Ospedale psichiatrico di Blakstad. Un monumento giallo a mezz’ora d’auto dalla città. Gli alberi e il parco intorno. Il grande lago. Una volta Mia era a un tavolo del Lorry, molto tempo prima, nella sua vita precedente, e aveva sentito una conversazione al tavolo accanto.
«Com’è che sono i pazzi ad avere la vista migliore? Voglio dire, vai dove vuoi in tutto il paese, è sempre uguale. Bergen. Trondheim. Qui in città. Prima Real Estate. Stanno bene, cazzo, di’ di no... Danno di matto. Li mettono dentro. Non importa chi sono. Pensa che cosa si sarebbe potuto fare di quei terreni.»
Mia scese dall’auto e, mentre seguiva Munch verso il grande cupo edificio, non poté fare a meno di pensare che avevano ragione. L’ospedale psichiatrico di Blakstad aveva una posizione che era degna di un re. «Primario qui, e in aggiunta uno studio privato in città?» disse Munch gettando il mozzicone della sigaretta.
Mia infilò la mano in tasca per prendere un’altra pasticca.
«Non è così strano.»
«Forse no» mormorò Munch.
«Lei è stata in cura qui?» chiese Mia mentre si avvicinavano al monumentale edificio.
«A quanto ho capito, no» rispose Munch. «Nel suo studio privato. Quanto credi che guadagni questa gente?»
«Che vuoi dire?»
«Pagato dallo stato. Direttore di una struttura come questa. E in più uno studio privato... È legale questo? Intendo dire, ovviamente lo è, eppure...»
Scosse la testa e infilò la mano nella tasca del montgomery in cerca di un’altra sigaretta. A metà del sentiero cambiò idea e la lasciò in tasca. Un infermiere con una coda di cavallo ben tirata e un tesserino intorno al collo li fece entrare nel grande edificio.
Mia si era figurata il classico psichiatra tedesco, robusto, con barba, occhiali, giacca in tweed e pipa, ma Wolfgang Ritter tutto sommato aveva poco a che fare con il proprio nome. L’uomo dall’altro lato della scrivania era magro come un’acciuga, effeminato, e parlava con una voce talmente bassa che Mia dovette avvicinarsi per sentire quello che diceva. Lo psichiatra indossava un maglione marrone con il collo alto che avrà avuto almeno trent’anni e dal resto dell’abbigliamento, oltre che dagli spogli arredi della stanza, Mia intuì che doveva essere un uomo tutto preso dalle cose dello spirito e non dall’apparenza di ciò che gli stava intorno. Una bassa lampada che diffondeva luce rosa su uno dei davanzali e l’orologio decisamente anni Settanta alla parete erano l’unica cosa che si sarebbe potuta associare al «Dottor LSD», visto che era quello il suo soprannome.
«Una tragedia, una vera tragedia» disse Ritter a bassa voce. «Vivian era una principessa. Davvero unica.»
«Mi spiace» disse Munch.
«La madre sarà disperata, immagino...» aggiunse Ritter spingendo la montatura d’acciaio degli occhiali sulla radice del naso.
Una strana osservazione, ma Mia non approfondì.
«Ci scusi se andiamo diritti al punto, ma abbiamo molto da fare» disse. «Che diagnosi aveva esattamente, Vivian?»
«Diagnosi, malattia, normalità, cosa significano questi termini?» rispose Ritter appoggiandosi allo schienale della sedia. «Siamo prima di tutto esseri umani, no? Le etichette contano, ma fino a un certo punto.»
Munch lanciò un rapido sguardo a Mia e lei colse al volo il significato. Ritter veniva da un altro pianeta.
«Zeldox e Zoloft» disse Munch, e tirò fuori un foglietto dalla tasca. «Serviranno pur a qualcosa... È stato lei a prescriverglieli?»
