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Christiane Spidsøe era una donna graziosa e mora sui trentacinque e non c’erano dubbi sul fatto che fosse una ballerina. Si muoveva sul pavimento dell’ufficio a passo di danza, versava il caffè nelle tazze come se fosse in scena, con il sorriso sulle labbra e il mento sollevato, ma per quanto quella bella donna cercasse di far sembrare l’incontro normale, Mia vedeva benissimo che l’assassinio di Vivian aveva lasciato profonde tracce su di lei.

«Direttrice del Balletto» disse la Spidsøe sedendosi sulla sedia davanti a loro.

«Mi perdoni, ma non ne so molto di teatro» ribatté Munch.

«È tutto a posto» sorrise la Spidsøe, «abbiamo un direttore amministrativo, un direttore dell’Opera e un direttore tecnico, un direttore finanziario, non è semplicissimo far girare la macchina... Latte o zucchero?»

La graziosa direttrice si protese sul tavolo indicando un piatto d’argento.

«Per me no» disse Munch.

«Che tragedia» esordì la Spidsøe guardando rapidamente Mia.

«Voglia accettare le nostre condoglianze, dev’essere stato uno shock» disse Munch sbottonandosi il montgomery.

«Terribile» proseguì la Spidsøe, scuotendo il capo. «Quasi non riusciamo a crederci. Non ancora. Vivian. Era... il nostro piccolo raggio di sole.»

Accennò un sorriso portando la tazza del caffè alla bocca.

«Potrà sembrare infantile, ma parlo sul serio. Vivian non era come le altre, non era così egocentrica, mi spiego?»

«Non esattamente...» tossicchiò Munch con un sorriso.

«Ah, be’, sa come sono» continuò la Spidsøe, «i ballerini...»

«Non proprio...» insisté Munch gentilmente.

«Mia sorella era una ballerina» disse Mia.

«Ah sì? Professionista?»

«No, lo era quando eravamo piccole. Spettacoli scolastici, cose del genere.»

«Che bello» annuì la Spidsøe. «La danza purtroppo è una forma d’arte sottovalutata in questo mondo affollato di interpretazioni letterarie, ma facciamo quel che possiamo. La plebaglia...»

«La conosceva bene?» domandò Munch schiarendosi la voce.

«Vivian? Sì e no» rispose la Spidsøe posando la tazza. «Come direttrice del Balletto sono responsabile di quasi sessanta ballerini, oltre ai maestri di ballo, gli insegnanti, il personale dell’amministrazione, ma cerco di seguire tutti individualmente per quanto possibile.»

«Quando è stata l’ultima volta che l’ha vista?» chiese Mia.

«Mercoledì pomeriggio» disse la Spidsøe. «Siamo nel periodo degli spettacoli, così tutti hanno avuto il giovedì e il venerdì liberi. In realtà Vivian era venuta nel mio ufficio per chiedermi se poteva avere libero anche lunedì.»

«Ah sì?»

«A quanto pare doveva partire.»

«Le ha detto per dove?» domandò Munch curioso.

La Spidsøe si allungò verso il piatto d’argento e gettò una zolletta di zucchero nel suo caffè.

«Questioni familiari, credo, mi dispiace. Avevo in mente altre questioni. Abbiamo sforato il budget, così c’è stato un po’ da fare negli ultimi tempi.»

«Ma ha detto che andava tutto bene, no?»

«Lavorano tutti giorno e notte qui durante il periodo degli spettacoli, così vedo di buon grado che qualcuno dei ballerini si prenda un po’ di riposo quando è possibile.»

«Non ha neanche una vaga idea di quale fosse la sua destinazione?»

«Purtroppo no. Che tragedia. Avete qualche pista...?»

«Non ancora, purtroppo» rispose Munch.

«Vivian aveva i buchi alle orecchie?» domandò Mia.

«Che intende dire?»

La Spidsøe la guardò in modo strano.

«Ha presente...»

Mia si toccò i lobi delle orecchie.

«Ah, no, in realtà non lo so. Perché?»

Mia lo vide ancora più chiaramente ora. Che era soltanto una facciata. Christiane Spidsøe aveva assunto un’aria professionale per affrontare la giornata, ma in realtà era sul punto di crollare. Quando ripose la tazzina sul tavolo con mani tremanti, il piattino cominciò a ticchettare.

«Mi dispiace, io...»

Sorrise debolmente mentre una lacrima le scendeva sulla guancia. L’asciugò con mano ferma e si drizzò nuovamente sulla schiena.

