cia. Elio Pecora mi ha raccontato che credeva da ultimo che le avvelenassero gli abiti, come era capitato a una eroina del teatro greco e al divino Ercole.

«Conoscevo Antonio Maccanico, per via della collaborazione, ricordi?, a La voce repubblicana. Cosí gli confidai la volontà di Amelia di essere protetta almeno dai politici che avevano conosciuto suo padre. La missione andò a buon fine quando Amelia mi disse di aver ricevuto una lettera di Pertini che l’aveva rasserenata. Le diceva paternamente che non si preoccupasse, che non le poteva capitare niente di grave perché la proteggevano, e attivamente, loro».

Quando chiesi a Elio il motivo di quel tardo suicidio, mi rispose: «Secondo me si suicidò perché le avevano tolto le medicine. Senza quei forti calmanti, rimanendo molto lucida, scelse di buttarsi, evitando la tettoia protettiva».

Mi ricordò che era stato proprio lui a adoperarsi per farla tornare a Roma da Londra per ricevere un premio consistente di cinquecentomila lire.

Negli ultimi mesi vedeva Gino Scartaghiande quasi tutti i giorni. La sera prima erano andati al cinema e Gino l’aveva lasciata in compagnia della sua amica Giusy Rapisarda, che aveva una casa bellissima accanto alla Fontana di Trevi. In quella casa Giusy invitò nel dopocena per mesi poeti come Alfredo Giuliani, Bellezza, Magrelli e una sera comparve anche Amelia. Il suo era un salotto letterario molto selettivo.

La mattina dell’11 febbraio Amelia telefonò alla sua amica di una vita, con cui aveva villeggiato a Sperlonga diverse estati, la pittrice Giacinta Del Gallo, dicendole che si sentiva troppo male, che voleva farla finita. L’amica corse trafelata ma arrivò troppo tardi. Amelia si era suicidata nello stesso giorno, trentatré anni dopo, di Sylvia Plath, che aveva cosí ben tradotta e commentata. Quella sera doveva incontrarsi con Dario Bellezza e il giorno dopo avrebbe dovuto partecipare a un incontro su Apollinaire in un locale trasteverino. I funerali, affollati, si svolsero in un garage di Trastevere, alias Casa della Cultura. Davanti a non piú di una cinquantina di intimi, Biancamaria Frabotta in lacrime e Alfonso Berardinelli visibilmente commosso, pronunciarono il discorso funebre. Venne sepolta nel cimitero degli inglesi, il Cimitero acattolico di Roma. Il fratello John non capiva perché non potesse essere tumulata a Prima Porta, insieme a Sandro Penna.

A Sandra Petrignani, già nel 1978, aveva confessato: «Non pensavo di vivere a lungo e credevo romanticamente di bruciarmi entro i quarant’anni al fuoco di un rischio troppo grosso, quale è stato la scelta della mia vita. La scelta della poesia, come l’ho vissuta, voluta, io. Quasi spaccavo la macchina a volte per l’intensità con cui scrivevo. Ora mi trovo ad affrontare una seconda metà dell’esistenza cui sono completamente impreparata e che mi interessa fino a un certo punto. La poesia non si addice alla vita normale, quella di tutti i giorni... Tanti poeti muoiono giovani o suicidi. È come se lo scrivere dovesse essere legato a una visione adolescenziale del mondo e quando si raggiunge la cosiddetta maturità il desiderio di scrivere viene meno».

Ancora Arthur Rimbaud, uno dei suoi maestri di sempre. Arthur si era suicidato da giovanissimo come poeta. Amelia aveva un’idea alta della poesia, che la obbligava al sublime, severa come il suo Dio primitivo, che pretese infine il sacrificio della sua vita. Volle suicidarsi come una martire dell’antifascismo, in ricordo di suo padre.