26. Vignola

Vignola, nel modenese, è una cittadina di poco piú di trentaduemila abitanti. È la patria dei ciliegi e delle vigne, come suggerisce la parola stessa. Imperdibile la fioritura dei ciliegi a primavera, quando le piante, disposte in lunghi filari, esplodono con i loro fiori bianchi. Pochi sanno che prima di maturare quel frutto prelibato, qui coltivato in diverse specie (dalle durone fino a quelle giallognole, morbide e dolcissime), è bianco come il fiore.

Il 22 settembre 2018, alle diciassette e trenta negli ampi scantinati di una torretta, un vero e proprio cantinone dove forse si cucinava come nella Fratta di Ippolito Nievo, Roberto Galaverni mi aveva invitato a parlare di Sessantotto e poesia, un argomento per me non nuovo, nell’ambito di un vetusto festival, insieme a Franco Cordelli, che però aveva dato forfait. Io ero partito da Roma presto ed ero sceso a Modena, per percorrere a piedi quella città che avevo visitato da ragazzo. Avevo incontrato per lo piú gruppi famigliari di piccolo-borghesi che passeggiavano tranquilli sotto i portici, guardando le vetrine. Molti preferivano volare in bicicletta nelle piste ciclabili.

Cercai la torre da dove si buttò l’editore ebreo Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938) proprio nell’anno delle leggi razziali. Fu uno dei primi editori che mi colpirono, vagando per le bancarelle romane dei libri usati. Ciano commentò quel suicidio cosí: «Si è ammazzato proprio come un ebreo, risparmiando un colpo di pistola».

Avevo dato appuntamento alle sedici alla signora del festival che era venuta a prendermi per portarmi nell’albergo La Cartiera. Mi aveva poi atteso una decina di minuti fuori dall’hotel mentre mi lavavo la faccia, poggiavo la mia borsa di pelle, quella stessa che usavo negli anni in cui insegnavo all’università. Poi mi aveva accompagnato nella stradina che dava nei locali del festival. Avevo chiesto alla ragazza della reception dove era il cantinone e lei non mi aveva saputo spiegare bene. Cosí dopo due giri inutili, arrivai finalmente davanti alla porta d’ingresso. Notai un gruppo che parlava con Roberto Galaverni e accanto un altro gruppo tra cui spiccava un signore biondo, magro e alto, i capelli spruzzati di bianco, in giacca e cravatta, con una ragazza mora a lui abbarbicata. Sembrava un vichingo. La mora invece sembrava la controfigura di Amélie. Quando fui a due passi da lei sentii esclamare: «Ecco il mio maestro!».