«Siamo noi a essere dispiaciuti» disse Munch. «Sappiamo quanto dev’essere difficile per lei. Apprezziamo molto che abbia accettato di aiutarci.»

«Ci mancherebbe...» disse la Spidsøe, mentre un’altra lacrima seguiva la prima.

Mia si sentì venir meno.

Tutto quel dolore.

Ebbe un sussulto quando sentì vibrare il telefono nella tasca del giubbotto di pelle.

Ludvig Grønlie, sul display.

«Devo rispondere» disse uscendo in corridoio.

«Sì?»

«L’ho trovato» disse Grønlie. «Sebastian Falk. È in Svizzera, ad arrampicare. Povero ragazzo, non sapeva della disgrazia.»

«Come ha reagito?»

«Pietrificato» mormorò Ludvig. «Non è riuscito a spiccicare una parola. Ha dovuto riagganciare per poi richiamarmi dopo qualche minuto.»

«Gli hai chiesto se avevano una relazione?»

«Ho avuto l’impressione che fossero molto amici, ma nulla di più. Ha detto che avrebbe preso il primo volo.»

«Gli hai chiesto di avvisarci quando arriva?»

«Ha detto che vuole aiutarci, l’ho pregato di telefonarmi.»

«Ottimo, grazie, Ludvig» disse Mia, e riagganciò.

Stava per tornare nell’ufficio della direttrice quando il suo telefono squillò di nuovo.

«Ehi» disse Gabriel Mørk. «Il tuo telefono ha qualche problema?»

«Sì, si comporta in modo strano. Ne comprerò uno nuovo appena avrò un po’ di tempo. Trovato niente?»

«Certo» rispose il giovane hacker, con voce su di giri. «Ci è voluto un po’, ma alla fine l’ho trovato.»

«Dimmi.»

«Ho trovato qualcosa su Indicia su Karoline Berg, in relazione a un uomo di nome Raymond Greger.»

«È stata ricercata dalla polizia?» domandò Mia sorpresa.

«No, non lei, ma lui. La cosa strana è che non c’era nulla nel file, soltanto il nome di un avvocato della polizia di Bodø.»

«Il file su Indicia era vuoto?»

«Esatto, nulla, soltanto questi nomi, ma ho telefonato all’avvocato. Una cosa molto interessante direi, hai un minuto?»

«Certo, spara!»

«Pare che questo Raymond Greger fosse sospettato per un caso di qualche anno fa.»

«Ed è collegato a Vivian in qualche modo?»

«Sì, scusa, è suo zio.»

«Il fratello di Karoline Berg?»

«Fratellastro.»

«E di che cosa era sospettato?»

«È qui che viene il bello» proseguì Gabriel. «In due diverse occasioni scomparvero due bambine a Bodø qualche anno fa. Le bambine ricomparvero e raccontarono entrambe la stessa strana storia.»

«Ovvero?»

«Erano state adescate da un uomo e portate in una casa fuori città.»

«Aggressione?»

«Eh, no, non esattamente, aveva solo giocato con loro.»

«Che cosa intendi con ’giocato’?»

«Che ha giocato con loro. Giocato con le bambole, hanno servito il tè, si sono travestiti...»

«Eh?»

«Lo so, detta così è roba da non crederci.»

«E allora perché era nel database?»

«Appunto, senti adesso» disse Gabriel acceso. «Entrambe le bambine puntarono il dito su Raymond Greger, ma il caso fu chiuso.»

«Perché?»

«In realtà non capisco bene, una questione tecnica, forse Anette te lo potrà spiegare meglio, ma comunque, fu scagionato e ottenne un avvocato affinché non comparisse nulla su di lui nei registri.»

«Strano. Ha detto qualcosa sul perché?»

«Probabilmente perché potesse continuare con...»

«Con che cosa?»

«Con il suo lavoro. Fa l’insegnante.»

«Mi stai prendendo in giro?»

«No.»

«A Bodø?»

«No, no, ha lasciato la città.»

«Sappiamo dove si trova ora?»

«Sì» rispose Gabriel, trionfante. «Lavora alla scuola media di Hedrum. Appena fuori Larvik.»

«Cazzo.»

«Lo so. Credi possa c’entrare qualcosa con noi?»

«Certo!» rispose Mia. «Bravissimo, Gabriel.»

«L’avvocato della polizia vorrebbe parlare con noi.»

«Ok, fallo parlare con Anette.»

«Benissimo.»

«Ottimo lavoro, Gabriel. Ci vediamo più tardi.»

Mia rimise in tasca il telefono e rientrò nell’ufficio della direttrice.