Spinse il foglietto sulla scrivania ingombra di carte. Ritter prese gli occhiali e vi gettò un rapido sguardo, poi scrollò lievemente le spalle e tornò ad affondare nella sedia.
«Un po’ d’aiuto ci serve. No? Un diabetico ha bisogno di insulina, un bambino mastica pasticche di fluoro che la natura non ci fornisce.»
«Credo che lei abbia frainteso» disse Mia, calma. «Non vogliamo incasellare nessuno. Stiamo semplicemente cercando di farci un’idea di chi fosse Vivian. Una ragazza di ventidue anni non prende psicofarmaci per divertimento, no?»
Wolfgang Ritter rimase in silenzio per un istante osservandoli da dietro le lenti degli occhiali.
«Vivian Berg soffriva di quello che definiamo un disturbo dissociativo dell’identità» disse infine. «Provocato da una madre che non era stata in grado di prendersi cura di lei. È cominciato quando era ancora bambina, il bisogno della mente di svanire in un’altra dimensione perché la realtà intorno era troppo difficile da gestire. Di qui l’emergere di più personalità. Era questo che intendeva? Era questo che voleva sentire?»
Scosse il capo quasi impercettibilmente guardando Mia dall’alto in basso.
So fare il mio lavoro, se era questo che ti domandavi.
«Disturbo...?» ripeté Munch.
«Dissociativo d’identità» ripeté Ritter. «Spesso viene scambiato con la schizofrenia, il che porta a curare i pazienti in modo sbagliato, ma non è ovviamente il nostro caso. In genere credo in ciò che faccio. Migliorava sempre di più, Vivian. Una tragedia, certo, che non abbia potuto sperimentare una piena guarigione.»
«È stata ricoverata qui?» domandò Munch.
«Non al Blakstad, no. Era una dei miei pazienti privati.»
«Più personalità?» domandò Mia curiosa.
«Sì, è per questo che le diagnosi vengono così spesso confuse» disse Ritter. «Si somigliano molto. Spesso i sintomi possono essere i medesimi. Ridotto controllo degli impulsi, instabilità affettiva, autolesionismo, derealizzazione.»
«Derea...?»
«Perdita del senso della realtà» sorrise Ritter.
Munch gettò un rapido sguardo a Mia.
«Difficoltà a riconoscere ciò che è reale intorno a lei?»
«Esatto» confermò Ritter. «Una cosa che naturalmente comporta difficoltà di adattamento nel mondo reale. Lavoro, amici, famiglia.»
«Quindi lei pensava di essere un’altra?» domandò ancora Mia.
«Sì.»
«E chi?»
Ritter si ritrasse leggermente.
«Sentite, so che avete accesso alla sua documentazione, ma non mi sembra comunque...»
Si tolse gli occhiali.
«... corretto da parte mia, capite?»
«Quindi preferisce che qualcuno venga qui a prendere informazioni dal suo computer?»
Mia si pentì del tono un po’ aspro, ma era stanca e non aveva tempo per i convenevoli.»
«Certo che no» rispose Ritter. «Tuttavia...»
«La capiamo» intervenne Munch. «Ma ci sarebbe di grande aiuto se potesse...»
«Un uomo, un uomo forte e maturo» disse Ritter con voce piana.
«Un che cosa?»
«A volte Vivian credeva di essere un uomo maturo.»
«Perché un uomo?» domandò Munch.
«No, me lo dica lei» rispose Ritter scrollando un po’ le spalle. A quel punto calò il silenzio nella stanza.
«Aveva bisogno di qualcuno che fosse più forte di lei» disse infine Mia.
Notò che Ritter aveva avuto un sussulto: non si era aspettato quella risposta.
«Può essere una teoria» rispose lo psichiatra portandosi alla bocca la stanghetta degli occhiali. «Si presume che fenomeni dissociativi sorgano come meccanismo difensivo, in genere dopo esperienze traumatiche. Il fattore eziologico più significativo sembra riconducibile ad aggressioni sessuali o fisiche gravi e continue. Certo, più precocemente si verificano, più gravi divengono i sintomi.»
