21

«Come gestiamo la cosa?» domandò Anette quando Mia ebbe lasciato la stanza.

«A che ti riferisci? Alla stampa?» disse Munch.

Uno dei tecnici della Scientifica fece capolino nella stanza, ma Munch gli fece segno di aspettare.

«Sì» disse la Goli. «Uno è un conto. Due è diverso. Qualcosa dobbiamo dire, credo.»

«Indici una conferenza stampa» sospirò Munch. «Ma non diciamo nulla circa un possibile collegamento. Non ancora. Nel rispetto delle indagini, bla bla bla, conosci la tiritera.»

«E Mikkelson?» chiese Anette.

«È venuto da te?»

«Indovina» sospirò Anette mentre il suo cellulare in tasca vibrava di nuovo. «Al solito. Credete si tratti di un serial killer? Munch è pronto per una cosa simile, così presto? Mia c’è con la testa?»

«Ancora? Quando la smetterà?»

«Lo sai che si è fatta ricoverare?» disse Anette a bassa voce. «Per disintossicarsi?»

«So che si sente meglio e ha un aspetto decisamente migliore, sì. Che intendi con ’disintossicarsi’?»

«La clinica Vikoff giù a Jæren» proseguì Anette. «Si è fatta ricoverare appena dopo Capodanno ed è rimasta dentro un mese.»

«Ah, sì? Bene. E quindi?»

Munch cominciò a irritarsi. Era sempre così. Mikkelson. Quando Mia gli risolveva i casi e lo faceva apparire come un eroe agli occhi dei media, allora, per carità, non c’erano mai questioni. E lui? Lui sarebbe stato in grado di svolgere il suo lavoro adesso?

«No, non lo so» continuò Anette. «L’hai appena vista anche tu, no? Non mi sembra sempre presente a se stessa...»

«Mia se la caverà benissimo» brontolò Munch sentendo all’improvviso un’acuta voglia di sigaretta.

«E tu?» domandò Anette gentilmente.

«Io? Io che cosa?»

«Credo che tutti capirebbero, se per te questo fosse troppo, Holger. Due omicidi in breve tempo? Non è passato molto dall’episodio di Miriam...»

«E tu da che parte stai?»

«Dalla tua ovviamente, Holger, volevo soltanto...»

«Sto bene. Mia è perfettamente a posto. Puoi rispondere a Mikkelson di tenere il becco chiuso se non è in grado di collaborare in modo costruttivo. Abbiamo del lavoro da fare qui. Allora, indici la conferenza stampa?»

«Certo.»

L’impaziente tecnico della Scientifica fece nuovamente capolino sull’uscio e Munch gli fece segno di entrare. Si scrollò di dosso l’irritazione con una sigaretta sotto la O lampeggiante al neon sulla strada, poi rientrò nello stanzino dietro la reception.

«Per quanto dovrò rimanere qui?» domandò l’anziano portiere.

Era evidente che la vista del cadavere nella stanza nove l’aveva impressionato.

«Holger Munch, unità Omicidi» dichiarò Munch porgendogli la mano.

«Jim» mormorò il vecchio. «Myhre. Jim Myhre. Mi dispiace.»

Una coda di cavallo grigia e malconcia e occhiali tondi. Munch aveva già visto quello sguardo, molte volte. Il lieve nervosismo quando si ha a che fare con le autorità. Nulla di strano, ovviamente. Se quello era il proprietario che gestiva l’Hotel Lundgren, probabilmente doveva aver avuto a che fare più di una volta con la polizia nel corso degli anni.

«Tutto a posto, Jim» disse Munch. «Lo vedo che è sfinito. È stato lei di guardia tutta la notte?»

«E come li guadagno altrimenti i soldi? Cazzo, mica posso assumere qualcuno. Lo vede qui come funziona.»

«Capisco» disse Munch. «Quindi è stato lei che l’ha accolto, Kurt Wang?»

«Chi?» domandò Myhre.

«L’uomo della stanza nove. Non prendete il nome degli ospiti?»

«Solo contanti» mormorò Myhre strofinandosi un po’ gli occhi. «Non mi importa di come si chiamano, purché paghino.»

«Quando è arrivato?»

Myhre ci pensò un po’.

«Tardi. Sarà stato intorno alle undici...»

«Ed è venuto solo?»

«Sì.»

«Nessun altro, diciamo né prima né dopo?»

«Che vuole dire?»

«Nessuno che l’ha seguito?»

«No» disse Myhre posando la tazza di caffè sul tavolo.

«E come le è sembrato?»

«Che intende dire?»

«Com’è stata la conversazione tra voi?»

«La conversazione?»

«Sì... come si è svolta? Buonasera, vorrei una stanza?»

«Ah, in quel senso» rispose Myhre tossendo leggermente. «Non lo so. È entrato. Con i soldi in mano. Non ricordo esattamente quello che ha detto.»

«Ci provi» insisté Munch.