Era Amélie in persona che mi aveva seguito fin lí con l’evidente proposito di farmi ingelosire. «Buon per te» le risposi. Me lo presentò come un famoso regista ungherese, cotto di lei, che risiedeva a Modena da qualche anno. Salutai calorosamente Galaverni e una volta all’interno del cantinone Amélie mi disse che era venuta incuriosita dal mio intervento che, aveva letto da qualche parte, si sarebbe riferito soprattutto ad Amelia Rosselli. In quel cantinone illuminato da una luce fioca erano sedute piú di duecento persone, giovani e vecchi. Galaverni mi presentò come uno molto legato all’ambiente del Sessantotto, citando i miei libri che erano in fila nel banchetto all’uscita, insieme ad altri. Poi spiegò l’assenza dovuta a improvvisa malattia di Cordelli, di cui citò l’antologia Il pubblico della poesia firmata con Berardinelli, Il poeta postumo e Proprietà perduta sui festival, da quello cult sulla spiaggia di Castelporziano agli altri, citando la mia presenza in quei raduni all’aperto. La serata iniziò con un attore che lesse la poesia di Pasolini contro gli studenti e a favore dei poliziotti nella battaglia di Valle Giulia. Il mio intervento si soffermò dapprima su quella poesia che avevo portato dattiloscritta alla tipografia di Nuovi Argomenti. Dopo aver accennato al Sessantotto drogato di Elsa Morante, per via dell’amore improvviso per il giovanissimo pittore gay Bill Morrow e a quello identificatorio di Moravia, passai a parlare del pensiero politico di Miss Rosselli, soffermandomi sull’iscrizione al Pci, disapprovata dal suo psicanalista junghiano Ernst Bernhard. Ricordai naturalmente Amelia a lato dei cortei studenteschi di quell’anno maledetto con il suo Ciao o in bicicletta, con il foularino rosso attorcigliato al collo e il cappellino con la visiera. Non ci fu dimostrazione o assemblea degli studenti che non contemplasse la sua presenza. A ben vedere, era quell’energia esplosiva dei ragazzi rivoltati che la faceva entrare in fibrillazione. Spesso però ci avvertiva in quei gioiosi cortei della presenza di uomini dei servizi segreti di mezzo mondo, compresi quelli della Cia, i piú pericolosi. Aveva una simpatia spiccata per il Sessantotto, come ho già detto. Lessi e commentai i versi di Documento dedicati allo sciopero generale del 1969. Mi soffermai sulla verticalizzazione della poesia, guardando Amélie che era seduta con il suo drudo in prima fila. Solo allora realizzai che era vestita con una blusa blu e con una gonna dello stesso colore. La crisi della verticalizzazione della poesia portò Amelia all’abbandono della “pan-poesia”, senza però ripiegarla nell’engagement, una specie di zdanovismo che quel movimento voleva si praticasse. Tutto questo provocò una mancanza d’ispirazione, di cui iniziò a lagnarsi. I contestatori disprezzavano la poesia senza conoscerla. Tutta quella fatica di ben tre libri non era servita a nulla. Tanto valeva farla finita anche con la vita. Era una sensazione simile a quella che attraversò Pasolini quando decise di rischiare di morire ogni notte. Parlai infine delle sue “visioni e voci”, che l’avevano accompagnata per tutta la vita, della sua pratica poetica magica, accennando al gioco del bicchierino, vere e proprie sedute spiritiche dove, assieme a Rocco Scotellaro, cercava l’ombra di suo padre e la sua voce. Avvertii che Miss Rosselli era una medium, che conosceva bene la magia del sud del mondo e consultava I Ching, ispirandosi per le sue poesie. Non era un poeta della luce, come il suo amico Sandro Penna, e non aveva a che fare con l’ideologia pasoliniana. Accennai anche al colore blu delle sue libellule. Il Sessantotto, ripetei, nacque perché tutta una gioventú voleva vivere insieme, contestando il lascito morale dei propri genitori. Le ragazze, ad esempio, misero in pratica con i loro ragazzi una vera e propria rivoluzione sessuale, entrando nel mondo a una dimensione del nuovo capitalismo. Ma quella rivoluzione si compí a metà, come piú tardi quella politica. Negli anni Settanta la guerra civile che causava un morto al giorno e bombe e stragi di cui non si è mai saputo niente avevano terrorizzato la buona Amelia. Erano tornati i tempi di suo padre, perciò aveva chiesto asilo politico all’Ungheria, poi alla Svizzera e infine a Mosca, come sappiamo. Lei però l’eterno fascismo italiano lo aveva previsto, non tanto nell’omologazione pasoliniana delle borgate, quanto per il dna delle classi dirigenti, che non l’avevano mai del tutto abbandonato. Se fosse vissuta fino a oggi ne avrebbe avuto la conferma. Il suo timore e tremore non erano tanto per la dittatura mussoliniana, dell’uomo solo al comando, quanto per quella mediatica planetaria, i cui sintomi sovranisti già avvertiva negli anni Sessanta.