«Quindi qualcuno aveva abusato di Vivian?» domandò Munch.
«No, non posso affermarlo con certezza» mormorò Ritter.
«E allora perché aveva questo...»
Munch si girò verso Mia.
«Disturbo dissociativo d’identità» ripeté lei scandendo le parole.
Ritter le aveva lanciato una sfida e lei desiderò di non essere stata così ingenua da averla accettata, ma c’era qualcosa in quello sguardo severo che non le permetteva di rinunciare.
«Non è stata abusata. O meglio, lo è stata per associazione» disse secca.
«Che vuoi dire?» le domandò Munch.
«Raymond Greger» proseguì Mia.
«Sì?» disse Munch confuso.
«Probabilmente Karoline Berg è stata in qualche modo abusata dal fratellastro e ha inglobato la figlia nella sua sofferenza. Accade spesso, non è così, dottore? Madri single e figlie? Confusione di ruoli? Chi deve prendersi cura dell’altro non lo fa?»
Se Ritter fosse impressionato, non lo diede comunque a vedere, ma Mia si accorse che il suo tono era cambiato.
«Vivian Berg non è stata abusata, no» spiegò. «Ma è cresciuta in un contesto molto poco accogliente. Accade più spesso di quanto si pensi. Una piccola mente fragile della quale non ci si prende cura, presto può cercare un luogo in cui nascondersi per sentirsi al sicuro. Di solito dico che è per questo che non credo in alcun Dio. Se ce ne fosse uno, molto probabilmente avrebbe creato una specie che per potersi arrangiare da sola non avrebbe dovuto attendere i vent’anni e non sarebbe stata così facile da danneggiare, voi non credete? L’umanità... Animali deboli, ecco cosa siamo.»
«Quindi ci si nasconde all’interno della propria testa?» commentò Munch.
«Ci si nasconde. Si scompare. Si cerca aiuto» sorrise Ritter.
«Ma» proseguì Munch, «se era seriamente malata, perché non è stata ricoverata?»
«Naturalmente ne abbiamo parlato» rispose Ritter. «Ma la danza per lei era importante.Venendo da me con regolarità, riusciva ad arginare il problema.»
«Stava migliorando?»
«Sì, e molto, anche. Le pillole aiutano, ma la cosa più importante era senza dubbio la distanza.»
«La distanza?» ripeté Munch, ma afferrò la risposta nel momento stesso in cui poneva la domanda. «Dalla madre?»
«Sì» disse Ritter. «La distanza fisica dal problema ovviamente non è tutto, ma è più importante di quanto si creda.»
«Lei ne era consapevole?» chiese Mia.
«Di che cosa?»
«Intendo: era pienamente consapevole della sua malattia?»
«In parte» rispose Ritter. «In realtà lei veniva in cerca di aiuto per i sintomi, è normale quando si comincia.»
«E quali erano?»
«Disturbi alimentari, soprattutto, ma nella sua professione sono abituali, quindi mi ci è voluto un po’ di tempo per capire quale fosse realmente il problema.»
Mia percepì una punta di orgoglio nella sua voce.
«Tratta molti pazienti con questo disturbo?»
«Purtroppo non mi è consentito parlare degli altri pazienti» rispose Ritter e sorrise di nuovo, questa volta con uno sguardo un po’ tronfio.
«Non le ho chiesto di farmi esempi concreti, soltanto...» insisté Mia.
«Mi sembra di essere stato chiaro: le vostre autorizzazioni vi danno accesso soltanto al fascicolo relativo a Vivian.»
«Parlava molto della madre?» domandò Munch.
«All’inizio no. Ogni tanto, certo. Bisognava farlo. Le procurava sofferenza. Amava la madre più di ogni altra cosa al mondo. È difficile, no? Rendersi conto che in realtà si tratta della persona che più ti ha fatto del male...»