«Mi serve una stanza, qualcosa del genere. Voglio dire, niente di particolare. A parte che sembrava fatto, ma qui dentro è normale. Non siamo esattamente al Grand Hotel, lo so, dobbiamo accontentarci di quello che viene.»

«’Fatto’?»

«Gli occhi a palla» spiegò Myhre facendo un tentativo di riprendere la tazza dal tavolo, senza riuscirci. «Molto in fuori, se me lo chiede, ma, sì, come le ho detto, qui dentro non facciamo tanto gli schizzinosi.»

«E il sassofono?»

«Che intende dire?»

«Lo teneva in una custodia?»

«Che intende con sassofono? Non aveva nulla con sé.»

«Nemmeno una borsa, una sacca, qualcosa del genere?»

Myhre scosse la testa.

«Soltanto i soldi in mano.»

«Poi che è successo? Come mai lei a un certo punto è entrato nella sua stanza?»

«Non lo faccio mai, cazzo, però, dai: sempre la stessa canzone? Tutta la notte? Ta-ta-ta-ta-ta tutta la notte, c’era da diventare scemi!»

«Quindi è entrato?»

«No, ho bussato, ovvio, ripetutamente. E alla fine, be’, ho visto che la porta era socchiusa, in realtà non ero salito con l’intenzione di entrare.»

Myhre restò per un istante sovrappensiero, riuscì finalmente a portare la tazza di caffè alla bocca. Era provato.

«Non aveva parlato con nessuno degli altri ospiti? Nessun altro, dentro o fuori?»

«No» rispose Myhre. «O meglio, sì...»

Si grattò leggermente la sommità del capo.

«Con chi?»

«Era dell’impresa di pulizie.»

«Vada avanti.»

«Abbiamo un accordo con dei vietnamiti» mormorò Myhre. «E ci mandano abitualmente, come dire, non dei giovani bianchi, non so se capisce...»

«Si spieghi.»

«Be’, ce li mandano quasi gratis, ci procurano forza lavoro a basso costo, funziona così» rispose Myhre arricciando il naso.

«Ma questa volta un giovane? Norvegese, magari?»

«Un muso pallido, sì» disse Myhre. «Non ci ho pensato più di tanto, in realtà, la gente ha bisogno di lavorare, indipendentemente dall’aspetto, capisce, non me ne frega niente di queste cose.»

«E quest’uomo ha parlato con Kurt Wang?»

«Sì, li ho visti in corridoio.»

«Che è successo?»

«Be’, non mi sono fermato a lungo, ho solo visto che parlavano, tutto qui.»

«È un’impresa di pulizie efficiente?»

«Sì, sì, sono molto soddisfatto, bravi e veloci. Qualche volta permetto che qualcuno si fermi a dormire, è un accordo che abbiamo, lei non è della finanza, vero?»

«No» rispose Munch. «Mi dica il nome dell’impresa. Ha un indirizzo?»

«Sì, allora...» rispose Myhre posando nuovamente la tazza. Si alzò, si avvicinò a una bacheca di sughero stracolma dietro al bancone e tornò con un biglietto da visita.

«Lindo e Pulito, di Sagene?»

Myhre annuì.

«Una famiglia vietnamita. Davvero brava gente. Noi ogni tanto, sì, come le ho detto, aiutiamo i lavoratori offrendo loro alloggio.»

Tacque e osservò Munch con la coda dell’occhio.

«Che lei offra ospitalità a immigrati clandestini non è affar mio.»

«No, no, è che noi...»

«Come le ho detto, a me non interessa. Ma questo ragazzo di cui parla, era uno che aveva già visto prima?»

«No.»

«Ma era dell’impresa di pulizie?»

«Sì, sì» disse Myhre. «È venuto con tutta l’attrezzatura. Ha fatto un lavoro pessimo, comunque.»

«Che intende dire?»

«Cazzo, non ha nemmeno pulito. Con la scusa che doveva andare a prendere qualcosa è uscito e non l’ho più visto.»

«Ma ha parlato con Wang? L’uomo della stanza nove?»

«Gliel’ho appena detto, no?» rispose Myhre sbattendo le palpebre. «Posso andare adesso? È da ieri sera che non dormo.»

«Dovrà seguirci al commissariato» rispose Munch alzandosi.

«Adesso?» sospirò Myhre.

«Sì» disse Munch tornando alla reception.

Anette Goli aveva appena terminato una telefonata e gli andò incontro.

«Fa’ portare giù il cadavere. Deposizione con tutte le firme, ok?»

«Ok» disse la Goli facendo cenno a un poliziotto sulla porta di avvicinarsi. «Tu te ne vai?»

«Sagene» rispose Munch infilando il biglietto da visita nella tasca del montgomery.

«Sei in ufficio più tardi?»

«Sì» rispose Munch.

«Va bene» disse la Goli mentre il suo telefono squillava di nuovo.