Holger Munch si sentiva un idiota, in piedi davanti alla finestra del piccolo appartamento, e si accese la quarta sigaretta della giornata. Era arrivata la primavera in città, gli alberi cominciavano a rinverdire intorno al Bislett Stadion, ma quella era anche l’unica cosa che lo faceva sentire un po’ meglio. Era stato un inverno pesante. No, era stato un bell’inverno, per questo si sentiva così sciocco. Aveva preso un periodo di aspettativa. Miriam, la figlia, aveva avuto un incidente. Lui aveva lasciato momentaneamente il lavoro per aiutarla a rimettersi in piedi. L’incidente aveva fatto riavvicinare la famiglia. Erano trascorsi oltre dieci anni da quando aveva lasciato la sua vecchia casa di Røa, ma per tutto quell’inverno era stato come se il periodo cupo di allora fosse lontanissimo, come se il divorzio da Marianne quasi non fosse avvenuto. Miriam era stata ricoverata in ospedale, ma poi, non appena aveva cominciato a stare meglio, l’avevano dimessa ed era tornata alla vecchia casa. E lui l’aveva seguita. Il nuovo marito della ex moglie, Rolf, se n’era andato per lasciare spazio alla convalescente e Munch si era dato il suo bel daffare per riprendersi il proprio posto. E così erano quasi tornati una famiglia. Cazzo, pure lui avrebbe dovuto capirlo che non sarebbe durata. Com’era stato stupido. I pranzi insieme intorno al costoso tavolo del salotto. Quello che avevano comprato insieme tanto tempo prima, quando lui era appena diventato investigatore alla Omicidi e per la prima volta si erano ritrovati in tasca qualcosa in più da spendere. I venerdì sera davanti alla tv come una famiglia normalissima. Lui e Marianne sullo stesso divano, con la nipotina Marion in mezzo. Come ai vecchi tempi. Come se fossero di nuovo insieme.
Marianne non l’aveva nemmeno criticato per quello che era successo. La Omicidi stava dando la caccia a un assassino psicopatico e Miriam era stata la sua ultima vittima. Meglio: avrebbe potuto essere la sua ultima vittima. Munch prese un’altra boccata dalla sigaretta, scrollando il capo. Sentì che la paura non aveva ancora abbandonato completamente il suo corpo. E se...? Pensa se... Ma era andata bene. Per fortuna. E poi lui aveva finito per farsi cullare da quella piacevole condizione. Lui e Marianne. Miriam. E la piccola Marion. Si era anche rimesso la fede al dito. Che idiota. Marianne se n’era accorta subito. Il giorno prima era uscita sulle scale mentre lui stava fumando.
Holger, forse dovremmo parlare...
Lui aveva capito guardando i suoi occhi.
Domani torna Rolf...
Si era limitato ad annuire. Aveva messo in borsa le poche cose che si era portato e lasciato la casa con la coda tra le gambe, un’altra volta.
Razza di idiota.
Come uno sciocco adolescente.
Che cosa si era messo in testa?
Holger Munch spense la sigaretta fumata solo a metà nel posacenere accanto alla finestra ed era già sul punto di accenderne un’altra quando squillò il telefono.
Il nome sul display.
Era da tempo che non compariva.
Anette Goli.
La talentuosa e bionda collega che aveva gestito la squadra mentre lui era lontano.
«Parla Munch.»
«Ciao, Holger» disse la voce gentile.
Holger Munch era stato a capo dell’unità speciale Omicidi di Mariboes gate per poco più di un decennio, e nel corso del tempo aveva messo insieme gli elementi migliori che ci fossero sulla piazza. Anette Goli era sicuramente tra questi. C’erano stati dei contrasti tra i membri dell’unità e la direzione giù a Grønland. A Munch piaceva fare a modo suo e la cosa non andava bene a tutti. Ad esempio a Mikkelson, il capo. Munch era certo che se la loro percentuale di soluzione dei casi non fosse stata totale, Mikkelson li avrebbe trasferiti nuovamente alla sede centrale, in modo da tenerli sotto osservazione. Politica. Controllo. Anette Goli era per lo più una diplomatica. Era il collante che teneva unito il sistema.
«Tutto bene?» chiese la Goli. «Come sta?»
«Miriam? Bene» rispose Munch allungandosi per prendere un’altra sigaretta. «Sempre meglio, in realtà, ha ripreso a parlare, non benissimo, ma si va avanti un poco per volta.»
«Non voglio essere indiscreta, è solo per tastare il terreno. Mikkelson rivuole l’unità in azione. Nessuna pressione, ovvio, volevo solo sapere se ti senti pronto a tornare.»
«Si tratta della ragazza del lago, vero?»
«Già» rispose la Goli. «L’hai saputo?»
Lì a Røa Munch si era lasciato cullare nella sua bolla, cercando di tenere lontana la realtà, ma ovviamente non era stato possibile. I media ne avevano parlato per giorni. Una giovane ballerina in costume di scena trovata morta in un lago sperduto, in cima a una montagna.
«Così pare» rispose Munch. «Sappiamo chi è?»
«Vivian Berg, ventidue anni, del corpo di ballo del Teatro Nazionale.»
«Abbiamo quanto basta» rispose Munch. «Quindi era di qui?»
«In realtà di Bodø, ma abitava qui. Mikkelson vuole che ci occupiamo del caso.»
«Era stata denunciata la scomparsa?» domandò Munch rendendosi conto di aver già accettato.
Capo della polizia.
Una ballerina in costume da ballo?
In un lago in cima a una montagna?
Aveva cercato di estraniarsi, ma non aveva più senso. Era tornato nel suo piccolo appartamento, da solo. La fede riposta con cura nell’armadietto del bagno.
«No, per qualche ragione, no.»
«E allora come abbiamo fatto a sapere di chi si tratta?»
«La madre le ha fatto una visita a sorpresa da Bodø, ma non l’ha trovata in casa.»
«Merda...» commentò Munch.
«Già» assentì Goli. «Allora che ne pensi? Sei pronto? Facciamo ripartire la macchina? Rimettiamo in piedi la squadra?»
«Chi c’è sul caso adesso?»
«La KRIPOS, la polizia criminale, ma solo in via preliminare. Se sei pronto, il caso è nostro.»
«Tu ora sei in ufficio?»
«Sì» rispose Goli.
«Arrivo tra venti minuti» concluse Munch e riagganciò.