«Nominava qualche volta Raymond Greger?»
«Oh, sì, certo, molte volte.»
«Come?»
«Con rabbia, disperazione, sapeva tutto ciò che la madre le aveva raccontato. Parlò dell’assassinio.»
«Assassinio?»
«Ah, sì, certo, lo consiglio a tutti i miei pazienti.»
«In che senso?» domandò Munch lanciando un’occhiata a Mia.
«Non prendetemi alla lettera» sorrise Ritter togliendosi nuovamente gli occhiali. «Ma è una parte importante della mia terapia.»
«L’assassinio?»
Ritter accennò di nuovo una risata.
«Un bel modo per fare i conti con l’animale che è dentro di noi e di cui non riusciamo a sbarazzarci, lei non trova? Ho avuto grande successo proprio con questo metodo, se mi è permesso dirlo.»
«E come avviene, se posso chiederlo?» domandò Munch curioso.
«Gli assassini?»
«Sì...»
Ritter tornò a sorridere.
«Be’, in diversi modi. A volte impersoniamo dei ruoli. A volte il paziente lo descrive. A volte lo disegna. Dipende da cosa si adatta meglio al singolo paziente.»
«E Vivian che cosa ha fatto?» chiese Mia.
Ritter tacque per un istante.
«Be’, non siamo arrivati così in là, ma c’eravamo quasi. Aveva pianificato un balletto.»
«Un balletto... assassino?» domandò Munch arricciando il naso.
«Lei non l’ha mai vista danzare, vero?» disse Ritter.
«No» rispose Munch.
«E lei?» chiese Mia.
«Sì, molte volte. Lei era... sì, come posso dire? Unica. Sublime. È davvero una perdita per il mondo che non ci sia più. Sarebbe potuta arrivare dove voleva. Vederla sul palcoscenico era... no, forse non è possibile descriverlo.»
Munch lanciò un’altra occhiata a Mia, che capì nuovamente che cosa pensava.
Il cellulare che era sul tavolo vibrò per un istante. Ritter inforcò gli occhiali e lo guardò.
«Mi dispiace, ma adesso devo lasciarvi. Ho dei pazienti che non possono aspettare.»
«Grazie, per ora» disse Munch alzandosi. «Ci farà avere tutto ciò che ha per iscritto?»
«Se ne occuperà la mia segretaria» disse Ritter porgendo loro la mano. «Chiamatela se dovesse esserci dell’altro.»
«Tu che ne pensi?» domandò Munch una volta che furono tornati al parcheggio.
«Abbiamo qualche tessera in più del puzzle, no?» disse Mia, afferrando un’altra pasticca nella tasca del giubbotto.
Munch si accese una sigaretta mentre la pioggia riprendeva a cadere su di loro. La primavera che a Oslo stentava ad arrivare.
«Raymond Greger?»
«Dobbiamo trovarlo» disse Mia.
«Già. Telefono a Larvik, chiederò di assegnare più uomini. Tu hai fame?»
«Mangerei volentieri qualcosa.»
«Bene. Non ragiono, io, a stomaco vuoto. Hamburger?»
«Qualcosa di più salutare, magari?»
«L’ha vista ballare...»
«Lo so» disse Mia.
«Hai avuto la mia stessa sensazione?»
«Già. Lo facciamo seguire?»
«Cerchiamo di conoscerlo un po’ meglio» rispose Munch precedendola verso la macchina mentre il suo cellulare cominciava a squillare.
Lei capì guardandolo.
Molto prima che lui riagganciasse.
«Dove?»
«In un hotel di Gamlebyen.»
«C’è un nesso?» domandò Mia afferrando rapida la maniglia della portiera dell’auto.
Munch non rispose. Si limitò ad annuire con lo sguardo e si mise rapido al volante.