All’uscita Roberto ci convocò nella trattoria limitrofa intitolata curiosamente a Tondelli, in riferimento allo scrittore, chi sa. L’oste aveva messo insieme tavoli per quindici persone, compreso il regista ungherese e la sua compagna, ma ancora non era riuscito a trovare le sedie, visto il pienone. Prevedendo una cena che si sarebbe protratta almeno fino all’una, tirai fuori la scusa della dieta ferrea e mi feci riaccompagnare in albergo. Amélie ci tenne a dirmi che le era piaciuto il mio intervento, fatto sempre con nonchalance, ma che la questione della verticalizzazione della poesia avrei dovuto spiegarla meglio. Le risposi che però avrei annoiato il pubblico, rimasto elettrizzato per tutto il tempo del mio intervento dai versi della poetessa maga. E poi all’improvviso esclamò: «Renzo, mi sono trasferita a Modena a casa sua, me lo sposo!».

Precisai, sorridendole, che era riuscita dove la sua poetessa aveva sempre fallito, e che ora finalmente tornava a essere se stessa. Almeno per una volta ero stato io a lasciarla, sia pure in buona compagnia. Mi diede un pugno affettuoso sulla spalla dicendomi: «Tanto l’anno prossimo ti invitano ancora e ci rivediamo». Sembrava finalmente felice.

Sul letto de La Cartiera aprii il computer e lessi un profluvio di interventi critici sulla sua divina poetessa. Iniziai con Carlo Levi, che su La Stampa del 30 dicembre 1954 traccia un ritratto splendido della madre di Carlo e Nello, paragonandone la bellezza a quella di Eleonora Duse, partendo dal funerale al Verano di Roma. Era diventato amico fraterno dei Rosselli fin dal 1924. Frequentava la casa di via Giusti «con un giardino interno pieno di alberi antichi, di fiori e di fresche ombre». Amelia, che aveva avuto successo con il dramma Anima del 1898, è «gentile e affettuosa e un po’ lontana e inaccessibile... con la dignitosa fierezza delle dame antiche». Segue Maria Corti su Repubblica dell’11 marzo 1996, dove racconta che gli eredi e in particolare il fratello John da Londra inviarono al Fondo manoscritti dell’Università di Pavia il materiale manoscritto e dattiloscritto della poetessa. «Si tratta di ben quarantasei cartelle e contenitori» di cui due sulla sua attività di musicologa. Voleva fare l’organista, prima che la poetessa. La Corti esclama: «E che dire dei dipinti su carta a forti colori con varie tecniche pittoriche, di tipo prevalentemente astratto e gli studi su Carte segrete di Scipione, Penna, Campana, Hopkins, Joyce e la Dickinson e la Bachmann, dove scriveva che la poesia è “frutto di lunghi ragionamenti, di ricerche, di ideali covati a volte per anni...”». C’è poi l’articolo di Lietta Tornabuoni su Tuttolibri del 28 febbraio 1981 dove si parla del premio Pasolini vinto dalla Rosselli, nel quale anch’io ero giurato. «Non mi interessa il terrorismo. Ne detesto il linguaggio fascistoide» disse Amelia davanti al folto pubblico del teatro Argentina, aggiungendo: «Mi sono innamorata molto facilmente, in passato, ma non ho mai voluto sposarmi né avere figli, anche per l’esperienza familiare negativa». Precisò anche che «il giudizio della critica non ha per me nessuna importanza». Ci sono poi resoconti sul terzo Festival internazionale di Roma, quello dell’Università La Sapienza nel 1981, dove ci riabbracciammo, e su quello multietnico di Rotterdam, nonché sulle serate alla Libreria delle donne di Milano dove la omaggiarono. In quell’occasione disse: «La differenza sessuale parla anche in poesia... io non mi sento per nulla un oracolo». Ci sono poi recensioni di Amelia, come quella a Zelda Fitzgerald piú che al grande Scott, in cui sottolinea un senso di “fallimento e delusione” che la portò a morire nell’incendio di una clinica svizzera.

