Roma, 11 febbraio 2019
Mi sentii di colpo svuotato. Giravo per il mio quartiere come uno straniero. Ebbi l’impressione che dopo avermi visitato e posseduto per tre anni di seguito, Amelia fosse volata via, soffiando altrove il suo spirito di fuoco. Ma dove si era diretta? Avevo scritto una poesia nel giorno della sua morte. Si intitolava “La Sibilla di via del Corallo” e diceva: «Per l’ignara annunciatrice era solo / un volo all’ingiú, il tuo / che invece era per risalire, / fiammeggiante Sibilla di Via del Corallo. / Ha il corpo di ragazza, esclamò / il guardiano dell’obitorio / quando il furgoncino della polizia / mortuaria, con tre angeloni al volante /// riprese via de Lollis. Allora mi sono / ricordato di quel Capodanno della nostra / giovinezza quando non volesti brindare / a mezzanotte e ci invitasti a buttare // i bicchieri dalla finestra godendo dello / scandalo dei vicini che ti credevano sola e ammalata. / Mi sono ricordato delle latterie che frequentavamo / dove all’improvviso cadevano tazzine e bicchieri / e di quel fazzoletto rosso al collo mentre / in bicicletta ci seguivi nei cortei // piú violenti degli anni Settanta, come per dirci / che eri presente, anima e corpo, in quel tuo / esserti votata contro il fascismo per sempre».
Non era la prima volta che, finito un libro, accostavo il mio stato a quello della partoriente. Dopo tutto quel sangue e quella placenta a bagnare le lenzuola, le puerpere vogliono dimenticare, ritornare a vivere. Per loro la nascita del figlio assomiglia a una liberazione. Tornando alla rugosa realtà dopo aver evocato a lungo Amelia avvoltolata nella sua sofferenza, la casa che abito da decenni mi sembrò insensata. Gli oggetti e i libri sembravano ammucchiati casualmente. Mi dicevo: «Se esco a passeggio quello che vedo non riesco a metterlo insieme. Dove vivo? In un quartiere sporco e pieno di gente sfigurata? Ma questo è già un giudizio morale, non si vede niente. Come Amelia ci ragiono sopra, per farmene una coscienza ma c’è molto che mi sfugge».
Anche tornare a mangiare con gusto non era semplice, lo facevo meccanicamente. Mi ero dimenticato dei sentimenti di cui prima vivevo e quello che mi ossessionava non lo sentivo piú. Era come se avessi vissuto in un mondo parallelo, in una realtà diversa, finalmente sensata. Tornavo a dirmi: «Capita a tutti gli scrittori di avere vertigini, alla fine di un libro, che sarà mai? Nel frattempo è come se dovessi riempire piano piano il mio dentro che somiglia alla pancia sgonfia e vuota della partoriente».
Mi svegliavo a notte alta, con dolorosi crampi, e mi alzavo per farli passare andando in bagno. L’altra notte, un sogno mi ha svegliato all’alba. Ero tutto bagnato di sudore. Ne ricordavo solo l’ultima parte. Io ho sempre avuto orrore dei serpenti, fin da piccolo, quando dentro una siepe dove cercavo un uccellino caduto dal nido, ne vidi uno che, spaventato dalla mia presenza, strisciava verso il campo di grano. Era lí per divorare l’uccellino e non c’era riuscito. O almeno cosí credevo. Vidi non la testa della serpe ma il corpo scuro, che sfrascava in corsa. L’aveva appena divorato? L’uccellino non chiamava piú sua madre. Poi fu la volta di una vipera, ma ero adulto ed ero finito in un campo di visciole. Il mio primogenito con un bastone frugava dentro l’erba per spaventare l’eventuale serpe, finché accucciato dinanzi a una buca del terreno mi sentii chiamare. Aveva visto qualcosa. Corsi a soccorrerlo. Lo presi in braccio e diedi un’occhiata. Una vipera tirò fuori minacciosa la lingua biforcuta e tornò a nascondersi.
Nel sogno camminavo in un villaggio del sud della Cina. Dopo pranzo la guida ci aveva portato accanto a un antico tempietto buddista dove i paesani facevano scorrere con un colpo della mano un rullo di preghiera recitando una nenia. Il rullo sembrava una sonagliera. Bisognava spingerlo con svagatezza, pregando, per permettere allo spirito allertato di raggiungere saggezza e compassione, prima dell’illuminazione. Il rullo era di origine tibetana. Al centro del cilindro compariva l’albero della vita. Lo avevo spinto anch’io piú volte, catturato dal suo suono che aveva connotazioni etnomusicali e religiose. Le fedeli erano vestite con ampie gonne colorate che coprivano i piedi bruni e scalzi.
