Munch fu svegliato dal telefono e all’improvviso si sentì incerto su dove si trovasse. Per un istante aveva creduto di essere tornato a Røa, nella vecchia casa, ma poi si rese conto rapidamente che aveva soltanto sognato. Si era addormentato sul divano di casa con i vestiti indosso dopo essere rientrato molto tardi dall’ufficio. L’orologio alla parete sopra la panca della cucina segnava le sette e un quarto. Quante ore aveva dormito? Tre? Il telefono smise di suonare e riprese di nuovo. C’era il nome di Anette Goli sul display. Munch si mise a sedere, ancora mezzo addormentato, e pigiò il pulsante verde.
«Sei sveglio?»
«Così pare» tossicchiò Munch.
Si allungò in cerca del pacchetto di sigarette sul tavolo, ma si ricordò di quel che aveva promesso a se stesso.
Cerca di non fumare prima di colazione.
A smettere ci aveva rinunciato, poteva almeno cercare di ridurre un po’.
«Ho parlato con Wolfgang Ritter. Può incontrarvi oggi, preferibilmente presto.»
Anette Goli aveva la voce di una che era sveglia da parecchio.
«Ok» disse Munch stropicciandosi gli occhi per scacciare il sonno.
«Ho sentito Mia, è pronta. Ho avuto la risposta di Mikkelson, tra l’altro.»
«Ah, sì?»
«Possiamo avere tutte le squadre che vogliamo. Sembrava molto disponibile, sul serio.»
«Ottimo» disse Munch cominciando a svegliarsi. «Da’ a Curry gli uomini di cui ha bisogno per battere a tappeto il condominio della vittima. Bussare a tutte le porte. So che la KRIPOS ha fatto qualche giro, ma voglio che parliate di nuovo con tutti, ok?»
«Sarà fatto» rispose la Goli. «E... sì, Lillian Lund vuole parlare di nuovo con te, la chiami tu?»
«Va bene. Sei in ufficio?»
«Sì. Non sono tornata a casa stanotte.»
«Poi vieni giù» disse Munch, e riagganciò.
Il corpulento investigatore allungò le braccia verso il soffitto. Il divano era troppo duro. Si sentiva rigido e indolenzito in tutto il corpo. Un nuovo caso, ventiquattro ore al lavoro, dimenticare di dormire, di mangiare... avrebbe dovuto saperlo, raramente quelli erano casi dalla soluzione rapida, in genere si rivelavano sempre una maratona.
Si prese il tempo per farsi una doccia ed era appena riuscito a infilarsi degli abiti puliti quando il telefono squillò di nuovo. Munch fu sorpreso quando vide di chi si trattava.
Miriam?
Sentì che lo pungeva di nuovo, quella minuscola e cupa preoccupazione che da qualche parte dentro di lui non se ne voleva andare.
Così presto?
Che fosse successo qualcosa?
«Ehi, Miriam» sorrise Munch. «Già in piedi? Come stai?»
Attese paziente la risposta. Sapeva che le ci voleva del tempo per formulare le parole, farle uscire di bocca nel modo giusto.
«St...o bene papà. E... tu?»
«Io sto benissimo» rispose Munch, allungandosi per prendere una sigaretta: aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi.
Era così orgoglioso di lei. E poi era così bello sentirla pronunciare di nuovo la parola papà. Per troppi anni era corso cattivo sangue, lei quasi non gli parlava. L’odio che ribolliva nei suoi occhi le rare volte che si erano incontrati. Andava così male tra loro che lei aveva quasi deciso di non fargli vedere la nipotina. Quel tempo era passato, adesso. Grazie a Dio. Non avrebbe potuto essere più felice per questo. Ma sentirla combattere in quel modo? Dovette riprendersi.
«Ti sei allenata ieri?»
«Il f... isioterapista... è venuto qui. Un b... uon lavoro, direi. Ho le brac... cia un po’ pesanti, ma le g... ambe sono diventate molto più fff...forti.»
«Ottimo» disse Munch. «Fantastico, Miriam. Sono contento di sentirlo. Marion è lì?»
«S...sta dormendo» balbettò la figlia.
Munch sentiva che le ci volevano tutte le sue forze per parlare. In realtà avrebbe voluto che si limitasse a restare coricata, per riposare, ma era chiaro che qualcosa le premeva, così la lasciò proseguire.