Tornato a Roma telefonai a Franco Cordelli, che mi disse che non era venuto a Vignola perché era appena tornato da Londra ed era distrutto. Saputo il motivo della mia telefonata iniziò cosí: «Non ho avuto molta confidenza con Amelia Rosselli. Ne sapevo qualcosa da Dario che la stimava come poetessa ma non come donna. Dunque l’ho incontrata la prima volta nella libreria Ferro di Cavallo quando ci riunivamo lí a leggere. Poi, certo, ai festival. Adesso mi viene in mente che proprio a Castelporziano parlò in pubblico della Cia. Ho un ricordo preciso, però. Ero in via dei Pettinari, a casa di Dario. C’era anche lei, erano tornati amici da tempo. Forse era il 1976, ma non so. Mi sembrò subito una donna alla ricerca di se stessa. Si muoveva in quella casa come fosse alla ricerca di qualcosa, di se stessa appunto. Era una poetessa molto conosciuta ma non si dava arie di nessun tipo, non mi sembrava vanitosa, anche se non ricordo di che parlammo. Insomma l’ho sempre incontrata con altre persone, mai da sola, e in società sembrava una donna normale, con nessun grande senso di sé. Aspetta, adesso ricordo che in casa di Dario parlò della Cia e io pensai tra me e me che stesse scherzando. Invece lei credeva fermamente a quello che diceva».

Poi Franco mi fa una domanda a bruciapelo: «Lo sai, sí, che siamo due sopravvissuti? Dunque gli scrittori della generazione del Trenta al massimo arrivavano a toccare i sessanta, quelli del Quaranta hanno toccato i settanta, a noi ci sta andando di lusso. Caro Renzo, sei un sopravvissuto!».

Presi la palla al balzo e telefonai al cellulare di Alfonso Berardinelli. Era a Roma e volle richiamarmi sul mio numero di casa.

«Sí, la incontrai anch’io la prima volta al Ferro di Cavallo. Ricordo che leggendo le sue cose allargava le braccia, scattava in piedi, era molto teatrale. Mi colpí per la sua bellezza. Piú tardi l’ho incontrata in un bar di piazza Navona. Rimase rigida, ferma nella sua sedia. Non era sospettosa, anzi sembrava gratificata dalla mia attenzione per la sua poesia. Dovevo scrivere una prefazione. Avevo l’impressione che non appartenesse a questo mondo. Una volta sono salito nella mansarda di via del Corallo. Era una donna magnetica, attraente, ma era con la testa sempre altrove».

Quando gli ho raccontato il mio viaggio a Milano con lei e Marina, mi ha suggerito di considerare la sua gelosia non in termini realistici. «Lei era gelosa di Marina in quanto donna, non era gelosa di te, ma di lei in quanto donna, non in quanto tua fidanzata. Insomma Renzo, lei era Artemide che puní gettandolo in pasto ai cani il povero pastorello solo perché l’aveva vista nuda. In quanto alla sua poesia hai ragione, Andrea Zanzotto la imitò, ma anche Mario Luzi e certo Pier Paolo Pasolini, quando con Trasumanar e organizzar disfa del tutto la sua poesia. Era una entità mitica, visse a oltranza».

Alfonso si lagnò della fatica di scrivere gli articoli per mangiare. Ne aveva appena consegnato uno su Karl Kraus per Il Sole 24 ore, dove scriveva da tempo.

«Un po’ è anche colpa tua, no?... Ti sei sempre dimesso da tutto, dall’università e poi da una casa editrice».

Siamo dei sopravvissuti anche perché, disse, abbiamo in testa ancora di fare una rivista come L’età del ferro, quando nemmeno i critici universitari ne farebbero una.

«Oggi la letteratura è diventata obesa. Chi la scrive non la conosce, al pari di chi dovrebbe insegnarla». Me la risi pensando a un romanzo fiume dedicato a Mussolini appena uscito. Quella sera, nella libreria Assaggi del mio quartiere incontrai Andrea Caterini, che sentendo del mio libro mi avvertí: «Amelia ha una critica quasi tutta al femminile. Se fossi in te metterei in conto qualche stroncatura. Le sue fan sono esclusive».