Abbandonai il gruppo dei turisti e mi addentrai in un campo che mi pareva fiorito di mentuccia. Ne colsi una piantina, catturato da quel piacevole odore. Arrivava fin lí la musica ammaliante del rullo. In mezzo al campo si aprí una buca di grandi dimensioni. Mi chinai per vedere cosa nascondesse. Qualcosa si mosse nel terriccio scuro. Mi sembrò dapprima un grosso boa. Sembrava attorcigliarsi su se stesso, come se si mordesse la coda. Si muoveva a piccole mosse per nascondersi meglio in quella sua grande tana. Ma dopo la prima impressione, come accade nei sogni, vidi che si trattava delle braccia avvizzite di una donna che, sdraiata a pancia all’aria, si ritirava lentamente dentro la parte piú oscura della tana. Sembrava che stesse giocando a nascondino con i bambini del tempietto. Aveva le braccia bianche e ossute, come le spire di un boa. Mi sembrò di riconoscere quelle di mia madre, che lavavo accuratamente nella vasca da bagno poco prima che mia cognata la ricoverasse in una clinica per vecchi. La testa innevata sembrava la sua.
«Oddio, mamma, sei tu? E che ci fai in Cina?».
Alle mie spalle sentii una voce femminile che biascicava: «Sono io».
Mi voltai esterrefatto. Una vecchia, in piedi, vestita con un panno rosso sangue che le copriva i piedi nudi, mi osservava severa. Assomigliava a una delle vecchie del villaggio, tranne le fessure degli occhi, che non erano orientali. La riconobbi dal loro colore, non piú azzurri ma d’un verde bottiglia.
«Amelia, che ci fai qui?».
«...».
«Sei al dunque precipitata giú dal terrazzino per risalire in cielo e volare libera come dicesti nei versi sul tuo angelo custode».
Mi rispose lenta, con una voce cavernosa: «Quando torni in quel paese di matti, non dire, ti prego, che mi hai vista qui. Sappi che sono vissuta in questi anni libera e felice. Consiglio anche a te di chiedere asilo in un villaggio cinese».
Stavo per risponderle quando la vecchia Amelia scomparve. Guardai nella buca, la trovai vuota. Tutto sudato mi svegliai e corsi in cucina a bere diversi bicchieri di acqua fresca, forse pentito di aver raccontato la feroce sofferenza di una grande poetessa, vissuta nella solitudine di una buca interiore.
«La solitudine non è che un prodotto dell’aldilà» della «figliola dal cuore devastato», allertata da chi avrebbe voluto stanarla. Solo piú tardi ricollegai il rullo cinese che Amelia aveva citato al suo modo di poetare. Fin da Spazi metrici, che è del 1962, scriveva: «Piú tardi presi a osservare il mutare di questo delirio o rullo nel mio pensiero a seconda della situazione che il mio cervello affrontava a ogni cantonata della vita, a ogni spostamento spaziale o temporale della mia quotidiana pratica esperienza... la realtà era mia, ma anche degli altri: scrivevo versi liberi». Poi quel rullo diventò cinese in un incontro in cui Amelia cercava di spiegare a un pubblico studentesco universitario la sua metrica oscura.
«Inserivo l’ideogramma cinese tra la frase e la parola, e traducevo il rullo cinese in delirante corso di pensiero occidentale... la forma rullo suggerisce il lento delirare, srotolarsi dell’idea... Pound ci ha suggerito di leggere le poesie cinesi».
Accoppiava il rullo al “cavallo cinese”, un esagramma dei compulsatissimi I Ching. Al dunque, la creatività non deve essere imbrigliata dalla ragione, il cavallo deve correre libero e il rullo del cervello, come quello della preghiera tibetana, deve srotolare i suoi contenuti musicali e spirituali, spinto dalla mano che li registra sul foglio della sua Olivetti 22 con svagatezza, come se si stesse «facendo le unghie mentre l’opera cresce» (Joyce), senza mai diventare la “scrittura automatica” dei surrealisti.
Ho iniziato questo memoir citando Il tempo ritrovato di Marcel Proust. Lo chiudo con una frase presa dallo stesso volume, un vero scrigno di ricordi: «Un libro è un grande cimitero dove, sulla maggior parte delle tombe, non si possono piú leggere i nomi ormai cancellati. Talvolta, al contrario, ricordiamo benissimo il nome, ma non sappiamo se qualcosa dell’essere che lo portava sopravvive nelle nostre pagine. Quella fanciulla dagli occhi profondamente incavati, dalla voce strascicata, è qui? E se davvero vi riposa, in quale parte? Non lo sappiamo piú, e come trovarla sotto i fiori?».
Questo libro, che hai ancora per poco tra le tue mani, mio simile lettore, è stato per me come un lungo gioco del bicchierino, una vera seduta spiritica, dove voci e spettri si sono alternati, come nella mia infanzia.
La storia di Amelia Rosselli, la magica poetessa del Novecento, finisce qui.