«H... a detto che le dovresti comprare uuu... n ca... vallo...»
«Sì, gliel’ho promesso, un cavallo per la sua bambola» disse Munch rapido.
«Non lll... a devi vi... ziare, ok? C... cer... ca di educarla a non essere così... così...»
«Mi dispiace» la interruppe Munch, perché non sprecasse altre forze.
«S... sì, è abbastanza importante...»
«Certo, Miriam. Farò attenzione, lo prometto. È solo che, già, lo sai che non sono capace di dire di no.»
Miriam ridacchiò a bassa voce. Lui si sentì riscaldare. Sorrise e si accese la sigaretta.
«Va b... bene» proseguì la figlia. «M... ma non era p... per questo che ho chiamato.»
«Ah, no?»
Munch sentì che arrivava un’altra chiamata al suo cellulare. Ludvig Grønlie. Per fortuna aveva imparato come si faceva a rifiutare le chiamate senza dover interrompere la telefonata in corso. Holger Munch apparteneva alla vecchia scuola e se aveva uno smartphone era solo perché gliel’avevano ficcato in mano.
«H... ho deciso di sposarmi» disse Miriam, tranquilla.
«Che cosa hai detto?»
«Mi sposo» ripeté Miriam, più chiaramente adesso. «Quest’estate.»
«Ah, sì?» ribatté Munch. «Quindi è...?»
Miriam era stata fidanzata con un medico di Sandefjord, il padre di Marion, la nipotina. Dall’esterno sembrava una bella relazione, ma lui non era mai stato in buoni rapporti con quell’uomo. Adesso i due si erano lasciati e Marion abitava una settimana con la madre e una col padre. Munch in realtà si era impuntato, non voleva che la piccola si ritrovasse ad avere due case, ma la nipotina sembrava non avere nulla in contrario.
Ah, nonno, tutti hanno due case, non lo sapevi?
Una bambina di sei anni precoce, naturalmente, proprio come sua madre.
No, non lo sapevo, Marion.
È normale adesso, nonno, e poi si festeggiano due compleanni e si riceve il doppio dei regali a Natale e poi è quello che ha deciso il re.
Be’, è stato un re buono, allora.
Sì, non è vero? E abita al castello e quando è issata la bandiera è perché tutti devono sapere che è a casa e non in vacanza.
Ah, sì? Geniale.
Sì, il re è furbo. Non ha un lavoro, agita soltanto la mano dal balcone per salutare la gente. Posso avere un cavallo, nonno?
Un cavallo? E dove lo tieni un cavallo?
Non per me, nonno! Per la Barbie, non può essere vestita da cavallerizza senza avere un cavallo. Non ti pare?
Certo che no, chiaro.
«N... non ti sto chiedendo il per... messo, papà. Volevo s... soltanto dirtelo.»
Pur vittima di un gravissimo trauma, sua figlia era rimasta la stessa. Nessuno poteva dirle che cosa doveva fare.
«Certo» tossì Munch. «E... chi è?»
«Era... p... per questo che te lo v... volevo dire. V... vorrei che lo incontrassi. Si chiama Ziggy e mi rende m... molto felice» disse Miriam.
Munch notò che la figlia ora non aveva quasi più fiato.
«Congratulazioni, Miriam, non vedo l’ora.»
«Davvero?»
«Certo. Indosserai l’abito bianco? Ti accompagnerò all’altare?»
La figlia fece una flebile risatina.
«Q... questo lo vedremo p... papà. Pensiamo di f... farlo qui in giardino.»
«Ti accompagnerò ovunque si deciderà di farlo, Miriam, va bene?»
Calò il silenzio.
«Grazie papà. L... o apprezzo m... molto» concluse la figlia.
«Adesso riposa, d’accordo?»
«Sì.»
«Sono contento di incontrare questo Ziggy. Vengo appena posso. Siamo un po’ indaffarati in questo momento, ci vorrà qualche giorno, ok?»
«Grazie.»
«Riposa, ora, ci vediamo presto.»
«Ok, papà. S... stammi bene.»
«Anche tu, Miriam.»
Munch aveva appena riagganciato quando squillò di nuovo il telefono.
«Sei a casa?»
«Sì...»
«Andiamo insieme?»
«Volentieri» rispose Munch. «Vieni qui tu?»
«Dieci minuti» rispose Mia e riagganciò.