Ho preso coraggio e ho voluto ascoltare i ricordi di Manuela Forti, figlia di Silvia Rosselli che oggi ha novant’anni e vive all’Infernetto.

«Avevo cinque anni quando andavo a trovarla con mia madre in lungotevere Raffaello Sanzio. Appena entrati nel salotto ci diceva di rimanere in piedi altrimenti i raggi della Cia ci avrebbero colpite. Vestiva di bianco, con un nastrino di velluto al collo per occultare le rughe. Diceva: “Da giovani ci si veste per piacere, da vecchi per non dispiacere”. Mia madre mi portava da lei per timore che da sola la assalisse. In casa tutti la chiamavano la Melina, aggiungendo “la pazza”, ma io ho sempre pensato che lei fosse ipersensibile e che non dicesse bugie su quelli della Cia. Per quanto riguarda l’assassinio dei due fratelli, io non ho mai capito perché avessero ammazzato anche Nello, il quale peraltro non voleva andare a Bagnoles. Era la nonna Amelia che doveva accompagnarlo, ma all’ultimo momento non volle. Comunque si difesero. Trovarono la pelle di uno degli assassini sotto le unghie dei due fratelli. La nonna lo seppe un anno dopo». Sentendo che ero interessato alle pratiche magiche che certo Miss Rosselli conosceva, mi confessa che il gioco del bicchierino lei lo faceva spesso. Avrebbe chiesto a Silvia se ricordava qualcosa.

La vita non era nelle verdure, nei succhi di frutta o nei tè che sorseggiava con ingordigia, era irrimediabilmente altrove. E di quell’altrove i suoi amici percepivano soltanto la superficie. Lidia Riviello, la figlia del poeta Vito, mi ha ricordato quando andammo a Frascati dove il padre aveva organizzato un reading di poeti. «C’era anche Amelia, ricordi? Io ero una ragazzina. La sera mio padre la ospitò su un divano vicino alla mia stanzetta. A notte fonda mi sentii bussare sulla spalla. Terrorizzata, vidi quegli occhioni spalancati su di me. Mi disse che i suoi spettri stavano bussando alla finestra. Volle dormire abbracciata a me. Una notte terribile, non chiusi occhio, con lei che si stringeva a me, in cerca di protezione».

Ho ascoltato anche Walter Siti, che mi ha confermato quello che Amelia diceva anche a me: «Consigliava di pubblicare solo le cose che non si capiscono, tralasciando quelle che sembrano piú chiare». Questa volta era stato Walter a telefonarmi per verificare che i versi eccelsi della Rosselli che stava commentando per una rubrica giornalistica fossero stati scritti per i suoi parenti “giustiziati”. Ed erano versi del 1967: «Cara vita che mi sei andata perduta / con te avrei fatto faville se solo tu / non fosti andata perduta». Abbiamo avuto entrambi l’impressione che si trattasse di versi assemblati.

A una presentazione romana, Emanuele Trevi mi parlò del suo libro in uscita Sogni e favole, dove c’è una parte riservata alla Rosselli. «Mio padre e lei avevano lo stesso psicanalista». Convenimmo che era curioso che entrambi avessimo pensato per i nostri memoir a Pier Paolo Pasolini e ad Amelia Rosselli. Dunque, seduto in una trattoria di via del Corallo, Emanuele vide Amelia con i capelli a caschetto, nerissimi, «forse già tinti» e avvolta da uno scialle nero, entrare nel suo portoncino e scomparire. Il vecchio cameriere lo avvertí: «Quella è una poetessa, un’anima in pena». Su questa espressione, citando il dossier sulla sua “malattia” pubblicato su Nuovi Argomenti, Emanuele scrive le pagine piú intense del suo bel libro. Si sofferma sui famosi versi autobiografici: «Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione / fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti / e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro. / Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa / nell’Ovest ove niente per ora cresce».

La sua, come del resto anche la mia Amelia, è una donna visitata da molte voci di spettri e attentissima a quelli che chiama “attori” che per farle piacere (good) la torturavano.